Lug 18, 2004 | Centro internazionale, Spiritualità
«E’ da poco iniziato il processo per la possibile beatificazione di Igino Giordani, che noi chiamavamo Foco, per il fuoco dell’amore che viveva in lui. Mi sono chiesta: ha pensato Foco nella sua vita a farsi santo? Che idea aveva della santità?
Ho consultato, allo scopo, alcune documentazioni ed ho scoperto un Foco nuovo in certo modo anche per me. Egli non solo ha meditato qualche volta sulla santità, ma è stato immerso nel tentativo quotidiano di farsi santo. Come? Iniziando con l’impersonare quel tipo di santo che egli definisce così: “Un cristiano con la spina dorsale”, frutto perciò di un’ascesi personale quotidiana. E’ una storia meravigliosa la sua. Nel 1941, sette anni prima che incontrasse il Focolare, nel Diario di fuoco, un suo libro che iniziava a scrivere, leggiamo: “Infine, quel che conta è una cosa sola: farsi santi”. Nel 1946, chiamato a candidarsi alle elezioni politiche, perplesso alquanto, si poneva questo interrogativo: “Può un uomo politico farsi santo?” Non conosceva una risposta precisa al suo anelito: farsi santo. Quando nel 1948 incontrò il Movimento, rimase, come egli disse, folgorato, sconvolto, trasformato. Perché? Per più motivi, ma anche perché la sua spiritualità fino allora era stata prevalentemente individualista. Da quel momento invece gli si era aperto un cammino di santità collettiva. Definiva il nostro come “un Movimento che ci induce a fare la scalata a Dio in unione, in cordata… Il fratello vale come ianua coeli…”, la porta del cielo. E scrive: “Dio scende in me per il tramite del pane (eucaristico); io salgo a Lui per il tramite del fratello”. Immerso nella spiritualità comunitaria, in un colloquio intimo con Gesù, lo ringrazia così: “Il tuo amore mi ha scoperto i fratelli (…); me ne ha fatto il viatico per salire sempre di terra in cielo”. E’ poi suo quello che chiamerà il “mistero d’amore”: (…) “Dio, il Fratello, Io”. Nel 1955, in mezzo alle prove che non mancano mai a nessuno, va acquistando una certa familiarità con la Santissima Trinità, ed anche qui il bisogno di santificarsi si fa evidente. “Questi passi – scrive -, affaticati (…) sono la marcia di ritorno alla casa tua, o Padre; (…) tutte queste pene, si fanno gocce di sangue, del tuo Sangue, o Figlio; (…) e questo bisogno di santificarsi è partecipazione dei tuoi doni, o Spirito Santo”. Da particolari episodi della sua vita si capisce come lo Spirito Santo, in questa sua tensione alla santità, lo abbia pian pianino introdotto nella vita mistica. Percorre poi un cammino di distacco progressivo da ogni cosa, ma lo vede come la possibilità di santificarsi nell’unione con Dio: “Osservando – scrive – con pena questa caduta di fronde (illusioni di fama, di potere, amicizie), dall’albero della mia vita, (…) mi sono ancora meglio accorto (…) che ho un più intenso convegno amoroso con Dio: l’anima trova tempo (…) per intrattenersi con lo Sposo (…), per convivere con gli angeli e con i beati (…). Ora, via via l’unione si fa costante. Imparo e preparo la vita del Paradiso”. A proposito di vivere Gesù al posto del proprio io (è stato questo un suo desiderio costante), scrive nel ’63: “Parmi oggi d’aver (…) compiuto il trasloco; il trasloco del mio essere: dall’Io a Dio”. E “sente” l’unione con Dio: “Ecco – dice – l’immensità di Lui (…), io la sento nell’intimo della mia anima (…). Mi rivolgo all’interno e L’ascolto. Lo vivo. Si stabilisce, nel fondo dell’essere, un colloquio con l’Eterno: Dio in me”. E l’anno dopo incalza: “Ora sento che si vola (…)”. Due anni prima della partenza per il Cielo, conferma: “Sento d’aver trovato l’accesso libero per andare a Lui. Ora sono in terra e abito in cielo (…) Sono di Dio. Non mi serve altro”. Queste le poche frasi di Foco che ho potuto riportare sul suo anelito alla santità. Che dire? E che cosa dice Foco a noi, ancora pellegrini su questa terra? “Ora tocca a voi”. Percorriamo allora questo viaggio con amore. Facciamoci santi, imitando Foco soprattutto nel suo “mistero d’amore”: “Io, il fratello, Dio”. Amiamo il fratello, ogni fratello pronti a morire per lui. Sarà anche per noi la porta del Cielo». Chiara Lubich (altro…)
Lug 2, 2004 | Focolari nel Mondo, Spiritualità
Vincenzo, quarto degli otto figli della famiglia Folonari, era un bambino vivacissimo: a scuola faceva dispetti, chiacchierava invece di ascoltare, talvolta l’insegnante lo puniva; poi, dal giorno della sua prima Comunione, di colpo cambiò radicalmente. Un giorno a tavola Vincenzo domandò ai fratelli: “A che età ti piacerebbe morire?” “A me da giovane…”, “A me a 100 anni…”. E lui: “A me a 33 anni, come Gesù”.
Un ideale per cui vivere Qualche anno dopo, nell’estate del 1951, Vincenzo e due sorelle, finita la scuola, andarono in vacanza in montagna. Chiara Lubich si trovava in quel periodo a Tonadico sulle Dolomiti. Era diventato ormai consuetudine, per gli aderenti al Movimento dei Focolari nascente, quell’appuntamento sui monti trentini, che prese poi il nome di Mariapoli. I giovani Folonari, che già avevano conosciuto il Movimento a Brescia, loro città natale, ottennero il consenso dei genitori di passare le vacanze lì vicino, a S. Martino di Castrozza. Non mancarono di fare frequenti puntate a Tonadico; erano in gruppi diversi e non si vedevano durante il giorno. La prima sera, al ritorno in pullman, Vincenzo era sconvolto e felice: “Bellissimo, bellissimo!” – diceva. Era come se avesse trovato qualcosa che lo saziava profondamente, l’ideale per cui vivere. “Non tu hai eletto Dio, ma è Dio che ha eletto te” Alcuni mesi dopo, Vincenzo si trasferì a Roma, per iscriversi all’Università; si mise subito in contatto col focolare. Alla vigilia di Pentecoste andò a piedi al santuario della Madonna del Divino Amore per chiedere un segno esterno che gli facesse capire la sua vocazione. Il giorno dopo, quando Chiara lo incontrò, gli ricordò una frase di Gesù: “Non voi avete eletto Me, ma Io ho eletto voi!”. Da allora tutti lo chiamarono Eletto.
In una lettera a Chiara, Eletto scrisse: “Ho scelto Dio per sempre e solo Lui! Nessunissima altra cosa!” Le comunicò di voler dare al Movimento dei
Focolari tutti i beni avuti in eredità – tra cui gli 80 ettari su cui oggi sorge la cittadella di Loppiano – aggiungendo: “Non ne avevo nessun merito per possederli perché ricevuti gratis”.
Una vita per donare l’Ideale dell’Unità ai ragazzi Una delle caratteristiche di Eletto era il suo rapporto con i bambini ed i ragazzi del Movimento che Chiara gli aveva affidato. Alle Mariapoli di Fiera di Primiero era sempre circondato da loro. Con loro faceva passeggiate, organizzava commedie…. Parlando con la sorella Virgo, che a sua volta aveva affidate le ragazze, era solito dirle: “Ma t’immagini se questo Ideale dell’unità prendesse tutti i ragazzi, tutti i giovani… che cosa ne verrebbe fuori!”. Quel sorriso tra le onde del lago Quel 12 luglio 1964 era domenica; c’era con lui uno di questi ragazzi, Gabriele, ed Eletto lo invitò a fare una gita. Andarono al lago di Bracciano. Faceva molto caldo e decisero di fare un giro in barca. A circa 200 metri dalla riva Eletto – sportivo e nuotatore – si calò in acqua tenendosi con entrambe le mani. “E’ molto fredda” – disse a Gabriele – e diventò molto pallido. Il lago era agitato e un’onda staccò prima una e subito dopo l’altra mano dal bordo della barca, che, non più trattenuta dal peso di Eletto, si allontanò improvvisamente di diversi metri. Eletto gridò subito a Gabriele: “Vieni qui, vieni qui, avvicinati”, ma Gabriele, che non sapeva né remare né nuotare, non riusciva ad avvicinarsi; anzi, per la forte corrente, la barca si allontanava sempre di più. “Oramai vedevo a malapena il suo volto affiorare tra le onde, lo chiamavo, chiamavo aiuto, gli ho gridato che non riuscivo a raggiungerlo” – racconta Gabriele. E continua: “Mi ha gridato: ‘Vado a riva… vado a riva’, poi si è voltato, l’ho visto ancora per qualche secondo: il suo volto era illuminato da un sorriso radioso”. Poi scomparve, inghiottito dal lago. Il suo corpo non fu più ritrovato; la sua “tomba azzurra” è il lago di Bracciano.
Vivere nell’amore per morire nell’amore Chiara, il 19 luglio, scriveva: “Eletto era così buono, così umile che apparteneva più a Dio che a noi ed Egli, forse per questo, se lo è preso. Ora è con Gesù che ha amato, con Maria e con i nostri che sono in Paradiso e, da ultimo che si sentiva, è diventato il primo. Dio mio, che abisso questa vita e questa morte che ognuno di noi deve affrontare! Dacci di vivere nell’amore per poter morire nell’amore. Eletto ha fatto – come ultimo atto – un atto d’amore. Vuol dire che c’era abituato, perché altrimenti, in quei momenti, non si può pensare che a sé. Eletto nostro, prega in cielo ora per noi che preghiamo per te. Siamo certi che Dio, amandoti, ti ha colto nel momento buono. Tu Lo hai amato nella tua vita; non avevi che Lui e Maria. Sei giunto dove pur noi dobbiamo venire. Facci la strada, Eletto, e preparaci il posto (…). Ora tu che vedi quello che vale, come del resto t’eri abituato quaggiù, aiutaci a non andar fuori strada, a mantenerci nella carità come tu hai fatto”.
Il Movimento GEN La sua morte così improvvisa lasciò nello sgomento non solo gli adulti, ma anche i bambini e i ragazzi che lui seguiva. “Anche loro hanno avuto la loro prova – ha scritto Chiara – tremenda ed irrimediabile. Speriamo che su questo dolore nasca qualcosa per loro, nel seno del Movimento, per la gloria di Dio, a bellezza della Chiesa. Nulla di meglio del resto Eletto avrebbe desiderato”. Pochi anni dopo, nacque il Movimento Gen, che conta ora migliaia di giovani, ragazzi e bambini, di tutto il mondo. Il ricordo a Trevignano Il 12 luglio, a 40 anni dalla “partenza” di Eletto, saranno in molti a ricordarlo a Trevignano, sul lago di Bracciano (Roma). L’incontro inizierà alle ore 11.00, con la S. Messa nella chiesa di S. Maria Assunta, che sovrasta la cittadina. La conclusione è prevista per le ore 17. Per maggiori informazioni: tel.: 06/94315300; 06/9412419 (altro…)
Mag 20, 2004 | Focolari nel Mondo, Spiritualità
– Il filo d’oro – Roma anni ’40: sotto i bombardamenti – La scoperta – Nessuno la sfiora invano – L’impennata finale Il filo d’oro “Leggeremo bene la nostra storia solo in Paradiso, dove coglieremo per intero il filo d’oro che, speriamo, ci porterà dove dobbiamo arrivare”. Con queste parole, Renata stessa iniziava il racconto della sua vita, che aveva scoperta tutta intessuta dell’amore di Dio. Nasce il 30 maggio del 1930 ad Aurelia, una piccola cittadina laziale. In seguito, con la sua famiglia, si trasferisce a Roma. I suoi non frequentavano la Chiesa, ma erano persone rette, sincere, ricche di valori umani. “Non finirò mai – ha sempre detto Renata – di essere grata a Dio per avermi fatto sperimentare la vita di una vera famiglia, soprattutto per l’amore che c’era tra i miei genitori”.
Quando scoppia la seconda guerra mondiale, Renata ha 10 anni. La sua grande sensibilità non la lascia indifferente, e nella sua memoria restano alcuni momenti forti.
Roma anni ’40: sotto i bombardamenti Il 13 luglio del ’43 nel vedere le bombe che cadono, decide di dare una direzione diversa alla sua vita. Scrive: “Mi resi conto che la morte poteva arrivare ed avvertii come in un lampo la vanità dei giochi, del denaro, del domani. Fu un momento di grazia… Quando rientrai a casa mi sentivo diversa. Avevo deciso di essere migliore”. Scompare improvvisamente una sua compagna di scuola, molto brava. E’ ebrea. “Perché vengono uccisi gli ebrei? Non sono come noi?”, si domanda, chiedendo con insistenza spiegazioni al babbo. L’8 settembre del 1943, giorno decisivo per la storia d’Italia, vede dal balcone di casa un soldato tedesco che si trascina faticosamente lungo il muro, strisciando, quasi per paura di essere visto. Un sentimento di compassione per lui e il suo popolo la pervade tutta…. Immagini lontane nel tempo, ma che parlano già di un amore senza misura per l’uomo, per tutti gli uomini, che dominerà poi la sua vita. Intanto con l’età cresce anche l’esigenza di una fede consapevole e si fa urgente il problema di Dio. Comincia a frequentare la chiesa, si inserisce in un gruppo mariano, e tra i suoi insegnanti privilegia quelli che manifestano più dirittura morale. A 14 anni sente una specie di “prima chiamata”: la spinta interiore a dare la vita perché i suoi trovino la fede. Assetata di verità, tra i 15 e i 19 anni si butta a capofitto negli studi per sondare le realtà più profonde, alla ricerca di Dio. Si iscrive alla Facoltà di Chimica, perché spera di scoprirLo penetrando nei segreti dell’universo: “Mi appassionava la matematica per la sua logica. Avevo momenti di esultanza quando la mente scopriva qualcosa di nuovo. Speravo di acquistare una conoscenza che potesse in qualche modo farmi abbracciare l’universale. Cercavo Dio negli esseri intelligenti in cui poteva esservi un riflesso di Lui. Non sapevo ancora che solo nel Creatore-Amore avrei potuto scoprire il creato e le creature, ed amarle”. La scoperta L’8 maggio del ‘49, giorno che lei definirà “straordinario”, dopo qualche esitazione – perché non voleva togliere tempo allo studio – partecipa ad un incontro dove Graziella De Luca, una delle prime compagne di Chiara Lubich, parla della riscoperta di Dio-Amore, della nuova vita evangelica, iniziata a Trento pochi anni primi, mentre infuriava la guerra. “Quel che disse non lo ricordo. Ricordo che quando uscii di lì, sapevo che avevo trovato. (…) Ebbi l’intuizione che Dio è Amore. Quell’esperienza è penetrata fin nel più profondo del mio essere. Ho perso l’immagine, che avevo, di un Dio solo giudice, che castiga i cattivi e premia i buoni e ho sentito un Dio vicino”. Convinta di aver ricevuto una chiamata da Dio, dà una virata decisiva alla sua vita. Poco dopo conosce Chiara. Immediatamente avverte con lei un legame strettissimo, vitale, come tra madre e figlia, insieme alla conferma chiarissima di darsi tutta a Dio nel Movimento dei Focolari. E dice il suo SI’ a Dio per sempre.
La sua lunga esperienza di donazione in focolare inizia il 15 agosto del 1950. Ha compiuto da poco vent’anni. Il suo amore, la sua disponibilità senza limiti, la sua pace, pensando alla giovane età, non passano inosservate. Vive così i suoi 40 anni a servizio del Movimento dei Focolari, prima in vari focolari d’Italia, quindi in Francia, a Grenoble. Nel ‘67, a 37 anni, Renata arriva alla Scuola di formazione di Loppiano, dove trascorre gli ultimi 23 anni di vita come corresponsabile della cittadella stessa. Qui la sua donazione esplode in tutta la sua potenzialità. Più di mille giovani hanno assorbito da lei quella sapienza, quella forza interiore per crescere spiritualmente.
Nessuno la sfiora invano La sua vita è uno stupendo intreccio di amore e di dolore, nell’impegno di morire a se stessa per lasciar vivere Gesù in lei. Ed è Gesù che gli altri trovano stando alla sua presenza.
Per il suo amore senza misura, nessuno passa invano accanto a lei, come testimonia un gran numero di persone di tutte le categorie, condizioni, età, culture. Ognuno nel contatto con lei sperimenta quell’amore che fa di ogni uomo un prediletto di Dio, amato e compreso come figlio unico. Questo amore radicale, questa passione per l’uomo ha la sua radice nell’amore incondizionato a Gesù che sulla croce grida l’abbandono del Padre, e nel guardare come modello a Maria che, davanti al Figlio morente, ancora crede, ancora spera, ancora ama. Da qui la sua ascesa continua, compiuta secondo la Parola del Vangelo che considerava suo programma, quasi a tracciare la sua fisionomia spirituale: “Maria (…) serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Tensione costante alla santità, sviluppo delle virtù, corrispondenza adamantina al carisma della fondatrice “che tutti siano uno” (Gv. 17,21) fiorivano da un intelligente e continuo spostamento di sé. L’impennata finale A 59 anni le viene annunciata una malattia che ben presto manifesta tutta la sua gravità: davanti a lei non restano che pochi mesi. Da quel momento la sua vita è un’impennata in Dio, mentre continua ad essere felice, come aveva promesso anni prima a Gesù. Il suo letto si trasforma in una cattedra di vita. In Cristo la morte non c’è, c’è la vita, e lei ripete fino all’ultimo istante: “Voglio testimoniare che la morte è vita”. Non si lamenta e rifiuta i calmanti. Vuole restare lucida, sempre pronta a dire il suo sì pieno a quel Dio che l’aveva affascinata da giovane e che ora le chiede il dono della vita. Negli ultimi giorni sembra che sia sotto un’anestesia divina, tanto riesce – pur tra la sofferenza – a trasmettere attorno a sé sacralità e gioia piena: “Sono come in una voragine d’amore. Sono troppo felice”. Inabissata in una realtà paradisiaca, va incontro allo Sposo il 27 febbraio 1990. La biografia completa di Renata Borlone è stata raccolta nel libro “Un silenzio che si fa vita”, di G. Marchesi e A. Zirondoli (Città Nuova Editrice) (altro…)
Nov 3, 2003 | Spiritualità
Si può osservare che uno dei risultati del vivere la volontà di Dio nell’attimo presente, se fedele ed abbastanza intenso, è quello di prendere ottime abitudini che prima non avevamo. Ecco alcuni esempi. È molto frequente offrire a Gesù le azioni che compiamo con un “per te”, che trasforma la nostra giornata in un’ininterrotta preghiera; perché vivendo l’attimo presente noi abbiamo una grazia attuale che ci ricorda di dire davanti ad ogni azione: “per te”. Un’altra cosa: di fronte alle tentazioni – vivendo così – ci si sente atti a difenderci con più rapidità di prima. Di fronte agli attaccamenti a cose o persone o a noi stessi, è pronta la nostra tipica dichiarazione d’amore: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene”. Si dà poi il giusto posto alle azioni che dobbiamo compiere, senza anticiparle perché piacevoli, e senza posticiparle perché gravose; perché succede spesso così. Ancora: sgorgano spontanee dal cuore parole d’incoraggiamento, di stima, di lode, verso i fratelli con cui viviamo o, in qualsiasi modo, incontriamo, attraverso il telefono, ad esempio, scrivendo loro, e così via. E sempre più spesso si vede in loro Gesù, sicché, crescendo la nostra carità, facendosi via via più raffinata, anche la nostra unione con Dio s’approfondisce. Un’altra cosa: non si dimentica di salutare e adorare Gesù, vivo nel tabernacolo, ogniqualvolta gli passiamo accanto o ce lo ricorda una croce o un’immagine. Allo stesso modo si fanno atti di venerazione a Maria, specie ora dopo l’indimenticabile anno a lei consacrato. Un’altra cosa che si può osservare: si rimane di più alla presenza di Dio durante le nostre pratiche di pietà e si allontanano con più facilità le distrazioni. Ancora: ci si accorge che si riesce a mantenere con maggiore facilità, durante tutto il giorno, l’amore reciproco che, per noi cristiani, è importantissimo. Dice, infatti, la Scrittura che la sua attuazione – quella del comandamento nuovo – ci fa perfetti: “Se ci amiamo gli uni gli altri – dice Giovanni –, Dio rimane in noi e l’amore di lui in noi è perfetto” (cf 1 Gv 4,12). Prima – dobbiamo convenire –, pur con tanta buona volontà, la carità reciproca aveva delle oscillazioni, certamente con continue riprese, ma con interruzioni. Un’altra: divenuti più perfetti nelle piccole cose, sappiamo compiere meglio anche le grandi, e l’anima tutto il giorno è invasa di serenità, di pace e di gioia. Queste, alcune abitudini acquistate che alimentano diverse virtù nella nostra anima. Ed è proprio una bella accolta di virtù che fa del viaggio della vita un “santo viaggio”, un viaggio verso la santità. Alla chiesa, per promuovere un cristiano a modello degli altri, per dichiararlo beato e santo, non interessano tanto certi fenomeni pur mistici come le visioni, le locuzioni, i rapimenti, le bilocazioni…, ma interessano le virtù. Ora, se tutto questo, e più, possiamo costatare in noi vivendo con costanza l’attimo presente, dobbiamo concludere che siamo sulla buona strada. Ringraziamo perciò il Padre, che guida, con la storia grande del mondo, la nostra piccola storia.
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Set 20, 2003 | Spiritualità
Poiché siamo tuttora nell’anno dedicato dal Santo Padre a Maria, desidero offrire ancora qualche considerazione sulla Madre di Dio, così come l’abbiamo scoperta nell’esperienza del Movimento. Stavolta vorrei parlare di Maria Desolata, quale ci è apparsa dagli anni Sessanta in poi: un monumento di virtù, la sintesi di tutte le virtù cristiane figlie della carità. La Desolata, che è il “perdere assoluto”, “perdere universale” di tutto per non possedere che Dio, amato in sé e nei fratelli, ci è apparsa pure come lo “stampo” in cui poterci gettare per uscire “altro Cristo”, “altra Maria”. E come? “Vi è una grande differenza – dice in proposito san Luigi Grignion de Montfort – tra lo scolpire un’immagine in rilievo a colpi di martello e di scalpello, e farne una gettandola nello stampo. Scultori e statuari lavorano molto per produrre figure nella prima maniera, ed è loro necessario molto tempo; invece, per modellare nella seconda maniera lavorano poco e la realizzano in pochissimo tempo. “Sant’Agostino – continua Montfort – chiama la Vergine santa “forma Dei”, “stampo di Dio”: stampo adatto a formare e modellare degli dèi”. Naturalmente figli di Dio adottivi. “Chi è gettato in questo stampo divino, viene presto formato e modellato in Gesù Cristo. Con poca spesa, e in breve tempo, diviene dio, perché è gettato nello stesso stampo nel quale è stato formato un Dio” (1). Che dobbiamo fare allora per divenire “altro Gesù”, “altra Maria”? Illuminante può essere la tensione che da qualche tempo ci vede impegnati a cogliere, in modo sempre nuovo, la volontà di Dio nell’attimo presente: “stabilirci”, “perfezionarci” in essa, “adeguarci”, “abbandonarci”, “centellinare”, “stazionare”, “innamorarci” di essa, e così via. Vivere il momento presente con interezza sta risultando per molti fra noi un metodo che dà tanti vantaggi e, soprattutto, fa progredire nel cammino spirituale. Infatti, comportandoci così, noi perdiamo tutto: il passato, il futuro, ogni cosa o persona, ogni desiderio, ogni attaccamento per essere tutti lì, nel presente, a fare la volontà di Dio che significa amarlo con tutto il cuore, la mente, le forze. E questo è proprio vivere la Desolata, è perdersi ogni attimo nel suo “stampo”, nella sua “forma” ed uscire Gesù, uscire Maria, o piccola Maria, come il Signore ci vuole. 1) Trattato della vera devozione a Maria, n. 219. (da Città Nuova, n.19/2003)
Lug 28, 2003 | Chiara Lubich, Dialogo Interreligioso, Spiritualità
«Desidero innanzitutto esprimere la mia gioia nel trovarmi oggi qui in questo Centro di Caux, ricco di iniziative intente a rafforzare i fondamenti morali e spirituali delle società, e a promuovere l’incontro pacifico delle culture, delle civiltà e delle religioni. Ringrazio in modo particolare il dott. Cornelio Sommaruga, che ha voluto invitarmi a dare un mio contributo a questo importante seminario interreligioso. L’argomento che mi è stato chiesto di trattare oggi recita così: “Possono le religioni essere partners sul cammino della pace?”. E’ questa, come tutti sappiamo, una domanda di grande importanza e di estrema attualità. Nel dilagare del terrorismo, nelle guerre condotte in varie parte del mondo per rispondervi, e nella tensione permanente in Medio Oriente, molti vedono i sintomi di un possibile “scontro tra civiltà”. Esso sarebbe segnato e persino acuito dalle diverse appartenenze religiose. Questo modo di vedere però, provocato da estremismi e fanatismi di vario genere che distorcono le religioni, risulta, ad una lettura più attenta dei fatti, molto parziale. Mai come in quest’ora del mondo, infatti, credenti e responsabili di tutte le religioni hanno sentito di dovere lavorare insieme per il bene comune dell’umanità. Organizzazioni come la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace o iniziative come la giornata di preghiera per la Pace, indetta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel gennaio 2002, ne sono una riprova. In quell’occasione il Papa aveva ribadito, a nome di tutti i presenti, che “chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda” e che “non v’è finalità religiosa che possa giustificare la pratica della violenza dell’uomo sull’uomo” perché “l’offesa dell’uomo è in definitiva offesa di Dio” . Con l’11 settembre 2001, l’umanità ha scoperto, sgomenta, la natura di questo grande, enorme pericolo che è il terrorismo. Non è una guerra come le altre, perché esse – ne abbiamo tutt’oggi circa 40 sul pianeta – sono in genere frutto dell’odio, del malcontento, delle rivalità, di interessi personali o collettivi. Il terrorismo invece, come ha affermato ancora il Papa, è frutto anche di forze del Male con la M maiuscola, delle Tenebre. Ora, forze di questo tipo non si combattono con soli mezzi umani, diplomatici, politici e militari. Necessitano forze del Bene con la B grande. E il Bene con la B maiuscola è – lo sappiamo – Dio, e tutto ciò che ha radice in Lui. Si può combattere, dunque, con forze spirituali, con la preghiera, ad esempio, col digiuno, come hanno fatto i rappresentanti delle religioni del mondo nella città di san Francesco. Ma, ci sembra di dover dire che la preghiera non basta. Noi sappiamo che molte sono le cause del terrorismo, ma una, la più profonda, è l’insopportabile sofferenza di fronte a un mondo mezzo povero e mezzo ricco, che ha generato e genera risentimenti covati negli animi da tempo, violenza, vendetta. Si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione dei beni. Ma, come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé. Vanno mossi i cuori, vanno messi in comunione i cuori! E per questo occorre diffondere fra più gente possibile l’idea e la pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità universale. I fratelli sanno pensare ai fratelli, sanno come aiutarli, sanno condividere quanto hanno. Per rispondere a questa sfida senza precedenti, il contributo delle religioni è decisivo. Da chi, se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali? Le enormi risorse spirituali e morali, il contributo di idealità, di aspirazioni alla giustizia, d’impegno a favore dei più bisognosi, assieme a tutto il peso politico di milioni di credenti, che scaturiscono dal sentimento religioso, convogliati nel campo delle relazioni umane, potrebbero senz’altro tradursi in azioni tali da influenzare positivamente l’ordine internazionale. Molto si sta facendo nel campo della solidarietà internazionale, da parte delle organizzazioni non governative. Ciò che manca è che gli Stati facciano proprie quelle scelte politiche ed economiche atte a costruire una comunità fraterna di popoli impegnata a realizzare la giustizia. Perché di fronte ad una strategia di morte e di odio, l’unica risposta valida è costruire la pace nella giustizia. Ma senza fraternità non c’è pace. Solo la fraternità fra individui e popoli può assicurare un futuro di convivenza pacifica. Del resto la fratellanza universale e la conseguente pace non sono idee di oggi. Esse sono state spesso presenti nelle menti di spiriti forti perché “il piano di Dio sull’umanità è la fraternità e l’amore fraterno è iscritto nel cuore di ogni essere umano”. “La regola d’oro – diceva il Mahatma Gandhi – è di essere amici del mondo e considerare ‘una’ tutta la famiglia umana” . E Martin Luther King: “Ho il sogno che un giorno gli uomini (…) si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli (…); (e) che la fraternità (…) diventerà l’ordine del giorno di un uomo di affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo” . Su questa linea, il Dalai Lama, a proposito di quanto è successo negli Stati Uniti due anni fa, scriveva ai suoi: “Per noi le ragioni (di questi eventi) sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra”. Nonostante le distruzioni, può emergere dunque anche dalle macerie del terrorismo una grande, antica verità: che noi tutti sulla terra siamo un’unica grande famiglia. Ma chi ha indicato e portato questa verità come dono essenziale all’umanità, è stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: “Padre, che tutti siano uno” (Gv 17,21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, ha introdotto l’idea della fraternità universale. E con ciò ha abbattuto le mura che separavano gli “uguali” dai “diversi”, gli amici dai nemici. Ora senz’altro ognuno di noi, mosso dalla propria fede religiosa, avrà fatto le sue esperienze positive che possono essere utili alla soluzione di problemi simili agli attuali. E poiché questo è il momento in cui – come diceva un vescovo, specialista in questo campo – “le religioni devono tirare fuori dal profondo di sé le loro forze spirituali per aiutare l’umanità e portarla alla solidarietà e alla pace” , mi permettano di offrire loro la mia esperienza fatta a contatto con persone di ogni età, lingua, razza, e soprattutto di religioni diverse, in ogni angolo della terra. E’ un’esperienza di dialogo che può fornire una chiave per una convivenza fraterna e pacifica, esperienza che mi pare pure nello spirito delle sessioni di Caux, che privilegiano la testimonianza personale all’esposizione teorica. L’arte di amare A 60 anni dagli inizi dell’esperienza del Movimento dei Focolari che rappresento, si rinnova sempre la sorpresa nel vedere come il sentiero spirituale sul quale Dio ci ha condotto si incrocia con tutte le altre vie spirituali dei cristiani ma anche di fedeli di altre religioni. In pratica di diventare partner di essi nel cammino della fraternità e della pace. Pur mantenendo la nostra identità, ci permette di incontrarci e comprenderci con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. In altre parole, in obbedienza e in ascolto dello Spirito, ci è stato insegnato come mettere in pratica con successo quella parola che è iscritta nel DNA di ogni uomo e di ogni donna, perché creati ad immagine di Dio-Amore, Dio Padre: amare, amare il prossimo, amare i fratelli. Quella parola, la sola, che può fare dell’umanità una famiglia. Amore, non come in genere lo si può pensare, ma quel comportamento che ha imprescindibili esigenze. Quell’amore che, se per i cristiani è addirittura una partecipazione all’amore stesso che è in Dio, non manca nei Sacri Libri delle altre religioni. Il primo passo per noi, la prima illuminazione, su questo nuovo stile di vita fu durante la seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo degli ideali e alla perdita di tutti i nostri beni materiali, sentivamo di doverci aggrappare a qualcosa che non passa e che nessuna bomba potesse distruggere: Dio. Lo scegliemmo come unico ideale della nostra vita credendo nonostante tutto al Suo amore di Padre, amore verso tutti gli uomini della terra. Ma è ovvio che non bastava credere all’amore di Dio; non bastava aver fatto la grande scelta di Lui come Ideale della vita. La presenza e la premura di un padre chiamava ognuno ad essere figlio, ad amare a sua volta il padre, ad attuare giorno dopo giorno quel particolare disegno d’amore che il Padre ha su ciascuno, a fare cioè la Sua volontà. E si sa che la prima volontà di un padre è che i figli, tutti i figli, si trattino da fratelli, si vogliano bene, si amino. E vuole che amiamo, come fa Lui, tutti senza distinzione. Non c’è da scegliere fra simpatico o antipatico, bello o brutto, bianco o nero o giallo, europeo o americano, cristiano o ebreo, musulmano o indù… L’amore non conosce “alcuna forma di discriminazione”. Questa stessa fede nell’amore che Dio porta alle sue creature l’abbiamo trovata pure in tanti fratelli e sorelle di altre religioni, a iniziare da quelle abramiche che affermano l’unità del genere umano, la cura che Dio ha per tutta l’umanità e il dovere di ogni creatura umana di agire come il Creatore con immensa misericordia verso tutti. Dice un detto musulmano: “Dio perdona cento volte, ma riserva la Sua suprema misericordia per colui la cui pietà avrà risparmiato la più piccola delle Sue creature” . E che dire della sconfinata compassione per ogni essere vivente insegnata dal Budda, che diceva ai suoi primi discepoli: “O Monaci dovreste operare per il benessere di tanti, per la felicità di tanti, mossi da compassione per il mondo, per il benessere (…) degli uomini” . Per un cristiano inoltre tutti vanno amati, perché in ognuno si ama Cristo. Lo dirà Lui stesso un giorno: “L’hai fatto a me” (cf Mt 25, 40). Amare tutti, dunque, senza distinzione. Ma c’è un’altra caratteristica di quest’amore che è molto conosciuta, riportata in tutti i Libri Sacri, e che da sola basterebbe, se vissuta, a fare di tutto il mondo una grande famiglia: amare come si ama sé, fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. E’ la cosiddetta “regola d’oro”, della quale si fa menzione anche nella presentazione di questo seminario. Essa è tanto bene espressa da Gandhi quando ha affermato: “Tu ed io non siamo che una sola cosa: non posso farti del male senza ferirmi”. Nella tradizione musulmana si conosce così: “Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso” . Il Vangelo l’annuncia in questo modo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). E Gesù commenta: “questa infatti è la Legge ed i Profeti” (Ibid). In questa semplice norma, seminata dallo Spirito in tutte le religioni, vi è dunque il concentrato di tutti i comandi di Dio. Conviene allora fare grande calcolo di essa nel dialogo interreligioso. Da questa regola – che a ragione è chiamata “d’oro” – scaturisce una norma che da sola, se applicata, sarebbe il più grande motore dell’armonia fra individui e gruppi. Un altro modo che insegna come mettere in pratica il vero amore degli altri è espresso da una formula semplice, fatta di due sole parole: farsi uno. Farsi uno con gli altri significa far propri i loro pesi, i loro pensieri, le loro sofferenze e le loro gioie. Il “farsi un o” vale anzitutto nel dialogo interreligioso. E’ stato scritto: “Conoscere la religione dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come l’altro lo vede, penetrare nel senso che ha per l’altro essere buddista, musulmano, indù, ecc.” Questo “vivere l’altro” abbraccia tutti gli aspetti della vita ed è la massima espressione dell’amore, perché vivendo così si è morti a se stessi, al proprio io e ad ogni attaccamento; si può realizzare quel “nulla di sé” cui aspirano le grandi spiritualità e quel vuoto d’amore che si realizza nell’atto di accogliere l’altro; “farsi uno” significa mettersi di fronte a tutti in posizione di imparare, e si ha sempre da imparare realmente. Un’ulteriore esigenza di questo amore è forse la più impegnativa di tutte. Mette alla prova l’autenticità dell’amore, la sua purezza, e perciò la sua reale capacità di generare l’unità tra gli uomini e la fratellanza universale. Si tratta di amare per primi e cioè di non aspettare che l’altro faccia il primo passo; di essere i primi a muoversi, a prendere l’iniziativa. Questo modo di amare ci espone in prima persona, ma, se vogliamo amare, a immagine di Dio e sviluppare questa capacità di amore, che Dio ha messo nei nostri cuori, dobbiamo fare come Lui, che non ha aspettato di essere amato da noi, ma ci ha dimostrato da sempre e in mille modi che Egli ci ama per primo, qualunque sia la nostra risposta. Noi siamo stati creati in dono gli uni per gli altri e realizziamo questo nostro essere impegnandoci per i nostri fratelli e sorelle con quell’amore che viene prima di ogni gesto d’amore dell’altro. Questo ci insegnano con la loro vita tutti i grandi fondatori di religioni. Gesù ne ha dato l’esempio; Egli che ha detto: “Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli altri” (Cf Gv 15,13), l’ha data veramente. E l’ha data per noi peccatori e non certo amanti. Quando poi l’amare per primi è vissuto insieme da due o più persone, si ha l’amore vicendevole, principio e fondamento sicuro della pace e dell’unità del mondo. La nostra esperienza ci dice che per chi si accinge oggi a spostare le montagne dell’odio e della violenza, il compito è immane. Ma ciò che è impossibile a milioni di uomini isolati e divisi, pare diventi possibile a gente che ha fatto dell’amore scambievole, della comprensione reciproca, dell’unità, il movente essenziale della propria vita. E tutto questo ha un perché, una chiave segreta e un nome. Quando entriamo in dialogo fra di noi delle più varie religioni, quando cioè ci apriamo l’un l’altro nel dialogo fatto di benevolenza umana, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia, ci apriamo anche a Dio e “facciamo in modo – sono parole di Giovanni Paolo II – che Dio sia presente in mezzo a noi” . Ecco il grande frutto del nostro amore scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri sforzi per portare ovunque l’unità e la fratellanza universale. E’ quello che il Vangelo annunzia ai cristiani quando dice che se due o più persone si uniscono nell’amore vero, Cristo stesso è presente fra di loro e quindi in ciascuno di loro. E quale garanzia migliore della presenza di Dio, quale possibilità superiore può esistere per coloro che vogliono essere strumenti di fraternità e di pace? Questo amore reciproco, questa unità, che dà tanta gioia a chi la mette in pratica, chiede comunque impegno, allenamento quotidiano, sacrificio. E qui appare, in tutta la sua luminosità e drammaticità, nel linguaggio cristiano, una parola che il mondo non vuole sentire pronunciare, perché ritenuta stoltezza, assurdità, non senso. Questa parola è: croce. Non si fa nulla di buono, di utile, di fecondo al mondo senza conoscere, senza sapere accettare la fatica, la sofferenza, in una parola senza la croce. Non è uno scherzo impegnarsi a vivere sempre il reciproco amore, a portare la pace e suscitare la fratellanza! Occorre coraggio, occorre saper patire. Ora ciò che ho spiegato non è un’utopia. E’ una realtà vissuta da più di mezzo secolo da milioni di persone, esperienza pilota di quella fratellanza universale e di quell’unità alla quale tutti aneliamo. Per via di questo modo di amare si sono aperti nel nostro Movimento fecondi dialoghi: fra cristiani di molte Chiese, fra credenti di diverse religioni, e fra persone delle più varie culture. E insieme ci si avvia a quella pienezza di verità cui tutti tendiamo. L’esperienza di dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari Ed ora mi soffermerei in particolare sulle occasioni di incontro che abbiamo avuto, fin dagli inizi, con fratelli e sorelle di altre fedi religiose. La prima forte esperienza da noi fatta è stata quella a contatto con i Bangwa, una tribù camerunense radicata nella religione tradizionale, quasi sterminata dalla mortalità infantile, che stavamo iniziando ad assistere. Un giorno il loro capo, il Fon, e le migliaia di membri del suo popolo, si sono radunati, per una festa, in una grande radura in mezzo alla foresta, per donarci i loro canti e le loro danze. Ebbene: è stato lì che ho avuto la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti, noi e loro, con il suo amore. Per la prima volta, nella mia vita, ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana. Ma l’evento in qualche modo “fondante” di questo nostro dialogo è avvenuto a Londra nel 1977 ad una cerimonia per l’assegnazione del Premio Templeton per il Progresso della Religione. Vi avevo tenuto un discorso e quando stavo uscendo dalla sala, i primi venuti a salutarmi sono stati ebrei, musulmani, buddisti, sikhs, indù… Lo spirito cristiano di cui avevo parlato li aveva impressionati, cosicché mi è stato chiaro che avremmo dovuto occuparci non solo della nostra e delle altre Chiese, ma anche di questi fratelli e sorelle di altre fedi. Ha avuto inizio così il nostro dialogo interreligioso. Due anni dopo, infatti, è avvenuto l’incontro con una grande personalità buddista, il Rev. Nikkyo Niwano, fondatore della Rissho Kosei-kai, che mi ha invitato a Tokyo, a parlare sempre della mia esperienza spirituale a diecimila buddisti. Da allora fra focolarini e seguaci della Rissho Kosei-kai è nata una grande fratellanza dovunque nel mondo si incontrano. Ma gli incontri più sorprendenti con il buddismo sono avvenuti con degli eminenti rappresentanti del monachesimo tailandese. Durante un loro prolungato soggiorno nella nostra cittadella internazionale di Loppiano, in Italia, dove i suoi 800 abitanti cercano di vivere con fedeltà il Vangelo, due di loro sono stati profondamente toccati dall’unità fra tutti e dall’amore cristiano che non conoscevano. E sono venuti meno così pregiudizi che impedivano un vero dialogo fra loro buddisti e noi cristiani. Questi monaci, tornati in Tailandia, non hanno perduto occasione per raccontare, a migliaia di fedeli e a centinaia di monaci, la loro esperienza di incontro col Movimento dei Focolari. E’ nato così, se si può dire, un Movimento buddista-focolarino e cioè buddista-cristiano che è una delle porzioni di fraternità che stiamo edificando nel mondo. In seguito sono stata invitata in Tailandia in una loro Università buddista e in un loro Tempio a parlare a monache, a monaci ed a molti laici e laiche. Anche qui l’interesse è stato notevole, mentre noi siamo stati edificati da quel distacco da tutto che li distingue, dalla loro ascetica. E il dialogo con l’Islam? Sono ora 6.500 gli amici musulmani che appartengono al nostro Movimento, e ciò che ci lega ad essi è sempre la nostra spiritualità, in cui trovano incentivi e conferme per una più profonda, vissuta aderenza al cuore della spiritualità islamica. Abbiamo tenuto vari incontri degli amici musulmani. E ciò che ha caratterizzato questi convegni è stata anzitutto la presenza di Dio che si avverte specie quando pregano e che dà tanta speranza. Speranza che ho visto divenire realtà personalmente nella Moschea Malcolm Shabazz di Harlem (USA), sei anni fa, davanti a 3.000 musulmani afroamericani, ai quali sono pure stata invitata ad esporre ancora la mia esperienza cristiana. La loro accoglienza, a cominciare da quella del loro leader l’Imam W.D. Mohammed, è stata così calda, sincera ed entusiasta da aprire il cuore ai più promettenti sogni per il futuro. Sono tornata, poi, negli Stati Uniti, a Washington, tre anni fa, per presentare a molti la nostra collaborazione in occasione di una Convention organizzata da loro e che ha visto riunite settemila persone, cristiani e musulmani. In un’esultanza non semplicemente umana, in un abbraccio sincero, con un applauso senza fine, ci siamo promessi di proseguire il nostro cammino nella più piena unione possibile e di allargarlo ad altri: ed ecco così altri brani di fraternità. Non posso poi non citare gli incontri sempre più frequenti con sorelle e fratelli ebrei nello Stato d’Israele e altrove. L’ultimo da parte mia è avvenuto a Buenos Aires, con una delle loro più numerose comunità, seguito poi da altri membri del Movimento, in diverse occasioni. E’ stato con grande commozione che ci siamo scambiati un patto di amore scambievole, così profondo e sentito, da aver l’impressione di superare di colpo secoli di persecuzioni e di incomprensioni. Negli ultimi tre anni è iniziato un promettente dialogo in India anche con gli indù. Abbiamo contatti fraterni ed intensi con Movimenti Gandhiani nel sud di questa immensa nazione. A Mumbai un profondo dialogo è nato con professori dell’Università Somaiya e dell’Istituto Culturale Indiano. Più recentemente è incominciato un rapporto con un Movimento molto grande, Swadhyaya, che ha gli stessi scopi nostri dell’unità nella diversità e la fratellanza. Un anno fa, abbiamo anche tenuto un primo Simposio indù-cristiano. L’atmosfera che si è creata è stata così bella e alta che abbiamo potuto partecipare loro tante verità della nostra fede. L’impressione che ne abbiamo avuto è che ci si spalanca davanti un orizzonte che non immaginavamo. Pochi mesi or sono, sono tornata in India e abbiamo potuto continuare questo dialogo a livello della spiritualità che – a dire delle autorità della mia Chiesa – “è il culmine delle diverse forme di dialogo e risponde alle più profonde attese degli uomini di buona volontà” . Abbiamo ora in programma altri Simposi simili, buddista-cristiano e islamo-cristiano. Per l’espansione universale del nostro Movimento siamo in contatto con tutte le principali religioni del mondo e sono circa 30.000 i membri di queste che condividono, sempre come è loro possibile, la spiritualità e gli scopi del Movimento. Come dialogare? Il nostro dialogo interreligioso ha avuto un’evoluzione così rapida e feconda perché l’elemento decisivo e caratteristico è stato quell’arte di amare di cui ho parlato prima. Nel clima di amore reciproco che l’attuazione della regola d’oro suscita, si può infatti stabilire il dialogo con i propri partner, dialogo nel quale si cerca di farsi nulla per “entrare”, in certo modo, in loro. “Farsi nulla” o “farsi uno” con gli altri, il che è sinonimo. In queste due semplici parole, alle quali ho già accennato, sta il segreto di quel dialogo che può generare l’unità. “Farsi uno”, infatti, non è una tattica o un modo di fare esterno; non è solo un atteggiamento di benevolenza, di apertura e di rispetto, o un’assenza di pregiudizi. È tutto questo, sì, ma con qualcosa di più. Questa pratica del “farsi uno” esige che si tolga dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa, per immedesimarci con l’altro. Non si può entrare nell’animo di un fratello per comprenderlo, per condividere il suo dolore o la sua gioia, se il nostro spirito è ricco di una preoccupazione, di un giudizio, di un pensiero… di qualsiasi cosa. Il ‘farsi uno’ esige spiriti poveri, poveri in spirito per essere ricchi d’amore. E questo atteggiamento importantissimo e imprescindibile ha un duplice effetto: aiuta noi ad inculturarci nel mondo degli altri, venendo così a conoscere la loro cultura ed il loro linguaggio, e predispone gli altri ad ascoltare noi. Abbiamo notato, infatti, che, quando qualcuno muore a se stesso, proprio per “farsi uno” con gli altri, essi rimangono colpiti e chiedono spiegazioni. Possiamo passare così al “rispettoso annuncio” dove, per lealtà davanti a Dio, per quella verso se stessi, ed anche per sincerità davanti al prossimo, diciamo quanto la nostra fede afferma sull’argomento di cui si parla, senza con ciò imporre nulla all’altro, senza ombra di proselitismo, ma per amore. Ed è il momento in cui, per noi cristiani, il dialogo sfocia nell’annuncio del Vangelo. Il nostro lavoro con tanti fratelli e sorelle delle grandi religioni e la fraternità che sperimentiamo con essi ci ha convinto che il pluralismo religioso dell’umanità può perdere sempre più la sua valenza negativa come fomite di divisioni e di guerre per acquistare, nella coscienza di milioni di uomini e donne, il sapore di una sfida: quella di ricomporre l’unità della famiglia umana, perché in tutte le religioni è, in qualche modo, presente e attivo lo Spirito Santo, non solo nei singoli membri ma anche all’interno di ogni tradizione religiosa. Parlando del meraviglioso avvenimento di Assisi, Giovanni Paolo II lo ha definito “manifestazione mirabile di quell’unità che ci lega al di là delle differenze e divisioni.” . Riempiamo, allora, il nostro cuore dell’amore vero. Per esso tutto possiamo sperare in ordine all’unità fra i fedeli delle grandi religioni e alla fraternità vissuta da tutta l’umanità. Grazie del loro ascolto. Che Dio ci abbracci tutti col suo amore». Chiara Lubich (altro…)