Set 22, 2023 | Cultura, Sociale
Si è svolto di recente, a São Sebastião, in Brasile, il X Congresso Internazionale di Sportmeet for a United World che, a 20 anni dalla sua nascita, continua a promuovere una cultura ed una pratica dello sport capaci di contribuire alla pace, allo sviluppo e alla fraternità universale. Una rete mondiale di sportivi, operatori e professionisti dello sport, uomini e donne di ogni età, cultura, etnia, lingua e religione che vivono l’attività fisica e sportiva come realtà importanti e positive per la crescita integrale della persona umana e della comunità; gente animata dal desiderio di contribuire, attraverso lo sport, allo sviluppo, alla pace, alla costruzione di un mondo più unito. È questa la mission di Sportmeet for a United World, espressione nel mondo dello sport di quel rinnovamento spirituale e sociale che il Movimento dei Focolari vuole contribuire ad attuare. Rappresentata alle Nazioni Unite da New Humanity, ONG accreditata all’UNESCO, questa realtà un mese fa ha festeggiato i suoi 20 anni di vita a São Sebastião, in Brasile, dove si è tenuto il X Congresso Internazionale di Sportmeet for a United World. Ce ne ha parlato Federica Comazzi, presidente e coordinatrice internazionale. Federica, chi ha preso parte a questo incontro e in che modo sono state suddivise le attività? Quali gli obiettivi e le tematiche trattate? Il congresso è stato costruito in collaborazione con Ecoone, MPpU (Movimento Politico per l’Unità) e il Comune di São Sebastião (Brasile) il quale, attraverso l’assessorato allo sport, ha messo a disposizione il teatro comunale, l’alloggio e i trasporti. Nel collaborare con Ecoone e MPpU, Sportmeet si è sentito sostenuto da queste realtà che hanno arricchito il programma con i loro contributi, curato le relazioni con le autorità politiche e accademiche, offrendo un importante apporto nella stesura del manifesto conclusivo firmato a termine dell’evento. L’obiettivo è stato quello di dare avvio ad un percorso di ripensamento dello sport con una prospettiva socio-ambientale, partendo da una riflessione sulle luci e le ombre dello sport contemporaneo, illuminati da un principio comune a diversi popoli originari di differenti parti del mondo: il Ben Vivere (Teko Porã in Guarani, la lingua degli indigeni presenti nel territorio di São Sebastião e in altre zone del Sud America). Al congresso hanno partecipato un centinaio di persone di otto istituzioni attive nel campo educativo, del recupero dalle dipendenze, della promozione sociale nelle periferie delle grandi metropoli e nelle città di Brasile, Argentina, Colombia. Il programma si è sviluppato intorno alla presentazione di diverse relazioni. Nei pomeriggi si è lasciato spazio ad attività pratiche e di approfondimento della cultura locale. “Lo sport, che aiuta a costruire la fratellanza tra le persone, può anche contribuire a migliorare l’esistenza umana da un punto di vista socio-ambientale?” è una delle domande al centro del congresso. Dopo aver rivolto lo sguardo sulla natura e sulla realtà locale del Brasile, quale la risposta a questa domanda? È risultato del tutto evidente come la lotta alla povertà e un nuovo paradigma economico non basato esclusivamente sui parametri quantitativi della crescita si impongano non solo per necessità, ma anche come emergenza. In questo contesto si è evidenziato con grande chiarezza come il gioco e lo sport costituiscono una insostituibile forza dal potenziale enorme in termini di promozione umana e di diffusione di una cultura di condivisione delle risorse, elementi base per un’ecologia integrale che può salvare l’umanità dai disastri ambientali. La definizione di Ben Vivere ci aiuta a comprendere come la fraternità universale e il rispetto per la natura siano legati. Seppur non sia un principio chiuso e ben definito, poiché arricchito dallo sguardo di tanti popoli della terra, si definisce il Ben Vivere partendo da 3 armonie: con se stessi, con gli altri e con la natura. Lo sport di oggi, quello ufficiale promosso dal Movimento Olimpico, troppo spesso ha un approccio basato sullo sfruttamento delle risorse naturali e umane per un unico fine: il denaro. Vi è uno squilibrio tra queste armonie ed è chiaro come tale mancanza abbia portato questo grande contenitore a svuotarsi dei suoi valori. È necessario tornare ad un senso del gioco, come quello concepito antecedentemente al Movimento Olimpico stesso e vissuto nelle comunità indigene. Esso porta con sé un valore più profondo, simbolico, che ci porta a capire in profondità chi siamo. È necessario ripensare un gioco e uno sport che non abbiano come obiettivo primario l’interesse dell’individuo e che quindi non sfruttino le risorse, ma permettano l’incontro tra persone, natura e anime. Nel celebrare questi 20 anni di cammino di Sportmeet, quali sono le speranze per il futuro? L’esperienza fatta in Brasile è stato il primo incontro internazionale dopo la pandemia e ha messo in evidenza e confermato due tratti della mission di Sportmeet. In primo luogo, la dimensione accademica, da portare avanti con un nucleo di professori di diverse Università ed Istituzioni sparsi nei diversi continenti che hanno trovato risonanza nei valori e nelle esperienze di Sportmeet rispetto al loro lavoro. In secondo luogo, un ambito, non distaccato dal primo, di azione per il cambiamento socioculturale nello sport e attraverso lo sport, con la sfida di tenere in rete le persone delle diverse organizzazioni che hanno manifestato l’interesse e l’utilità di uno spazio comune anche per uscire dal rischio di isolamento autoreferenziale. La storia di Sportmeet ha messo in luce un elemento fondamentale: che cultura e vita devono procedere a braccetto e che possono arricchirsi ed alimentarsi vicendevolmente.
Maria Grazia Berretta
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Lug 13, 2023 | Cultura, Focolari nel Mondo, Spiritualità
Intervista all’autore sull’ultima opera letteraria. Un libro pensato per dare speranza, per mantenere una fede intatta nel carisma dell’unità. Alcune domande al Copresidente del Movimento dei focolari sul suo ultimo libro, edito da Citta Nuova, dal titolo “Fedeltà dinamica”. Jesús, partiamo dal titolo: “Fedeltà dinamica”… Ho voluto usare l’espressione che Papa Francesco ha utilizzato nel suo discorso ai partecipanti all’Assemblea del Movimento dei focolari nel 2021. Lì ha parlato di fedeltà dinamica. Secondo me è un pensiero molto vicino al concetto di fedeltà creativa. Col vantaggio che “dinamica” fa riferimento al concetto greco dynamis che vuol dire forza di movimento. Quindi, fedeltà dinamica è una fedeltà in movimento, che non è statica e questo è molto caro a Papa Francesco. Quando ha parlato a noi in altre occasioni ha sottolineato che i movimenti devono essere proprio “movimento”. Allora mi sembrava che questo titolo fosse più vicino a quanto oggi viviamo nella nostra realtà… Il libro è diviso in capitoli. Il primo: “tastare il polso del tempo”. Quali le prospettive del carisma dell’unità di Chiara Lubich per l’oggi? Come attualizzare l’identità e la storia del carisma?
A me sembra che il carisma dell’unità di Chiara Lubich sia sempre attualissimo. Per quello che riguarda la sinodalità, Papa Francesco sta insistendo nel riscoprirci come popolo di Dio in cammino, dove tutti siamo protagonisti. Sinodo vuol dire “camminare insieme”. Lui vuole una Chiesa dove tutti danno il meglio di sé come parte integrante del popolo di Dio, corpo di Cristo. Ecco, io penso che il carisma dell’unità di Chiara Lubich possa portare molto in questo senso, con la sua spiritualità di comunione, la spiritualità dell’unità. D’altra parte oggi ci sono tanti conflitti, guerre, polarizzazioni massicce dappertutto – nel campo politico, morale, sociale – e forse come non mai si assiste a contrapposizioni quasi irriconciliabili. Credo che anche qui il carisma dell’unità possa contribuire molto con la sua trama dialogica. Quindi oggi il carisma dell’unità va attualizzato, riscoprendo la sua vera identità, andando all’essenziale, al nucleo fondante del carisma. Questa attualizzazione richiede la messa in pratica di due momenti, non in senso cronologico, ma nel senso profondo. Da una parte ascoltare i segni dei tempi, le domande del mondo, della società contemporanea. Dall’altra andare a fondo, pescare in tutte quelle risorse che il carisma ha, alcune delle quali non sono state nemmeno espresse. A me piace molto questo concetto di esprimere l’inespresso che è dentro di noi. È così che si attualizza l’identità. In una fedeltà dinamica. Insieme al processo di purificazione della memoria che stiamo vivendo in questa fase post-fondazionale, penso che siamo pronti per compiere questo passo. L’attualizzazione di un carisma si realizza con il contributo di tutti e con un cambio di mentalità, una forma mentis. Oltre all’aiuto dello Spirito Santo, cosa possiamo fare per attuare ciò? Senza dubbio l’aiuto dello Spirito Santo è fondamentale perché siamo nel contesto di un’opera di Dio. Ma per attualizzare il carisma ci vuole intelligenza. Non nel senso accademico. Più nel senso di sapienza. Ci vogliono talenti e competenze per ascoltare il grido dell’umanità. È importante cosa si dice nel documento dell’Assemblea Generale del 2021: oggi la domanda dell’umanità che dobbiamo ascoltare è il grido di Gesù Abbandonato. Quindi, oltre lo Spirito Santo, serve l’intelligenza del carisma e la Sapienza che viene dalla vita. E non è un esercizio a tavolino, un esercizio accademico. Si può cogliere il grido di Gesù Abbandonato quando si è a contatto con la sofferenza dei nostri contemporanei. Cos’è la “teologia dell’Ideale dell’unità”? Perché è importante per la fedeltà al carisma? L’ha detto Chiara Lubich stessa, che per il futuro del Movimento dei focolari e del carisma sarebbe importante la teologia. Questo vuol dire approfondire il carisma dell’unità alla luce della Rivelazione, da dove è scaturito, e della ricerca teologica. È un esercizio di intelligenza del carisma che è fondamentale, altrimenti non si incarna e soprattutto, non si universalizza. Senza la teologia dell’ideale il carisma rimane dentro il Movimento. Con una teologia dell’ideale dell’unità il carisma può andare anche fuori, oltre che trovare un fondamento solido. La teologia dell’Ideale dell’unità aiuta a capirlo bene per poter trasmetterlo alle generazioni future. La vita e la testimonianza va sempre prima, ma anche questo lavoro è decisivo. La teologia dell’Ideale dell’unità previene di possibili deviazioni. Il kerigma originale, racchiuso nei Vangeli, ha necessitato dell’arduo lavoro dei Padri della Chiesa, grandi teologi, per essere salvato nella integrità. Con l’attualizzazione non si rischia di far perdere al carisma la sua identità? Al contrario. È proprio la non attualizzazione che fa perdere l’identità al carisma, perché l’identità di un carisma è sempre dinamica e creativa. Si tratta di essere sempre gli stessi senza essere mai lo stesso. Questo è quello che ho cercato di esprimere. La staticità appunto fa perdere l’identità del carisma perché gli fa perdere la connessione con la realtà. Per me questo è chiarissimo: ci vuole un’attualizzazione costante affinché il carisma mantenga la sua identità. E questo Chiara l’ha fatto durante tutta la sua vita.
Il secondo capitolo: “la casa della conoscenza di sé”, prende spunto da una lettera di Caterina da Siena. Qui scopriamo i nostri limiti, i fallimenti, l’autoreferenzialità, il volto di Gesù Abbandonato. Cosa possiamo fare per superare la “prova della conoscenza di sé”? Il secondo capitolo è fondamentale in questa fase che stiamo vivendo, in cui abbiamo dovuto fare i conti con i nostri difetti, i nostri errori nell’incarnazione del carisma. Cosa possiamo fare per superare la prova? Bisogna viverla fino in fondo, perché si tratta di riconoscere che noi non siamo all’altezza del carisma. Nessuno di noi è all’altezza del carisma. Da qui scaturisce non un senso di sgomento, bensì una nuova fiducia in Dio, nello Spirito Santo, autore del carisma. Quindi la prova della conoscenza di sé si supera accettando l’umiliazione di non essere all’altezza e deponendo tutta la nostra fiducia in Dio. Il terzo capitolo: “il discernimento alla luce del carisma dell’unità”. Il Papa ci chiede di diventare artigiani del discernimento comunitario. Come procedere? E soprattutto, il carisma dell’unità di Chiara Lubich è un carisma in discernimento? Per Papa Francesco, discernimento e sinodalità vanno a braccetto, sia quello individuale che comunitario. È un processo molto delicato, perché richiede intelligenza, ma soprattutto ascolto dello Spirito Santo. Il discernimento chiede tutto a noi e tutto a Dio. E questo non è semplice, non è un esercizio di consenso. È andare a fondo nel cercare la volontà di Dio in ogni momento. Credo che il dinamismo tipico del carisma dell’unità, che noi chiamiamo Gesù in mezzo, cioè di meritare la presenza di Gesù fra noi, sia un esercizio di discernimento. Chiara Lubich lo ha spiegato molto bene: per meritare questa presenza ci vuole un distacco completo da noi stessi, un metterci in ascolto dello Spirito Santo. Ci vuole l’amore reciproco. Addirittura Chiara ha sviluppato l’idea dei rapporti trinitari, che trasformano il discernimento comunitario in un “discernimento trinitario”. Quando puntiamo ad avere Gesù in mezzo a noi, facciamo un’esperienza trinitaria, con tutte le debolezze, le fragilità della nostra umanità, corporeità, psicologia. Però la facciamo ed è lì che avviene il discernimento. Questa prassi dei rapporti trinitaria possiamo leggerla alla luce della grande idea di Papa Francesco del discernimento e della sinodalità. Nel libro parli di due deviazioni: “il sequestro dell’Uno” e “la dissoluzione dell’Uno”. Cosa sono e come evitarle? Queste tentazioni sono davvero due deviazioni della spiritualità dell’unità. Nella prima succede che qualcuno si impadronisce della mission della Comunità e addirittura della mission di ciascuno. C’è qualcuno che centralizza tutto, che senza rendersi conto prende il posto dello Spirito Santo nella dinamica di unità. In questo caso si sequestra il “noi”, il necessario perché ognuno possa fiorire e dare il suo contributo. Qui si verificano gli abusi di autorità, abusi di coscienza, abusi spirituali ed è quindi un rischio forte. Nella dissoluzione dell’Uno succede il contrario, si perde lo spirito di Comunione. Prevale un individualismo esagerato. Se prima qualcuno si impadronisce del noi, in questo caso sparisce il noi e subentra l’individualismo di tutti. La vita di comunità diventa un’organizzazione dove ognuno cerca il suo spazio, la sua realizzazione personale. Anche qui sparisce lo Spirito Santo che è dinamismo della vita cristiana. Come evitarle? Ci vuole un momento di autocoscienza: capire gli errori fatti. Contemporaneamente, tornare al Vangelo vissuto e a un’autentica vita di unità. Soprattutto penso con l’umiltà, la capacità di decentrarsi, l’amore all’altro, il pensare che la persona è sempre un assoluto che non può essere in nessun modo annullato. Quindi penso che la soluzione sia un plus di amore, verità, trasparenza e donazione concreta nella vita di unità, nella vita di comunione. L’unità è un dono dello Spirito, nessuno può sequestrarla col suo potere né dissolverla col suo individualismo. L’unità è una esperienza di Dio che prende tutti noi stessi. Rendiamoci conto. In ultimo, cosa possiamo fare affinché tutti questi argomenti nel libro non rimangano solo buone intenzioni? Penso che sarebbe utile parlarne in comunità. Fare dei momenti in cui leggere alcuni passaggi, dei ritiri ed esaminare la nostra vita alla luce di queste indicazioni. Il libro è pensato per dare speranza, mantiene una fede intatta nel carisma dell’unità, e nel caso si sia smarrita, recuperarla. Mi auguro che mettendo in comune le esperienze si possa ripristinare una vita autentica lì dove non c’è più, perché in tanti posti la vita fiorisce, c’è generatività, ci sono tante cose belle.
Lorenzo Russo
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Lug 7, 2023 | Cultura, Dialogo Interreligioso, Testimonianze di Vita
Nell’ambito dell’evento di apertura della conferenza internazionale dell’International Council of Christians and Jews (ICCJ) a Boston (USA), domenica 18 giugno, il Prof. Joseph Sievers ha ricevuto il Premio Seelisberg 2023. La nostra intervista al suo rientro a Roma. Il Premio Seelisberg si ispira e vuole fare memoria dell’innovativo raduno che ebbe luogo nel piccolo villaggio svizzero di Seelisberg dal 30 luglio al 5 agosto 1947 per affrontare gli insegnamenti cristiani rispetto alla discriminazione verso ebrei e l’ebraismo. Questo evento è ampiamente riconosciuto come l’inaugurazione della trasformazione nelle relazioni tra ebrei e cristiani.
Il Premio Seelisberg viene assegnato ogni anno (dal 2022) dal Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei (ICCJ), che ha avuto origine dalla conferenza di Seelisberg, e dal Centro per la teologia interculturale e lo studio delle religioni dell’Università di Salisburgo. Vengono omaggiate persone che hanno svolto ruoli importanti attraverso i loro percorsi di studi e insegnamento nel promuovere il riavvicinamento tra ebrei e cristiani. Il Prof. Dott. Joseph Sievers (Premio Seelisberg 2023), è nato in Germania e ha iniziato i suoi studi all’Università di Vienna e all’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Antica presso la Columbia University (1981) e una Lic. Teol. della Pontificia Università Gregoriana (1997). Ha insegnato presso CUNY, Seton Hall Univ., Fordham Univ. e altre istituzioni negli Stati Uniti, in Italia e in Israele. Dal 1991 al 2023, ha insegnato Storia e letteratura ebraica del periodo ellenistico presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove è stato professore ordinario. Inoltre, dal 2003 al 2009 è stato Direttore del Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1965 è membro del Movimento dei Focolari, con il cui Centro per il Dialogo Interreligioso collabora dal 1996. Ha pubblicato diversi libri e numerosi articoli, soprattutto nell’ambito della Storia del Secondo Tempio (in particolare Flavio Giuseppe) e le relazioni ebraico-cristiane. Con Amy-Jill Levine ha curato The Pharisees (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 2021; traduzione italiana Milano, San Paolo, 2021; traduzione tedesca prevista per il 2024). Professor Sievers, cosa ha significato per lei ricevere questo premio? È stata una grande sorpresa e quando mi hanno chiesto di dire qualcosa sulla mia esperienza ho provato una grande gratitudine guardando indietro, ripensando a tutti i momenti, a tutte le persone incontrate, alle situazioni in cui ho potuto esserci e a volte essere di aiuto. Una grande gratitudine e, al tempo stesso, una responsabilità per il presente e il futuro. Nel suo discorso in occasione della cerimonia di conferimento del Premio dice: “Le difficoltà possono aiutarci a capirci meglio. Le difficoltà possono unirci”. Nella sua lunga esperienza in questo dialogo, cos’è stato più difficile e cosa invece sorprendente a tal punto di dire ancora oggi “Si può fare”?
Ci sono stati vari momenti difficili, ma uno che ricordo in modo particolare è quando dovevamo organizzare un incontro di dialogo a Gerusalemme nel 2009. Qualche settimana dopo un conflitto, un’operazione che ha portato tanti morti e feriti. Poi nello stesso periodo c’era stata anche la situazione del vescovo (Richard Nelson) Williamson che negava l’olocausto. C’erano difficoltà da tutte le parti che rendevano molto difficile un dialogo aperto. Tuttavia, siamo riusciti a fare questo incontro. Siamo andati avanti e sono stati momenti di comunione molto forti, spirituali, al di là di tutti i problemi. E poi mi chiede anche le cose che sono state possibili, nonostante le difficoltà? E certamente non è stato facile organizzare un convegno sui farisei e poi pubblicare un libro. C’erano vari punti in cui mi sembrava la strada fosse sbarrata. O per ragioni economiche o perché qualcuno non era d’accordo con quello che si voleva fare, o perché sembrava impossibile avere un’udienza col Papa, per un convegno di questo tipo… Invece collaborando, ed è stata veramente una collaborazione, specialmente con una collega ebrea, ma anche con altri, è stato possibile risolvere questi problemi per dare qualcosa che fosse basato su studi seri ma si indirizzasse a situazioni concrete anche nelle chiese, nelle parrocchie. Certamente c’è stato un successo che non ha avuto subito degli effetti dappertutto, ma per esempio un Vescovo mi ha scritto “ecco, adesso dobbiamo cambiare tutto il nostro insegnamento sui farisei e sull’ebraismo nei seminari”. Questo già è qualcosa. In che modo la sua appartenenza al Movimento dei Focolari ha inciso su questa esperienza? Senza il Movimento dei focolari probabilmente non sarei entrato in questo ambito. È venuto dal Movimento la spinta a studiare le lingue della Bibbia e poi da questo è venuto tutto il resto. Sono entrato in focolare proprio il 28 ottobre 1965, era un giovedì. Io sono arrivato in focolare a Colonia (Germania) con la mia bicicletta, portata in treno con le due valigie la stessa sera in cui a Roma al Concilio, stavano approvando Nostra aetate (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane). E questo per me ha sempre avuto un grande significato, legando l’impegno nel Movimento con quello per il dialogo. È stato chiamato anche a collaborare ufficialmente nel dialogo della Chiesa Cattolica con gli ebrei… Sì. Dal 2008 sono Consultore della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, commissione della Santa Sede. E ho partecipato a diversi incontri dell’ ILC a Buenos Aires, Città del Capo o ancora Budapest, Madrid, Varsavia, Roma … E si fanno dei passi in avanti?
Un passo è già essere aperto a incontrarsi, a parlarsi e anche a superare le difficoltà nel percorso. A volte è meglio affrontare tutto con una cena insieme piuttosto che con delle lettere infuocate. Si fanno dei passi e certamente c’è molto di più da fare, c’è da espandere la rete. Cioè, la maggior parte dei cristiani e la maggior parte degli ebrei non sono coinvolti, a volte non sanno nemmeno che ci sono questi rapporti, che c’è questo cammino insieme. C’è ancora molto da fare per rendere conosciuto questo e applicarlo. Una cosa che ho imparato molto dai rapporti con gli ebrei è che le domande sono a volte più importanti delle risposte. E cioè io non devo e non posso pretendere di avere tutte le risposte e quindi non posso affrontare l’altro come qualcuno che ha trovato tutte le risposte e si rivolge a lui o a lei da una posizione di superiorità. La mia posizione è quella di essere un cercatore insieme. È questo, in modo più drammatico quando si affronta il tema della Shoah, dell’Olocausto, che è da affrontare insieme prima o poi. Una cosa essenziale è guardare, essere il più sensibile possibile agli impegni e alle necessità dell’altro. E poi essere anche aperti, e se si sbaglia si può sempre ricominciare se l’intenzione è giusta: entrare in punta di piedi nell’ambiente dell’altro, non con l’atteggiamento di chi dice “io so tutto”. Come ultima cosa, nel ricevere questo premio, oltre a sentirsi grato, c’è qualche stimolo per Joseph Sievers? Eh, sì. Per esempio, ci sono alcune domande aperte e questo mi stimola ad affrontarle di più. E forse addirittura mi dà un po’ di autorevolezza per poterle affrontare con certe persone. Non so se questo avverrà, ma è anche uno stimolo per portare avanti questo lavoro, che non è finito, che non sarà mai finito ma dove qualche passetto si può fare insieme.
Carlos Mana
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Lug 5, 2023 | Cultura
Sabato 24 giugno 2023 si è svolto a Loppiano (Incisa Valdarno, Firenze), un seminario teologico dal tema «Partecipare/presiedere/decidere. Radice sacramentale e dinamica comunionale nel cammino del popolo di Dio in missione». Oltre una trentina di studiosi hanno accolto l’invito del Centro Evangelii Gaudium (CEG) del Istituto Universiario Sophia a elaborare una proposta di revisione del diritto canonico al fine di riequilibrare – come esorta il documento di base (Instrumentum laboris) della XIV Assemblea del Sinodo dei Vescovi – «il rapporto tra il principio di autorità, fortemente affermato nella normativa vigente, e il principio di partecipazione». Poiché «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali – ci assicura papa
Francesco – devono essere risolte con interventi del magistero» (Es. ap. Amoris laetizia, n. 3), risulta decisivo l’ascolto del sensus fidelium dell’intero popolo di Dio (pastori e fedeli) nella varietà delle culture che lo compongono. Il dialogo tra teologia e diritto risulta, dunque, animato da un sincero processo di inculturazione senza del quale si corre il reale rischio di porre le basi di una inosservanza pratica dei principi generali enunciati dalla chiesa. «Il punto – sottolinea il prof. Vincenzo Di Pilato, coordinatore accademico del CEG – è proprio questo: come rendere effettiva la partecipazione attiva di tutti i fedeli all’interno delle nostre assemblee sinodali? Resterà solo consultiva? O sarà anche deliberativa? Ciò significherà giungere a una trattativa per una “concessione” giuridica o “riconoscere” la capacità decisionale del soggetto collettivo dell’agire ecclesiale così come emerge dall’ecclesiologia del Vaticano II e del magistero postconciliare? E sarà, pertanto, necessario un aggiornamento del Codice di diritto canonico?». Nel saluto iniziale ai partecipanti il card. Mario Grech, Segretario generale del Sinodo, ha evidenziato come il cammino sinodale entra in una nuova fase: esso è chiamato a diventare dinamica generativa e non semplicemente un evento tra gli altri. Non si può, infatti, ascoltare lo Spirito Santo senza ascoltare il popolo santo di Dio in quella “reciprocità” che lo costituisce “Corpo di Cristo”. In questo legame comunionale prende così forma quella particolare metodologia della conversazione nello Spirito, ben
descritta in occasione della presentazione dell’Instrumentum laboris. Di qui la necessità – richiamata a più riprese dal card. Grech – di meglio articolare il principio della restituzione. In altre parole, ciò significa che l’unità del processo sinodale è garantita dal fatto che esso ritorna dove esso è partito, alla Chiesa particolare, ed è un momento importante del “riconoscimento” di quanto maturato nell’ascolto di ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa. Il cammino sinodale sembra porsi, dunque, come un significativo momento della vita ecclesiale, capace di stimolare e attivare lo slancio creativo e di annuncio evangelico che viene dalla riscoperta della relazione con Dio che innerva la relazione tra i credenti, e anche come un segno per un contesto culturale in cui alberga un grido silenzioso di fraternità nella ricerca del bene comune. Se nella relazione “I problemi della sinodalità tra ecclesiologia e diritto canonico” del prof. Severino Dianich, è emerso il recupero dell’ecclesiologia paolina dell’essere-corpo di Cristo e la valorizzazione della co-essenzialità dinamica dei doni gerarchici e carismatici; per il prof. Alphonse Borras, questo punto di svolta necessita di una esplicitazione canonica, che delinei una prassi procedurale flessibile, capace di accompagnare i processi decisionali e di partecipazione attraverso i vari organismi già previsti (consiglio episcopale, presbiterale, pastorale diocesano, pastorale parrocchiale…). Su questa linea si è posto il cardinale Francesco Coccopalmerio, già presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi, nel suo intervento “Sinodalità ecclesiale: è ipotizzabile un rapido passaggio dal consultivo al deliberativo?”. A suo parere è possibile rinvenire nel diritto canonico una chiara definizione di sinodalità, intesa come “comunione di pastori e fedeli nel compiere l’attività di riconoscere qual è il bene della Chiesa e nella capacità di decidere come attuare il bene individuato”. Al termine del seminario, è stata avanzata da molti la proposta di mettere a disposizione i risultati raggiunti attraverso la pubblicazione degli interventi. Il CEG è al lavoro affinché questo avvenga entro settembre come ulteriore contributo al prossimo Sinodo.
Antonio Bergamo
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Giu 27, 2023 | Cultura, Sociale
Il livello raggiunto dalle intelligenze artificiali ci pone davanti a nuovi interrogativi etici: come promuovere uno sviluppo tecnologico a misura umana? Call to action (chiamata all’azione) per sviluppatori e innovatori del mondo digitale. Un orizzonte che ci riguarda tutti. Giugno 2023, Istituto Universitario Sophia: sullo schermo dell’Aula magna una hostess digitale apre con eleganza il seminario “Verso un giuramento digitale / Towards a Digital Oath”. Stiamo attraversando una soglia: la preparazione ha preso avvio da tempo, ma l’accelerazione degli ultimi mesi dice qualcosa di nuovo.
Promosso da una piattaforma di soggetti – il centro di ricerca Sophia Global Studies, il Movimento Politico per l’Unità, NetOne, New Humanity e Digital Oath -, l’appuntamento vuole affrontare i temi più urgenti del mondo digitale secondo diverse prospettive: filosofiche, tecnologiche, etiche, sociali, politiche, fino a discutere la proposta di un “giuramento” che possa rappresentare per gli addetti ai lavori nel mondo digitale un analogo del Giuramento di Ippocrate per i medici. Dove nasce questa esigenza? Con quali obiettivi? Il mondo tecnologizzato tende a cambiare rapidamente e, sempre più spesso, ad una velocità superiore alla nostra capacità di adattamento. La complessità delle macchine e dei sistemi che strutturano la realtà interviene non solo sul nostro modo di vivere, ma anche sul modo di vedere il mondo e di pensare al futuro. Il livello raggiunto dalle “intelligenze artificiali” – IA, vede emergere, accanto all’entusiasmo per le loro capacità operative, una generale preoccupazione sulle nuove possibilità aperte da questi sistemi e sugli effetti che possono derivare dal loro utilizzo malevolo. La recente diffusione di ChatGPT (novembre 2022) e di tutti i suoi derivati ha avvicinato massivamente le IA al nostro quotidiano, facendo nascere nuove domande di senso legate alla comprensione di ciò che è umano e ciò che non lo è. Nel panorama mondiale l’evoluzione di questi apparati ha prodotto un certo disorientamento, non solo perché il loro utilizzo appare alla portata di tutti, ma soprattutto perché
dimostrano di fare qualcosa che prima era appannaggio degli esseri umani, con capacità quantitativamente superiori. Il fatto di trovarci davanti a sistemi che non sono “intelligenti” nel senso umano del termine e che gestiscono la loro base di conoscenza attraverso calcoli statistici non cambia il risultato finale: la sensazione di non essere più autori di scelte fondamentali, sfidati da macchine che sono un po’ meno “strumenti” e un po’ più “compagni di lavoro”. A questi interrogativi, il seminario “Verso un giuramento digitale / Towards a Digital Oath” ha aggiunto un tema centrale: interrogarsi sull’etica delle tecnologie significa interrogarsi sull’umano. È parere di molti, infatti, considerare lo sviluppo tecnologico come l’attività umana che più ci caratterizza. Effettivamente le tecnologie digitali, e in particolare le IA, sono quelle che riflettono più di altre, come in uno specchio, il nostro modo di essere e di intendere l’esistenza. Le crisi dell’ultimo secolo (valoriali, ambientali, sociali e politiche) sono strettamente correlate ad esse e ci dicono che allo sviluppo tecnologico deve essere affiancato un impegno educativo altrettanto determinato, in modo che ogni forma di progresso possa essere guidata da una più profonda coscientizzazione etica. Il senso di un “giuramento” per il mondo digitale va proprio in questa direzione. Il programma del seminario d’inizio giugno ha convocato esperti qualificati (link al programma). Dopo una prima panoramica generale sulle tecnologie digitali di oggi, il dibattito ha esplorato rischi e regolamentazioni legati al loro utilizzo in Italia e nell’UE, negli USA, in Brasile e in Cina, intrecciando soluzioni tecnologiche a questioni politiche, riflessioni filosofiche a fenomeni sociali.
«È necessario rendere visibile e sottoscrivibile un impegno concreto e universalmente condiviso – spiega Fadi Chehadé, già CEO di ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) e promotore del “giuramento” per un’etica del mondo digitale, visiting professor all’Istituto Sophia – con cui sviluppatori, tecnici e fruitori delle tecnologie digitali possano ancorare saldamente il loro lavoro su un approccio umano-centrico». Fadi Chehadé ha accompagnato le prime tappe del percorso fin dal novembre 2019, quando un primo gruppo si era ritrovato a Trento (Italia) per dare forma al progetto. In seguito, il gruppo promotore ha coinvolto studiosi in vari Paesi e ha partecipato alla consultazione pubblica promossa dall’ONU per il Global Digital Compact 2024. Oggi lo scopo del Digital Oath è preciso: suggerire linee guida e motivare eticamente gli sviluppatori e gli innovatori del mondo digitale a mettere al centro la dignità e la qualità della vita delle persone e delle comunità, il senso umano dell’esistenza, il rispetto dei diritti fondamentali e dell’ambiente. “La proposta di tradurre, per così dire, il Giuramento di Ippocrate per il mondo digitale – ricordano i promotori del convegno – è già emersa in vari studi internazionali, che sottolineano l’urgenza del tema e la responsabilità di chi crea e gestisce servizi digitali, amministra dati. Il pensiero non va solo alle nuove reti neurali ma anche ai social network, o alle criptovalute… Il nostro lavoro si aggiunge a quello di altre reti: occorre ora unire gli sforzi per una coalizione tra università, settore privato e organizzazioni impegnate nella scrittura di un codice etico, un protocollo di auto-regolamentazione di cui possano beneficiare persone, società e ambiente”. Sul nuovo sito di Digital Oath esiste una prima formulazione del giuramento a disposizione di tutti e le sottoscrizioni stanno arrivando; il testo è aperto a suggerimenti e modifiche con elaborazione progressiva. Il sito riporterà a breve anche le registrazioni e i documenti del Seminario. Anche se la strada è certamente in salita, a camminare siamo in tanti: è un orizzonte che ci riguarda tutti.
Andrea Galluzzi
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Giu 14, 2023 | Chiesa, Cultura, Sociale, Testimonianze di Vita
Il 10 giugno 2023 si è svolto in Vaticano il World Meeting on Human Fraternity, incontro internazionale sulla fraternità umana al quale il Movimento dei Focolari ha preso parte insieme ad altri movimenti ecclesiali, organizzazioni internazionali e associazioni. In rappresentanza della Presidente dei Focolari, Margaret Karram, alcuni focolarini tra cui Christian Abrahao Da Silva, che ci racconta le sue impressioni. Promuovere un processo partecipativo, per aiutare a riscoprire il significato della fraternità e costruirla insieme attraverso il dialogo, la conoscenza, momenti di incontro, parole e gesti condivisi. È con questo obiettivo che lo scorso 10 giugno si è tenuto il World Meeting on Human Fraternity, incontro internazionale in Vaticano sulla fraternità umana, promosso dalla Fondazione Fratelli Tutti e dalla Basilica Papale di San Pietro, sotto il patrocinio del Cardinale Mauro Gambetti, Arciprete della Basilica Papale di San Pietro in Vaticano, Vicario Generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. L’evento ispirato all’Enciclica Fratelli Tutti ha goduto della presenza di vari Premi Nobel per la Pace, personalità della scienza, della cultura, del diritto, delle associazioni ed organizzazioni internazionali, che hanno avuto il compito di elaborare una “Chiamata all’impegno per la Fraternità Umana”. Il documento letto da due premi Nobel, Nadia Murad e Muhammad Yunus, durante il Festival che si è tenuto in piazza San Pietro nel pomeriggio è stato successivamente firmato dal Segretario di Stato, Cardinale Parolin, a nome di Papa Francesco e dal gruppo che ha elaborato il documento. Christian Abrahao Da Silva, focolarino che ha partecipato al Meeting, ci racconta che momento è stato.
Christian, cosa ha significato per te partecipare a questo momento mondiale dedicato alla fraternità? È stato un grande onore prima di tutto. Io ed un’altra focolarina, Corres Kwak, siamo stati chiamati a rappresentare la Presidente dei Focolari, Margaret Karram e l’intero Movimento, durante questo evento dallo scopo nobile, quello di promuovere la fraternità e l’amicizia sociale tra le persone e tra i popoli, come antidoto alle molte forme di violenza e di guerre in corso nel mondo. L’incontro si è svolto in due momenti: quello di mattina che ha avuto luogo nell’antica aula del sinodo, con la presenza di rappresentanti di diversi movimenti ecclesiali e associazioni. Invece, al pomeriggio, si è svolto un grande Festival in piazza San Pietro con collegamenti fatti da varie piazze del mondo. In che modo si sono aperti i lavori? Durante la mattinata abbiamo partecipato a due tavoli di lavoro in cui è stato chiesto di rispondere essenzialmente a due domande: “cosa facciamo concretamente per raggiungere la fraternità sociale e la fraternità ambientale?” E ancora “esiste un noi?” Sono stati momenti molto belli e partecipativi. Si è molto parlato del concetto del giardino in riferimento al giardino dell’Eden, espresso da Papa Francesco in “Fratelli tutti”. Le parole più pronunciate sono state: compassione, responsabilità (politica ed economica), condivisione, promozione integrale, riconoscimento di ogni persona umana, cura, accoglienza. Una vera esperienza ecclesiale con la speranza che possa allargarsi e testimoniare capillarmente la necessità di riscoprire e rinsaldare la fraternità umana. Cosa vi ha colpito particolarmente? Oltre al gruppo dei premi Nobel per la Pace, quello dei movimenti ecclesiali e associazioni, c’era anche un gruppo di 30 giovanissimi studenti, provenienti di varie scuole italiane, accompagnati dai loro insegnanti di religione, che avevano partecipato ad un concorso con elaborati artistici di vari tipi, esprimendo con creatività la tematica del Meeting. La loro presenza donava un tocco importante di impegno delle nuove generazioni nell’educazione alla fraternità. Inoltre, le esperienze raccontate sul palco del Festival nel pomeriggio, quelle di alcuni artisti che hanno condiviso gratuitamente e con gioia i loro talenti, sono state un grande contributo. Cosa il Movimento dei Focolari porta a casa dopo questo momento? Papa Francesco rilancia la fraternità come un nuovo paradigma antropologico su cui ricostruire gesti e leggi perché “la fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza” (Fratelli tutti, n. 103). Questo spunto ci ha fatto venire in mente un intervento di Chiara Lubich intitolato: “Libertà, uguaglianza… che fine ha fatto la fraternità?”. Ecco, questo è stato uno di quegli eventi che ci richiamano a buttarci sempre più al centro del nostro carisma dell’unità. Inoltre, spiegando l’idea dell’evento, il Cardinale Gambetti ha davvero toccato il cuore, definendo questo momento insieme “processo ed esperienza, come una prima tappa per aiutare a riscoprire il significato della fraternità e a costruirla culturalmente perché́ essa non si dà̀ biologicamente, la fraternità ha bisogno di incontro e di dialogo, di conoscenza e di parole e gesti condivisi, di linguaggi comuni e di esperienza di bellezza”.
Maria Grazia Berretta
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