Movimento dei Focolari
Malattia: il limite trasformato in ricchezza

Malattia: il limite trasformato in ricchezza

20160213-02«Uscendo da casa il 3 maggio di 21 anni fa per raggiungere la banca dove lavoravo, non pensavo certo che  la sera non vi sarei  tornato. Un forte mal di testa aveva costretto i miei colleghi a portarmi d’urgenza in ospedale. Avevo 49 anni, una vita professionale ben avviata, una promozione imminente, una bella famiglia con tre figlie dai 18 ai 14 anni. Improvvisamente mi sono ritrovato su una carrozzina che neppure riuscivo a governare perché, oltre all’uso della gamba, avevo perso anche  quello del braccio. Ero diventato un nulla: dovevo essere aiutato a mangiare, lavarmi, vestirmi… dipendevo in tutto dagli altri.   Sentivo dentro  disperazione e angoscia, sentimenti che cercavo di scacciare perché sapevo che non erano la soluzione. Da quando avevo abbracciato la spiritualità dei Focolari, avevo imparato a rendermi disponibile alla volontà di Dio, e anche se non capivo il perché di questo sfacelo, con mia moglie Pina abbiamo voluto credere che pure questo era amore di Dio per me, per noi. Anche le nostre figlie si sono lasciate coinvolgere in questa scelta e fin dai primi giorni mi sono ritrovato una forza e una pazienza che non avrei mai pensato di avere. In pochi mesi ho recuperato l’uso della gamba e seppur con grande fatica e col supporto di un collega che mi accompagnava, sono riuscito a tornare al lavoro per altri 7 anni. Poi non ce l’ho più fatta. 20160213-01Già allora la mia inabilità non mi consentiva di camminare se non per brevi tratti, non potevo più guidare l’auto, farmi la doccia da solo, abbottonare i vestiti, tagliare il cibo nel piatto, avvitare una caffettiera, abbracciare mia moglie e le figlie. Non potevo fare, insomma, tutti quei gesti per i quali occorre l’uso delle due mani. A volte, più amara ancora era la paura. Paura di non farcela ad andare avanti come coppia, paura della solitudine, della mia fragilità di fronte alle diverse situazioni, del dubbio di saper ancora svolgere il ruolo di padre, e così via. Poi sono subentrate altre sospensioni di salute: ricoveri in ospedale, un tumore fermato in tempo, cadute con fratture, ecc. Oggi con tenacia continuo a fare le fisioterapie, anche se so che prospettive di guarigione non ce ne sono. Ma almeno aiutano a rallentare il processo invalidante. Più forte di tutto questo però, avverto dentro di me la grazia della vicinanza di Dio in ogni attimo. In questi 21 anni la raffinata fedeltà di Dio mi ha sempre accompagnato, con la delicatezza e la tenerezza che solo Lui sa dare. Con Pina abbiamo imparato a lasciarci portare da Lui, a farci sorprendere dal suo amore. E quando tutto sembrava crollare, o diventava precario o confuso, in fondo al cuore percepivamo che questo partecipare – in qualche misura – al mistero di Gesù sulla croce, era per noi un privilegio. Come Lui anch’io, anche noi cerchiamo di superare il dolore amando tutti quelli che sono intorno a noi, sperimentando, in quella che possiamo chiamare ‘alchimia divina’, che il dolore è come un talento da far diventare amore. 20160213-03Dio mi/ci ha presi per mano e, svelandoci poco a poco il suo progetto su di noi, ci ha fatto il dono di entrare in profonda intimità con Lui e fra noi, facendoci comprendere – nella luce – anche il misterioso significato del dolore. E quello che poteva sembrare un limite si è trasformato in ricchezza, quello che poteva  fermarci si è tramutato in corsa, anche per la forte condivisione con tanti altri. Dio ci ha resi più sensibili e misericordiosi con tutti quelli che con tanta fantasia ci mette accanto. Facendoci sperimentare che anche una malattia invalidante non toglie la possibilità di essere strumenti nelle mani di Dio per il prossimo». Giulio Ciarrocchi (altro…)

In un carcere romano: ridare dignità

In un carcere romano: ridare dignità

Alfonso_di_Nicola-01«Ero ancora piccolo – racconta Alfonso, classe 1945 – quando mio padre è stato imprigionato ingiustamente. Con mamma andavamo a trovarlo in carcere e seppur in tenera età ho potuto rendermi conto della profonda desolazione dei detenuti: gente senza speranza, senza futuro. E senza dignità. Da allora ho promesso a me stesso che un giorno avrei fatto qualcosa per loro». Alfonso deve attendere un po’ per realizzare il suo sogno. S’iscrive ad un corso di volontariato e ottiene così il permesso di fare delle visite nel carcere di Rebibbia (Roma) che oggi accoglie circa 1.700 detenuti. Scontano condanne le più varie: spaccio di stupefacenti, abusi a sfondo sessuale, crimini di mafia, concussione, omicidio… Alfonso sa che deve misurarsi con la diffidenza di chi ormai è convinto di aver bruciato ogni chance di riscatto. Tanti infatti rifiutano il suo approccio, ma lui non demorde, convinto che in ciascuno di loro c’è l’immagine di quel Dio che egli aveva scelto come il tutto della sua vita quando da giovane era diventato focolarino. Finalmente uno di loro, Giorgio, detenuto per il coinvolgimento in una rapina finita in tragedia, gli chiede di andare dalla madre per portarle il suo abbraccio e la sua richiesta di perdono. Alfonso va da lei e scopre che è in fin di vita. Questo gesto, così inaspettato ma così tanto atteso, la riconcilia col figlio e col passato. Pochi giorni dopo muore, in pace. Alfonso continua a stare vicino al figlio fino alla sua uscita dal carcere e lo aiuta a reinserirsi nella società. Ora Giorgio ha un lavoro, seppur saltuario, che gli consente di contribuire a mantenere la famiglia con dignità.

DSCF0876

Assieme ad altri 30 volontari, Alfonso segue le famiglie di 160 detenuti.

Nelle sue visite ai detenuti, Alfonso si rende conto della stringente necessità che quel filo che li lega al mondo esterno rimanga vivo. Ed ecco il suo prodigarsi perché la relazione con la famiglia, e specialmente con il coniuge, non si interrompa, come pure per dare una mano a quelle famiglie che a causa della detenzione sono piombate in gravi ristrettezze. Per fare tutto ciò occorrono energie, persone, soldi. Lui non si dà tregua e mette a punto un progetto denominato “Sempre persona”, ad indicare che seppur in reclusione la dignità non viene mai meno, proprio perché non viene mai meno l’amore di Dio per ogni uomo. Assieme ad altri 30 volontari – genitori, professionisti, ma anche ex carcerati – segue le famiglie di 160 detenuti, portando loro sostegno morale, aiuti alimentari ed economici. Un numero che sale di giorno in giorno. Lo spirito che anima il loro operato è quello tipico del focolare: “essere famiglia” per ciascuno dei carcerati, nella vicinanza e nel sostegno, senza giudicare il loro passato. Le parole come ascolto, fiducia, fraternità, in carcere rivestono davvero il loro significato. Soprattutto misericordia, atteggiamento che – attestano questi volontari – «agisce sulle persone come una molla che le aiuta a rialzarsi ogni qualvolta sono tentate di lasciarsi andare». Come è accaduto a Roberto, che dopo aver scontato 8 anni di carcere, non trovando accoglienza e lavoro è diventato un barbone. Grazie al progetto “Sempre Persona” è stato accettato in una piccola struttura di accoglienza, dove può esercitare la sua professione di cuoco, riacquistando così la propria dignità. O come Francesco, che faceva il camionista, ma dopo 4 anni di carcere nessuno gli dava più lavoro e fiducia. Ora fa parte del team di volontari che preparano e consegnano i pacchi per le famiglie dei carcerati. Di storie come questa ce ne sono così tante da riempire un libro. Anzi due: “Ero carcerato…” e “Carcere e dintorni”, scritti da Alfonso Di Nicola, ambedue editi da Città Nuova. (altro…)