A 60 anni da Nostra Aetate condividiamo la storia di un’amicizia unica: Silvina, Nancy e Cecilia. Tre donne. Silvina è una rabbina di una comunità ebraica a Buenos Aires, Nancy, musulmana, dirige un centro per il dialogo interreligioso e Cecilia, cristiana, è membro del Movimento dei Focolari. Un rapporto costruito su azioni concrete e sul desiderio di superare ogni possibile barriera.
Nell’ambito dell’evento di apertura della conferenza internazionale dell’International Council of Christians and Jews (ICCJ) a Boston (USA), domenica 18 giugno, il Prof. Joseph Sievers ha ricevuto il Premio Seelisberg 2023. La nostra intervista al suo rientro a Roma. Il Premio Seelisberg si ispira e vuole fare memoria dell’innovativo raduno che ebbe luogo nel piccolo villaggio svizzero di Seelisberg dal 30 luglio al 5 agosto 1947 per affrontare gli insegnamenti cristiani rispetto alla discriminazione verso ebrei e l’ebraismo. Questo evento è ampiamente riconosciuto come l’inaugurazione della trasformazione nelle relazioni tra ebrei e cristiani. Il Premio Seelisberg viene assegnato ogni anno (dal 2022) dal Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei (ICCJ), che ha avuto origine dalla conferenza di Seelisberg, e dal Centro per la teologia interculturale e lo studio delle religioni dell’Università di Salisburgo. Vengono omaggiate persone che hanno svolto ruoli importanti attraverso i loro percorsi di studi e insegnamento nel promuovere il riavvicinamento tra ebrei e cristiani. Il Prof. Dott. Joseph Sievers (Premio Seelisberg 2023), è nato in Germania e ha iniziato i suoi studi all’Università di Vienna e all’Università Ebraica di Gerusalemme. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia Antica presso la Columbia University (1981) e una Lic. Teol. della Pontificia Università Gregoriana (1997). Ha insegnato presso CUNY, Seton Hall Univ., Fordham Univ. e altre istituzioni negli Stati Uniti, in Italia e in Israele. Dal 1991 al 2023, ha insegnato Storia e letteratura ebraica del periodo ellenistico presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma, dove è stato professore ordinario. Inoltre, dal 2003 al 2009 è stato Direttore del Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal 1965 è membro del Movimento dei Focolari, con il cui Centro per il Dialogo Interreligioso collabora dal 1996. Ha pubblicato diversi libri e numerosi articoli, soprattutto nell’ambito della Storia del Secondo Tempio (in particolare Flavio Giuseppe) e le relazioni ebraico-cristiane. Con Amy-Jill Levine ha curato The Pharisees (Grand Rapids, MI: Eerdmans, 2021; traduzione italiana Milano, San Paolo, 2021; traduzione tedesca prevista per il 2024). Professor Sievers, cosa ha significato per lei ricevere questo premio? È stata una grande sorpresa e quando mi hanno chiesto di dire qualcosa sulla mia esperienza ho provato una grande gratitudine guardando indietro, ripensando a tutti i momenti, a tutte le persone incontrate, alle situazioni in cui ho potuto esserci e a volte essere di aiuto. Una grande gratitudine e, al tempo stesso, una responsabilità per il presente e il futuro. Nel suo discorso in occasione della cerimonia di conferimento del Premio dice: “Le difficoltà possono aiutarci a capirci meglio. Le difficoltà possono unirci”. Nella sua lunga esperienza in questo dialogo, cos’è stato più difficile e cosa invece sorprendente a tal punto di dire ancora oggi “Si può fare”?Ci sono stati vari momenti difficili, ma uno che ricordo in modo particolare è quando dovevamo organizzare un incontro di dialogo a Gerusalemme nel 2009. Qualche settimana dopo un conflitto, un’operazione che ha portato tanti morti e feriti. Poi nello stesso periodo c’era stata anche la situazione del vescovo (Richard Nelson) Williamson che negava l’olocausto. C’erano difficoltà da tutte le parti che rendevano molto difficile un dialogo aperto. Tuttavia, siamo riusciti a fare questo incontro. Siamo andati avanti e sono stati momenti di comunione molto forti, spirituali, al di là di tutti i problemi. E poi mi chiede anche le cose che sono state possibili, nonostante le difficoltà? E certamente non è stato facile organizzare un convegno sui farisei e poi pubblicare un libro. C’erano vari punti in cui mi sembrava la strada fosse sbarrata. O per ragioni economiche o perché qualcuno non era d’accordo con quello che si voleva fare, o perché sembrava impossibile avere un’udienza col Papa, per un convegno di questo tipo… Invece collaborando, ed è stata veramente una collaborazione, specialmente con una collega ebrea, ma anche con altri, è stato possibile risolvere questi problemi per dare qualcosa che fosse basato su studi seri ma si indirizzasse a situazioni concrete anche nelle chiese, nelle parrocchie. Certamente c’è stato un successo che non ha avuto subito degli effetti dappertutto, ma per esempio un Vescovo mi ha scritto “ecco, adesso dobbiamo cambiare tutto il nostro insegnamento sui farisei e sull’ebraismo nei seminari”. Questo già è qualcosa. In che modo la sua appartenenza al Movimento dei Focolari ha inciso su questa esperienza? Senza il Movimento dei focolari probabilmente non sarei entrato in questo ambito. È venuto dal Movimento la spinta a studiare le lingue della Bibbia e poi da questo è venuto tutto il resto. Sono entrato in focolare proprio il 28 ottobre 1965, era un giovedì. Io sono arrivato in focolare a Colonia (Germania) con la mia bicicletta, portata in treno con le due valigie la stessa sera in cui a Roma al Concilio, stavano approvando Nostra aetate (Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane). E questo per me ha sempre avuto un grande significato, legando l’impegno nel Movimento con quello per il dialogo. È stato chiamato anche a collaborare ufficialmente nel dialogo della Chiesa Cattolica con gli ebrei… Sì. Dal 2008 sono Consultore della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, commissione della Santa Sede. E ho partecipato a diversi incontri dell’ ILC a Buenos Aires, Città del Capo o ancora Budapest, Madrid, Varsavia, Roma … E si fanno dei passi in avanti?Un passo è già essere aperto a incontrarsi, a parlarsi e anche a superare le difficoltà nel percorso. A volte è meglio affrontare tutto con una cena insieme piuttosto che con delle lettere infuocate. Si fanno dei passi e certamente c’è molto di più da fare, c’è da espandere la rete. Cioè, la maggior parte dei cristiani e la maggior parte degli ebrei non sono coinvolti, a volte non sanno nemmeno che ci sono questi rapporti, che c’è questo cammino insieme. C’è ancora molto da fare per rendere conosciuto questo e applicarlo. Una cosa che ho imparato molto dai rapporti con gli ebrei è che le domande sono a volte più importanti delle risposte. E cioè io non devo e non posso pretendere di avere tutte le risposte e quindi non posso affrontare l’altro come qualcuno che ha trovato tutte le risposte e si rivolge a lui o a lei da una posizione di superiorità. La mia posizione è quella di essere un cercatore insieme. È questo, in modo più drammatico quando si affronta il tema della Shoah, dell’Olocausto, che è da affrontare insieme prima o poi. Una cosa essenziale è guardare, essere il più sensibile possibile agli impegni e alle necessità dell’altro. E poi essere anche aperti, e se si sbaglia si può sempre ricominciare se l’intenzione è giusta: entrare in punta di piedi nell’ambiente dell’altro, non con l’atteggiamento di chi dice “io so tutto”. Come ultima cosa, nel ricevere questo premio, oltre a sentirsi grato, c’è qualche stimolo per Joseph Sievers? Eh, sì. Per esempio, ci sono alcune domande aperte e questo mi stimola ad affrontarle di più. E forse addirittura mi dà un po’ di autorevolezza per poterle affrontare con certe persone. Non so se questo avverrà, ma è anche uno stimolo per portare avanti questo lavoro, che non è finito, che non sarà mai finito ma dove qualche passetto si può fare insieme.
Per la prima volta una settimana insieme: ebrei, musulmani, indù, buddisti, cristiani. Appartengono alla famiglia dei Focolari. Liridona viene dalla Macedonia del Nord ed è musulmana, sunnita. A Papa Francesco, nel suo recente viaggio, ha presentato l’esperienza che vive con altri giovani dei Focolari, cristiani e musulmani, concludendo con la domanda: «È lecito continuare a sognare?»[1]. Dal 17 al 23 giugno, il suo sogno si è incrociato con quello di una quarantina di persone, da 15 Paesi, di 5 fedi diverse, attesi a Castel Gandolfo come si attende «quelli di casa» dal team del centro del dialogo interreligioso dei Focolari. Prima tappa la cappella che custodisce la tomba di Chiara Lubich[2]. Con un canto Vinu Aram, indiana, leader del movimento Shanti Ashram, esprime per tutti l’amore che li lega alla «fonte» che ha cambiato le loro vite. E il dr. Amer, musulmano, docente di teologia comparata: «Vengo dalla Giordania, dove scorre il Giordano. Mi fa pensare che il nostro cammino inizia con la purificazione dell’anima. Spesso mi chiedo come persone possano togliere la vita ad altri e a sé stessi spinti dall’estremismo radicale. Chiedo a Dio il coraggio di essere pronti a dare la vita per il Bene, per testimoniare quest’amore tra noi e a tutti». Un quarto dei partecipanti ha meno di trentacinque anni. Fra loro Kyoko, buddista, dal Giappone, Nadjib e Rassim musulmani dell’Algeria, Israa e Shahnaze, sciite, che vivono negli Usa, Vijay indù di Coimbatore. Si vivono giorni di «profezia» approfondendo l’esperienza mistica dell’estate ‘49. Shubhada Joshi, indù, racconta: «Quando ho sentito parlare per la prima volta di “Gesù Abbandonato“ stavo sopportando grandi sofferenze e non riuscivo a capire. Ho iniziato a guardarlo come l’altro lato della medaglia dell’amore. Sto comprendendo la mia tradizione in un modo migliore».Dopo tre giorni questo «laboratorio» si apre a un centinaio di persone, per lo più cristiani, impegnate nel cammino di fraternità dei Focolari. Il messaggio del neo-Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, mons. Ayuso Guixot esprime un segno di profonda «sintonia» con l’operato di papa Francesco. La narrazione di questo dialogo nel magistero degli ultimi Papi fatta da Rita Moussallem e Roberto Catalano mette in evidenza l’apertura e lo spirito profetico del Vaticano II. Formazione e trasformazione dunque. Ognuno, arrivato «carico» delle proprie esperienze, trova nella condivisione con fratelli e sorelle di varie fedi la «scuola» più vera, fa l’esperienza di un «Dio presente». Oltre il dialogo, si guarda avanti insieme. Del resto Papa Francesco a Liridona aveva risposto di: «diventare bravi scalpellini dei propri sogni con applicazione e sforzo, e specialmente con una gran voglia di vedere come quella pietra, per la quale nessuno avrebbe dato nulla, diventa un’opera d’arte»[3].
Araba cristiana è nata in Israele. Ha ricevuto il premio Mount Zion 2013, insieme all’ebrea Yisca Harani per “l’apporto importante allo sviluppo del dialogo tra religioni e culture nella Terra Santa e alla comprensione tra ebrei, cristiani e musulmani”. Margaret Karram, già membro della Commissione episcopale per il dialogo interreligioso dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici della Terra Santa e collaboratrice con la direzione del Interreligious Coordinating Council in Israel (ICCI), è ora al Centro internazionale del Movimento dei Focolari ed è lei a dare voce alla preghiera di san Francesco nel momento cristiano dell’invocazione alla pace voluta dal vescovo di Roma con Shimon Peres e Abu Mazen, presente anche il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Riportiamo ampi stralci dell’intervista rilasciata a Victoria Gómez di Città Nuova. Che impressione ti sei portata da quest’incontro? «La prima è quella di essermi trovata in un’oasi di pace. Conosco bene i contrasti che la impediscono, eppure in quelle due ore trascorse insieme a pregare, mi pareva che, mentre si invocava da Dio il dono della pace, Gli si desse modo di vedere “dall’alto”, per così dire, il risultato degli sforzi umani. Certo il disegno è ancora incompiuto, mi appariva però come il ricamo di un tappeto: sul rovescio i nodi che dobbiamo sciogliere, ma chi guardava il ricamo era Dio e Lui vedeva il disegno. Mentre si susseguivano le preghiere in ebraico e in arabo pensavo: “Dio le conosce e le comprende. Lui sa agire nella storia”. Ho percepito la potenza della preghiera e capivo che il cuore degli uomini lo può cambiare solo Dio. A noi la pazienza dell’artigiano». La tua storia è una sorta di passaporto che ti abilitava alla partecipazione a quest’evento… «Ho vissuto fin da piccola sognando la pace. Ancora bambini ci chiedevamo: “Quale è la mia patria, quale il mio posto, chi sono io?”. Ora, a 50 anni, il sogno di quella patria non lo vedo ancora vicino, ma abbiamo seminato e tanto. Dobbiamo continuare a farlo. È un dovere nei confronti delle nuove generazioni. A loro dobbiamo passare la certezza che è un futuro possibile, senza perdere la speranza né abbatterci per la fatica. Ieri poi era la festa della Pentecoste e l’azione dello Spirito Santo “bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina, piega ciò che è rigido…”». Rappresentavi il Movimento dei Focolari su invito personale di papa Francesco…«In molti, dalla presidente Maria Voce agli amici di Betlemme e Gerusalemme, mi avevano assicurato la loro particolare vicinanza. Ho raccolto parole di gioia anche da diverse personalità cristiane, ebree o musulmane, incontrate nei Giardini. Mi pareva che dall’intervento del Papa emergesse una nuova spinta ad impegnarci per la pace con più coraggio. Lo sentivo rivolto anche a noi che apparteniamo ai Focolari: essere più presenti, più attivi, più coraggiosi artefici nello sciogliere i “nodi” che incontriamo ovunque. Il saluto personale del Papa poi me l’ha confermato, come il riscontro in altre autorità». Eri l’unica donna che ha dato voce ad una delle preghiere. Come ti sei sentita? «Quella preghiera ho cercato di leggerla facendomi interprete dell’umanità che crede, soffre e spera. Anche noi donne abbiamo un ruolo da svolgere per la pace. Uno dei partecipanti mi ha detto: “È importante che lei sia qua. So cosa vuol dire la ricchezza di una donna!”. Mentre ascoltavamo quelle belle preghiere e le musiche ho ricordato le parole del Papa all’Angelus, poche ore prima: la Madre Chiesa e la Madre Maria sono “tutte e due madri, tutte e due donne”. E nelle emozioni di sicuro non omogenee che vibravano nei presenti, si percepiva il bisogno di una madre». Quali sentimenti hai colto tra la gente della Terra Santa che ti ha manifestato vicinanza? «C’era grande attesa e ora c’è tanta speranza. Ovviamente non mancano gli scettici. Palestinesi e israeliani ritengono che questo incontro abbia segnato una tappa alla quale guardare da oggi e da cui continuare a farlo in futuro. Inoltre, ha costituito un forte segno per la Chiesa che si fa carico della sofferenza e delle attese dei popoli. Ed è stata una dimostrazione che la Terra Santa non è dimenticata e che il Papa non lascia soli questi due popoli e camminerà al loro fianco. L’evento va guardato a lungo termine. Intanto, occorre continuare a tessere sciogliendo i nodi e impegnandosi su tutti i livelli possibili, con coraggio e delicatezza. Tanti pensano ad un cammino lungo, ma noi non conosciamo l’azione di Dio nella storia. Possiamo sempre sperare». Fonte:Città Nuova online (altro…)
Dopo aver parlato nei templi buddisti e nella moschea di Harlem, Chiara Lubich era felice di potersi rivolgere ai fratelli ebrei. “È con grande gioia — ha detto — che mi trovo oggi qui con loro, che fanno parte di una delle più grandi comunità ebraiche del mondo. Una grande gioia perché […] Non ho mai avuto la fortunata possibilità d’incontrare in numero così notevole coloro che, col Santo Padre Giovanni Paolo II, so essere i miei ‘fratelli maggiori’ ed onorarli ed amarli come tali». I 150 presenti hanno intonato Shalom, il canto della pace. Tutto si è svolto in un clima di cerimoniale sacro, ritmato dalle Parole di Dio dell’Antico Testamento e dalla percezione di assistere ad un avvenimento che – come è stato detto – ha il significato di “chiudere un’epoca e aprirne un’altra: quella dell’unità”. Di fronte, un grande candelabro dalle 7 braccia (la menorah) con le candele accese ad una ad una con solennità: la prima rappresenta la luce, la seconda la giustizia, la terza la pace, la quarta la benevolenza, la quinta la fratellanza, la sesta la concordia. Per accendere la settima, quella centrale, sono stati invitati Chiara e il presidente [della B’nai B’rith, dott. Jaime Kopec, ndr]: è la candela della verità, il sigillo di Dio, il cuore della vita. Appena accesa, Chiara s’è rivolta al presidente proponendogli di fare in questo momento un patto d’unità. E lui ha risposto: “questo è un patto”. Poi, nel suo discorso, in cui s’è rivolto a Chiara chiamandola “sorella”, ha voluto spiegarlo a tutti come “un patto di volerci bene, di fede nel guardare il futuro, di sotterrare i secoli d’intolleranza. Non è facile, ma solo i valorosi compiono imprese difficili”. “L’unità si fa nel rispetto della diversità – ha aggiunto Mario Burman [incaricato del dialogo interreligioso della B’nai B’rith, ndr] –. Comincia un tempo nuovo”. E rivolto direttamente a Chiara: “Chiara, l’Argentina ha bisogno del suo messaggio”. “Sono qui – ha affermato Chiara – con fratelli con i quali condividiamo un’autentica fede in un solo Dio ed abbiamo in comune il patrimonio inestimabile della Bibbia in quello che noi chiamiamo: l’Antico Testamento. Che fare? Che pensare? Se la semplice regola d’oro (fai agli altri ciò che desideri sia fatto a te) riesce a farci fraternizzare, se non sempre in Dio, almeno nella fede di un Essere superiore, con i fedeli di altre religioni, cosa potrà avvenire se il Signore incomincia a chiarire che è Sua volontà intrecciare anche fra noi, ebrei e cristiani, una relazione fraterna? (…) Mi sono lasciata illuminare da tante divine verità, che costellano la loro tradizione ebraica e che noi condividiamo. Verità che possono diventare cemento fra la nostra e la vostra vita spirituale. (…) Ho sognato così di poter vivere insieme queste verità e darecon la nostra profonda comunione, con la nostra collaborazione, una nuova speranza al mondo”. Tratto da “Le luci della menorah – con Chiara Lubich in Argentina e Brasile”, Città Nuova Ed., Roma, 1998, pp. 132,34. (altro…)