Feb 5, 2002 | Dialogo Interreligioso
In occasione della giornata di preghiera per la pace di Assisi, Chiara Lubich ha potuto intrattenersi con diverse personalità di altre religioni, approfondendo il dialogo già intrapreso o avviando nuovi contatti.
Al Centro del Movimento dei Focolari a Rocca di Papa ha incontrato Nichiko Niwano, Presidente del movimento laico buddista Rissho Kosei Kai del Giappone, con cui i Focolari sono in dialogo sin dal 1979.
Per la prima volta, sempre a Rocca di Papa, Chiara Lubich ha ricevuto il rev. Joginder Singh, leader spirituale di oltre 20 milioni di Sikhs nel mondo, che risiede nel centro di Amritsar (India). Si è instaurato un rapporto vivo e cordiale centrato su Dio e sulla fratellanza fra tutti gli uomini. Chiara aveva incontrato ad Assisi anche il guru dei Sikhs inglesi, il rev. Bhai Sahib-ji Mohinder Singh con cui il Movimento dei Focolari in Inghilterra aveva già iniziato un dialogo.
Alcuni giorni dopo, anche la signora Didi Athavale, che in rappresentanza del mondo indù aveva dato la sua testimonianza di pace ad Assisi, ha desiderato incontrare Chiara. E’ la figlia del fondatore di un grande movimento indù denominato Swadhyàya.
Più che un movimento è un nuovo stile di vita che ha cambiato l’esistenza a milioni di persone: dagli emarginati e analfabeti alle élites della società, facendo crollare i muri di separazione causate da religione, ricchezza, educazione, casta, razza e sesso. Ha seminato così la pace e l’armonia sia a livello individuale che sociale.
Swadhyaya è stata iniziata dal rev. Pandhurangshastri Athavale, chiamato Dada (fratello maggiore). Un pensatore, filosofo e sociologo, che ha messo al centro della sua attività la devozione verso Dio (Bhakti) e l'attenzione all’uomo. Nei 17 stati dell’India ha 19.500 centri ed è diffuso in 110.000 villaggi.
Questi colloqui hanno aperto nuove prospettive di dialogo.
Feb 4, 2002 | Dialogo Interreligioso
Vedere gli esponenti di tutte queste religioni, delle diverse espressioni di Chiese, tutti così uniti, così desiderosi che questo avvenimento si ripeta. E’ difficile spiegare lo Spirito Santo… ma qui lo Spirito Santo invadeva tutto. Il Papa ha parlato anche a un dato punto del vento, che è simbolo della Spirito Santo.
E pensando che dietro ciascuno c’erano popoli, mondi così vari, veniva da dire: questa è una forza enorme per la pace, e anche per creare appunto questa fraternità che è la base per arrivare domani a quella meta a cui pure certi governanti mirano. Adesso, essendo stati costretti a stringere i rapporti, per esempio, la Russia con l’America, si può pensare che, in un domani, sia possibile arrivare ad un’unica comunità mondiale.
E l’anima, mi sembra, è proprio quanto abbiamo visto oggi: tutti si stimavano a vicenda… Quindi c’era proprio un amore che va e che viene. E’ una grandissima speranza!
Da intervista della Radio Vaticana – 24.1.2002
Come diffondere lo “spirito di Assisi” e tener fede ai solenni impegni presi dai leader religiosi?
Col considerare intanto questo convegno un fatto storico, perché lo è stato, ma pensandolo come un momento non isolato. Già questa volta ha avuto, in molte parti del mondo e non solo cristiano, dei significativi riflessi con incontri di preghiera locali ed altre manifestazioni per la pace. Non isolato anche perché in qualche modo dovrebbe continuare. È ciò che speriamo.
È nel nostro cuore quindi il desiderio che Assisi 2002 sia l’inizio di una serie di varie iniziative vagliate e pensate da chi ne ha la responsabilità, perché il grido: “Mai più la guerra” diventi realtà.
Da intervista Città Nuova n. 3 – 10.2.2002
Feb 4, 2002 | Chiara Lubich
Qual’ è stata l’emozione più forte che ha vissuto in questa giornata ad Assisi?
Vedere gli esponenti di tutte queste religioni, delle diverse espressioni di Chiese, tutti così uniti, così desiderosi che questo avvenimento si ripeta. E’ difficile spiegare lo Spirito Santo… ma qui lo Spirito Santo invadeva tutto. Il Papa ha parlato anche a un dato punto del vento, che è simbolo della Spirito Santo.
E pensando che dietro ciascuno c’erano popoli, mondi così vari, veniva da dire: questa è una forza enorme per la pace, e anche per creare appunto questa fraternità che è la base per arrivare domani a quella meta a cui pure certi governanti mirano. Adesso, essendo stati costretti a stringere i rapporti, per esempio, la Russia con l’America, si può pensare che, in un domani, sia possibile arrivare ad un’unica comunità mondiale.
E l’anima, mi sembra, è proprio quanto abbiamo visto oggi: tutti si stimavano a vicenda… Quindi c’era proprio un amore che va e che viene. E’ una grandissima speranza!
E’ anche una forte rivincita della religione in quanto tale, perché tante fedi diverse che si sono rivolte però a Dio in maniera simultanea e per lo stesso motivo… E’ di nuovo tornato il miracolo d’Assisi.
E’ tornato, e forse anche meglio, io penso! Perché non so se erano così tanti l’altra volta. Certo c’è questo fatto: che il Papa qualche volta ha detto … che quanto è successo col terrorismo non è solo causato da una forza umana, semplicemente, l’odio, non so, la rivendicazione di tante ingiustizie, ma che c’è la forza del Male che ha agito. E di fronte alle forze del male bisogna che si contrappongano le forze del Bene, del bene col b maiuscolo, contro il Male magari con M maiuscolo. E quindi mobilitare le religioni è la cosa più intelligente da fare contro questo fenomeno del terrorismo. Non basta che la politica si muova, non basta la guerra per far giustizia … anzi si deve stare attenti a come ci si muove, ma qui occorre l’elemento religioso, è indispensabile!
D. – E la fiamma, le tante fiamme che sono state accese, continueranno a brillare?
Assolutamente! E’ stato troppo bello. Hanno fatto un’esperienza .. L’hanno confermato tanti, anche perché li conosciamo, questi sikhs, questi musulmani. E’ stato troppo bello, troppo bello! Non si può dimenticare una cosa così. Ha agito lo Spirito Santo.
Feb 4, 2002 | Dialogo Interreligioso
D – Il Papa, facendo riferimento al vento che soffiava impetuoso, ha detto, improvvisando, che era “il soffio dello Spirito”. Tanti hanno avuto l’impressione che lo Spirito Santo abbia guidato l’incontro del 24 gennaio. E’ anche la tua opinione? Cosa te lo fa dire?
«E’ anche la mia impressione. Me lo ha confermato l’atmosfera che si è creata fra tutti, nella quale si potevano percepire i doni dello Spirito: pace e gioia, in un reciproco tangibile amore, quell’amore sublime che è diffuso nei cuori proprio dallo Spirito Santo.
«Durante l’incontro, infatti, che era stato preparato in maniera che le diverse denominazioni cristiane presenti, così come le varie altre religioni, fossero sullo stesso piano, l’amore fra tutti era così forte che, anche quando il pubblico applaudiva ripetutamente il Santo Padre, non appariva una stonatura, anzi».
D. – La giornata di preghiera per la pace ha visto riuniti i rappresentanti di tutte le principali Chiese cristiane, compresa – una felice novità – quella ortodossa russa. Una testimonianza di unità di fronte al mondo. Quale rapporto ti sembra esistere tra l’unità dei cristiani e la pace?
«Un rapporto di primo piano. Anzitutto perché l’unità fra i cristiani, una volta raggiunta, sarà sinonimo di pace per più di un miliardo di persone, quanti sono i cristiani nel mondo. E in più, poiché l’unità fra i cristiani è il tipico distintivo dei seguaci di Gesù, testimoniando essa Cristo, Signore della pace, il suo Vangelo d’amore e di pace potrà avere nel mondo una grande influenza. Ed anche al presente lo sforzo ecumenico di molti cristiani e delle loro chiese dà già sicuramente un certo contributo di pace nel mondo».
D. – Anche tu hai parlato nel tuo intervento della “regola d’oro”, come hanno fatto il Papa, il patriarca Bartolomeo e il card. Kasper. Quali prospettive concrete può aprire?
«E’ la norma base per poter instaurare il dialogo interreligioso fra le religioni. Poiché i vari libri sacri affermano che tutto ciò che si desidera fatto a sé stessi, occorre farlo agli altri (“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi anche voi fatelo a loro”, Mt 7,12), domanda a tutti, in pratica, di amare. Lo domanda con la voce stessa della propria religione attraverso la presenza di questa frase che non è altro che uno dei “semi del Verbo”, princìpi di verità diffusi nelle varie fedi».
D. – È inutile negare come esistano tra i cristiani delle resistenze contro il dialogo interreligioso. Si teme una perdita di identità, e si paventa il rischio del sincretismo. Qual è il tuo pensiero al riguardo? Cosa diresti a un cristiano “tiepido” nei confronti di questo dialogo?
«Non è per nulla sbagliato temere una perdita di identità e il sincretismo nell’approccio con fedeli di altre religioni. E’ un vero pericolo se si pensa che qualunque cristiano può essere in grado di dialogare. Lo possono fare solamente persone preparate e che ne abbiano la vocazione.
«D’altra parte nel tempo presente ormai, in molti paesi, fedeli di religioni diverse vivono quotidianamente gomito a gomito fra loro. Dovrà pur esserci quindi un modo di rapportarsi.
«Secondo il mio parere esso può consistere, da parte dei cristiani, nel mettere in pratica quell’amore che Gesù ha portato sulla terra e che ha precise esigenze: va rivolto a tutti, e non solo ai parenti e agli amici, sull’esempio dell’amore del Padre celeste che manda pioggia e sole su buoni e cattivi, quindi pure sui nemici.
È un amore che spinge ad amare per primo, senza attendere d’essere amato, come ha fatto Gesù il quale, quando eravamo ancora peccatori e quindi non amanti, ha dato la vita per noi.
È un amore che considera l’altro come sé stesso, che ama l’altro come sé.
Quest’amore non è fatto solo di parole o di sentimento, è concreto: esige cioè che ci si faccia uno con gli altri, che “si viva” in certo modo “l’altro” nelle sue sofferenze, nelle sue gioie, per capirlo, per poterlo aiutare efficacemente.
Infine quest’amore vuole che si veda Cristo nella persona amata. Anche se diretto all’uomo, alla donna, Egli, infatti, ritiene fatto a sé quanto di bene e di male si fa loro.
«Ad un cristiano tiepido spiegherei quanto ho detto fin qui, cercando di tranquillizzarlo e spronando pure lui ad amare».
D. – A rappresentare la Chiesa cattolica, il Papa ha chiamato due laici, una donna e un uomo, espressioni dei nuovi carismi… Cosa pensi stia a significare questa scelta inedita?
«A quanto so, questa è stata proprio una scelta del Santo Padre. Forse ha pensato che, come si conosce un mandorlo dai suoi fiori, così si può meglio capire la Chiesa dalle sue più piccole creature, ultime nate, ma vive: due membri dei nuovi movimenti o comunità carismatiche. Ultimi e piccoli figli della Chiesa, ma nei quali la Madre vede, come in altre realtà ecclesiali, i fautori, per grazia di Dio, d’una sua nuova giovinezza, anzi di una nuova primavera da tempo attesa e preannunciata».
D. – Giovanni Paolo II è stato a più riprese indicato dai rappresentanti delle grandi religioni come “l’unica persona” che avrebbe potuto organizzare una manifestazione come quella di Assisi. Come hai visto il Papa nella città di Francesco, e quale ti sembra debba essere il suo ruolo nel dialogo interreligioso?
«Nella città di Assisi ho visto nel Santo Padre soprattutto quella benedetta “debolezza” di cui parla san Paolo, che è garanzia di “forza”. L’ho visto nella sua veste di “servo dei servi di Dio” che detiene, fra gli altri, anche il primato dell’amore.
«Nel dialogo religioso il suo ruolo mi sembra quello che si è già affermato per la terza volta quest’anno ad Assisi: punto di incontro fra tutti, perno d’amore fra le varie confessioni cristiane e religioni. Dimostrazione vivente che il suo è un amore più grande: “Mi ami più di costoro?” (cf Gv 21,15), garanzia di fraternità sotto lo sguardo di un Padre comune».
D. – Come diffondere lo “spirito di Assisi” e tener fede ai solenni impegni presi dai leader religiosi? E quale può essere il contributo concreto del Movimento dei Focolari?
«Col considerare intanto questo convegno un fatto storico, perché lo è stato, ma pensandolo come un momento non isolato. Già questa volta ha avuto, in molte parti del mondo e non solo cristiano, dei significativi riflessi con incontri di preghiera locali ed altre manifestazioni per la pace. Non isolato anche perché in qualche modo dovrebbe continuare. E’ ciò che speriamo.
«Oggi infatti, dopo l’11 settembre, si è aggiunto un nuovo motivo per incontrarsi e per pregare Dio per la pace. In effetti certe guerre, presenti in più luoghi nel mondo, non sono più soltanto effetto dell’odio, di risentimenti per ingiustizie perpetrate, di rancori a lungo sopportati ed ira esplosi: tutti fattori negativi, ma forse semplicemente umani.
Con l’affacciarsi del terrorismo diffuso, siamo di fronte anche a “forze del male” – come le ha definite il Santo Padre –, per vincere le quali non bastano più sforzi unicamente umani, non è più sufficiente che si mobiliti, ad esempio, il mondo politico…
«Occorre che il mondo religioso avverta la necessità di far prevalere il Bene sul male, il bene con la B maiuscola, in uno sforzo comune per creare su tutto il pianeta quella fraternità universale in Dio alla cui realizzazione è chiamato. Fraternità che sola può essere l’anima di quella comunità mondiale a cui più d’uno degli ultimi papi ha fatto cenno e che è nell’aspirazione di molti cristiani.
«È nel nostro cuore quindi il desiderio che Assisi 2002 sia l’inizio di una serie di varie iniziative vagliate e pensate da chi ne ha la responsabilità, perché il grido: ’Mai più la guerra’ diventi realtà.
«Il Movimento dei Focolari? Poiché è frutto d’un carisma per questi tempi, avverte d’essere già, con i suoi vari dialoghi, le sue attività ed il suo spirito, in sintonia con quanto le presenti esigenze oggi domandano. La giornata di Assisi è servita però a dare al Movimento un’accelerazione in più, che faremo del nostro meglio per mantenere ed aumentare. Sempre, il tutto, a totale servizio di quant’altro lo Spirito e la Chiesa vorranno chiederci».
a cura di Michele Zanzucchi
Gen 31, 2002 | Parola di Vita
E’ la risposta di Gesù alla prima delle tentazioni nel deserto, avendo digiunato “quaranta giorni e quaranta notti”. Ed è la più elementare, la fame.
Da qui la proposta del tentatore di utilizzare i suoi poteri per trasformare le pietre in pane. Che male ci sarebbe a soddisfare un bisogno che è proprio della condizione umana?
Gesù però avverte l’insidia che si cela dietro la proposta: è il suggerimento di strumentalizzare Dio, pretendendo che egli si metta solo al servizio delle nostre necessità materiali. A Gesù viene chiesto, in fondo, di assumere un atteggiamento di autonomia invece dell’abbandono filiale nel Padre.
Ecco dunque la risposta di Gesù, che è anche una risposta a tutti i nostri perché di fronte alla fame del mondo, e alla sempre più drammatica richiesta di cibo, di casa, di vesti di milioni di essere umani. Lui che sfamerà le folle con il miracolo della moltiplicazione dei pani, e che baserà il giudizio finale anche sul dar da mangiare agli affamati, ci dice che Dio è più grande della nostra fame e che la sua Parola è il primo ed essenziale nostro nutrimento.
«Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»
Gesù presenta la Parola di Dio come pane, come nutrimento. Questo pensiero, questa similitudine di Gesù ci illumina sul nostro rapporto con la Parola.
Ma come si fa a nutrirsi della Parola?
Se il grano prima è seme, poi è spiga e infine pane, così la Parola è come un seme deposto in noi che deve germogliare, è come un frammento di pane che va mangiato, assimilato, trasformato in vita della nostra vita.
La Parola di Dio, il Verbo pronunciato dal Padre e incarnatosi in Gesù, è una sua presenza fra noi. Ogni volta che l’accogliamo e cerchiamo di metterla in pratica è come nutrirsi di Gesù.
Se il pane nutre e fa crescere, la Parola nutre e fa crescere Cristo in noi, la nostra vera personalità.
Venuto Gesù in terra e fattosi nostro cibo, non può più bastarci un alimento naturale come il pane. Abbiamo bisogno di quello soprannaturale che è la Parola per crescere come figli di Dio.
«Sta scritto: non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»
La natura di questo cibo è tale che di esso si può dire, come di Gesù nell’Eucaristia, che, quando ne mangiamo, non si trasforma in noi, ma siamo noi che ci trasformiamo in lui, perché veniamo, in certo modo, assimilati da lui.
Così il Vangelo non è un libro di consolazione ove ci si rifugia unicamente nei momenti dolorosi, ma il codice che contiene le leggi della vita, leggi che non vanno solo lette, ma assimilate, mangiate, con l’anima, e con ciò ci fanno simili a Cristo in ogni istante.
Si può essere dunque altri lui attuando in pieno e alla lettera la sua dottrina. Sono Parole d’un Dio le sue, cariche d’una forza rivoluzionaria, insospettata.
Questo dobbiamo fare: nutrirci della Parola di Dio. E, come oggi l’alimento necessario al corpo può essere concentrato in una pillola, così noi possiamo nutrirci di Cristo vivendo volta per volta anche una sola delle sue Parole, perché in ognuna di esse egli è presente.
C’è una Parola per ogni momento, per ogni situazione della nostra vita. La lettura del Vangelo ce le potrà rivelare.
Viviamo ora l’amore al prossimo per amor di Dio, che è come un concentrato di tutte le Parole.
Chiara Lubich
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Gen 23, 2002 | Dialogo Interreligioso
"La Giornata di Assisi è molto molto importante, molto molto urgente. Se prima il dialogo interreligioso si poteva fare, era segno dei tempi, adesso è un’esigenza improrogabile, proprio per le circostanze. Perché c’ è la minaccia anche di uno scontro di culture, di religioni. Non solo. Come ha detto il Papa ed ho pensato anch’io quando sono cadute le torri, qui non si tratta soltanto di un fattore umano come l’ odio, ma qui c’ è di mezzo „la forza delle tenebre“, ci sono forze del male, per cui non basta l’elemento politico, civile, umano, per contrapporsi. Anche quello sarà stato necessario, ma è necessario che si arruolino anche le religioni, che le religioni si mobilitino, perché contro il Male – con la M grande – ci vuole Dio, ci vuole l’aiuto di Dio, l’aiuto soprannaturale. E’ essenzialissimo l’aspetto religioso oggi nel mondo".
Gen 23, 2002 | Dialogo Interreligioso
Quando Giovanni Paolo II visitò l’India nel 1986, incontrò a Madras i rappresentanti delle varie religioni e disse loro queste parole:
“Il frutto del dialogo è l’unione fra gli uomini e l’unione degli uomini con Dio. Attraverso il dialogo facciamo in modo che Dio sia presente in mezzo a noi, perché mentre ci apriamo l’un l’altro nel dialogo, ci apriamo anche a Dio”.
Sono parole che esprimono esattamente ciò che Chiara sentì fin dal primo incontro con fratelli e sorelle di altre fedi religiose.
La prima forte esperienza fu quella vissuta da lei nel 1966 in una sperduta valle dell’Africa camerunense, a Fontem, a contatto con la tribù dei Bangwa fortemente radicata nella religione tradizionale. Per farle festa tutti si erano radunati in una grande radura della foresta per i loro canti e le loro danze e lì Chiara ebbe la forte impressione che l’Amore di Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti e ci facesse uno. Per la prima volta nella sua vita Chiara intuì che il carisma datole da Dio poteva essere una forza soprannaturale di coesione fra cristiani e fedeli di altre religioni.
Ma l’evento in qualche modo "fondante" del nostro dialogo interreligioso fu il Premio Templeton per il Progresso della Religione, che venne assegnato a Chiara nel 1977. A Londra, dopo il suo discorso alla cerimonia nella Guildhall davanti a rappresentanti qualificati delle grandi religioni mondiali, ebbe la profonda sensazione che tutti i presenti fossero una cosa sola, anche se di fedi diverse. Cercando una spiegazione a tutto questo, Chiara pensò che forse dipendeva dal fatto che la maggior parte dei presenti avesse una viva fede in Dio e che Egli, anche qui, ci avvolgesse col suo amore.
Quando uscì dalla sala, i primi a salutarla furono proprio gli appartenenti ad altre religioni: buddisti, musulmani, ebrei, sikhs, indù, ecc. Chiara intuì che questa circostanza dava al Movimento una nuova apertura: avremmo dovuto da allora in poi cercare di portare il nostro spirito, il nostro amore, la nostra vita, non solo nelle altre Chiese o comunità ecclesiali cristiane, ma anche a questi nostri fratelli di altre fedi.
Ciò che è accaduto in più di 20 anni di dialogo è difficile da riassumere. Sono stati scritti dei libri sui suoi incontri con i buddisti del Giappone e della Thailandia, con gli ebrei in Sud America, con i musulmani negli U.S.A.
Prima di affrontare il dialogo con l’Islam, nel breve tempo che abbiamo a disposizione, vorremmo chiederci quale sia la chiave del nostro dialogo e come mai abbia avuto una evoluzione così rapida e profonda. La risposta è tutta nella nostra spiritualità che è la spiritualità dell’unità e che ci porta a vivere il nostro dialogo con quell’arte di amare che Chiara ha riassunto in quattro punti e che sono perfettamente condivisibili da tutte le tradizioni religiose.
L’arte di amare di Chiara è attinta direttamente dal Vangelo. Ed è:
Dic 31, 2001 | Parola di Vita
Tutti i cristiani sono invitati in questo mese a pregare per l’unità e si sono dati una Parola di Dio da meditare e da vivere, tratta dal Salmo 36. Questa Parola della Scrittura ci dice qualcosa di così importante e vitale, da essere uno strumento di riconciliazione e di comunione.
Anzitutto ci dice che una sola è la sorgente della vita, Dio. Da lui, dal suo amore creativo, nasce l’universo e ne fa la casa dell’uomo.
E’ lui che ci dà la vita con tutti i suoi doni. Il salmista, che conosce le asprezze e le aridità dei deserti e che sa cosa significa una sorgente d’acqua, con la vita che le fiorisce attorno, non poteva trovare un’immagine più bella per cantare la creazione che nasce, come un fiume dal grembo di Dio.
Ecco, dunque, sgorgare dal cuore un inno di lode e di riconoscenza. Questo è il primo passo da fare, il primo insegnamento da cogliere nelle parole del Salmo: lodare e ringraziare Dio per la sua opera, per le meraviglie del cosmo e per quell’uomo vivente che è la sua gloria e l’unica creatura che sa dirgli:
«E’ in te la sorgente della vita»
Ma non è bastato all’amore del Padre, pronunciare la Parola con cui tutto è stato creato. Ha voluto che la sua stessa Parola prendesse la nostra carne. Dio, l’unico vero Dio, si è fatto uomo in Gesù e ha portato sulla terra la sorgente della vita.
La fonte di ogni bene, di ogni essere e di ogni felicità è venuta a stabilirsi fra di noi, perché l’avessimo, per così dire, a portata di mano. “Io sono venuto – dice Gesù – perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” . Egli ha riempito di sé ogni tempo e spazio della nostra esistenza. E ha voluto rimanere con noi per sempre, in modo da poterlo riconosce ed amare sotto le più varie spoglie.
A volte ci viene da pensare: “Come sarebbe bello vivere ai tempi di Gesù!” Ebbene, il suo amore ha inventato un modo per rimanere non in un piccolo angolo della Palestina, ma su tutti i punti della terra: Egli si fa presente nell’Eucaristia, secondo la sua promessa. E lì noi possiamo abbeverarci per nutrire e rinnovare la nostra vita.
«E’ in te la sorgente della vita»
Un’altra fonte cui attingere l’acqua viva della presenza di Dio è il fratello, la sorella. Ogni prossimo, specie quello bisognoso, che ci passa accanto, se noi lo amiamo, non si può considerare un nostro beneficato ma un nostro benefattore perché ci dona Dio. Infatti, amando Gesù in lui [“Ho avuto fame (…), ho avuto sete (…), ero uno straniero (…), ero in carcere (…)] riceviamo in cambio il suo amore, la sua vita, perché lui stesso, presente nei nostri fratelli e sorelle, ne è la sorgente.
Una fontana ricca di acqua è anche la presenza di Dio dentro di noi. Egli sempre ci parla e sta a noi ascoltare la sua voce, che è quella della coscienza. Quanto più ci sforziamo di amare Dio e il prossimo, tanto più la sua voce si fa forte e sovrasta tutte le altre. Ma c’è un momento privilegiato nel quale come mai possiamo attingere alla sua presenza dentro di noi: è quando preghiamo e cerchiamo di andare in profondità nel rapporto diretto con lui, che abita nel fondo della nostra anima. E’ come una vena d’acqua profonda che non s’asciuga mai, che è sempre a nostra disposizione e che ci può dissetare in ogni momento. Basterà chiudere un attimo le imposte dell’anima e raccoglierci, per trovare questa sorgente, pur nel bel mezzo del più arido deserto. Fino a raggiungere quell’unione con lui nella quale si sente che non siamo più soli, ma siamo in due: egli in me e io in lui. Eppure siamo – per suo dono – uno come l’acqua e la sorgente, il fiore e il suo seme.
In questa Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, la Parola del Salmo ci ricorda, dunque, che è solo Dio la sorgente della vita e quindi della comunione piena, della pace e della gioia. Quanto più ci abbevereremo a questa fonte, quanto più vivremo di quell’acqua viva che è la sua Parola, tanto più ci avvicineremo gli uni gli altri e vivremo come fratelli e sorelle. Allora si avvererà, come continua il Salmo: “Quando ci illumini viviamo nella luce” , quella luce che l’umanità attende.
Chiara Lubich
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Dic 14, 2001 | Dialogo Interreligioso
Una giovanissima donna di 81 anni, i capelli bianchi e gli occhi chiari che guardano lontano.
Chiara Lubich, classe 1920, è la fondatrice e leader di un movimento diffuso su scala planetaria, quello dei Focolari: un popolo di due milioni e duecentomila persone attorno a cui gravitano almeno cinque milioni di simpatizzanti, presenti in 182 paesi.
La Lubich, di casa in Vaticano e nei palazzi del potere civile di tutta Europa, da ieri è a Genova: riceverà oggi un premio in denaro della Regione Liguria, destinato a finalizzare la ricostruzione di un istituto scolastico in Pakistan.
Domani sarà a Palazzo Tursi per ricevere la cittadinanza onoraria della città di Genova.
Chiara Lubich, come comincia l’avventura dei Focolari?
“Era il 1943, iniziava la guerra. Ricordo un grande bombardamento durante il quale mi ritrovai in un bosco di Trento che viene chiamato ’Goccia d’oro’. Sentivo le bombe che cadevano da ogni parte e mi rendevo conto che tutti gli ideali che avevamo io e le mie amiche, lo studio, la famiglia, una bella casa, erano niente. Quella notte piansi e vidi scorrere sopra di me tutte le stelle, senza chiudere occhio. Quando il giorno dopo i miei genitori sfollarono sui monti, io rimasi in città con le mie compagne, con la benedizione di mio padre, un vecchio socialista”.
Da quella esperienza traumatica di guerra è nato un movimento che coinvolge milioni di persone. Parlate di valori difficili da accogliere nella società di oggi: fratellanza, castità, amore …
“Abbiamo fatto nostro il Vangelo preso alla lettera, come è proposto dalla Chiesa: non annacquato”.
Anche il Papa parla di valori che sembrano fuori dal tempo. Però domani, 14 dicembre, ha chiesto un digiuno per la pace.
“E’ una proposta molto bella. Il Papa non ha avuto paura di fare una cosa simile all’Islam, nel giorno della fine del Ramadan. E l’invito al digiuno è rivolto a tutti, anche agli anziani come”.
Perché questo Papa trova tanto seguito tra i giovani con le sue richieste così estreme?
“I giovani non sono come gli adulti, non hanno un passato come i vecchi, delusi e prevenuti per il crollo delle ideologie. Sono fisicamente rivolti verso il futuro e vanno avanti pronti per grandi ideali. Recentemente mi sono trovata a parlare nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna. C’erano 6.000 giovani. Ho raccontato qualche fatterello di quando ero bambina, quando le suore mi portavano all’ adorazione del Santissimo Sacramento: ricordo che una volta svenni, tanto ero concentrata. Ebbene, durante quella Messa non c’erano più ostie per la Comunione e alla fine c’era la coda ai confessionali”.
Il Movimento dei Focolari nasce all’interno del cattolicesimo, ma comprende anche fedeli dell’Islam e di altre religioni. Come è possibile?
“E’ un movimento aperto al dialogo con tutti: il primo dialogo è quello tra i cattolici. Poi c’è quello ecumenico: in 58 anni di vita dei Focolari abbiamo raggiunto cristiani di 350 chiede diverse. Nemmeno sapevo che esistessero. E poi c’è il dialogo stupendo con le altre religioni. Perché c’è stato un solo popolo eletto, ma gli altri non sono stati dimenticati. I semi del Verbo sono sparsi in tutte le religioni”.
L’Islam oggi fa paura a molti, nel paesi islamici il proselitismo religioso è punito con la morte. Com’è possibile il dialogo?
“Noi abbiamo contatti con l’Islam in Asia, in Africa, nell’America del Nord; i musulmani possono far parte dei Focolari restando musulmani. Tempo fa un Imam a capo di 2 milioni di Afro-americani mi ha invitato a NewYork nel quartiere di Harlem, dove aveva vissuto Malcolm X. Ho parlato col chador sul volto, rivolta a La Mecca, davanti a tremila persone, con un altoparlante che amplificava perché potesse sentire chi era rimasto fuori. Ci sono parti del Corano che valgono anche per noi. Nel libro sacro dell’Islam compare 42 volte il nome di Maria. E le frasi di Gesù che paragonano i fedeli ai gigli dei campi sono universali”.
L’11 settembre ha cambiato le cose? Cosa può fare una donna di 81 anni?
“Stiamo lavorando in Pakistan per la ricostruzione di una scuola, a Dalwal, vicino a Islamabad. Sarà aperta anche alle donne”.
Dic 12, 2001 | Focolari nel Mondo
Comunicato Stampa
Nel corso di una seduta straordinaria del Consiglio regionale questa mattina, alla presenza di un folto pubblico è stato conferito a Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, il Premio per la pace, la solidarietà e lo sviluppo dei popoli. In base alla Legge regionale 28 del 1998 sulla cooperazione allo sviluppo, alla solidarietà internazionale e alla pace, le sono stati donati una medaglia e un assegno di 20 milioni per finanziare le numerose opere benefiche del movimento.
Il premio venne istituito sulla base di una mozione proposta fra gli altri da Massimiliano Costa (capogruppo Ppi-Udeur Insieme) e Nicola Abbundo (Forza Italia) e approvata all’unanimità dal Consiglio regionale. Chiara Lubich nel suo intervento, ha annunciato che il contributo finanziario ricevuto verrà destinato a un complesso scolastico in Pakistan frequentato da 118 allievi e all’annesso Centro per il dialogo cristiano-musulmano: “Sarà un ulteriore segno – ha detto – che la convivenza fra religioni diverse è possibile e rappresenterà una testimonianza di pace”.
“Vogliamo consegnarglieli – ha detto il Presidente del Consiglio Vincenzo Gianni Plinio aprendo la seduta – in segno di riconoscenza per la sua incessante e meritoria opera per la pace ed al servizio dell’umanità”. Plinio ha ricordato i 12 dottorati honoris causa e le altrettante cittadinanze onorarie, i sei premi internazionali che la Lubich ha ricevuto e in particolare quello prestigioso dell’Unesco del 1996.
“A parlare della Lubich – ha aggiunto Plinio – sono i fatti: in poco più di 50 anni ha dato vita ad un ampio movimento impegnato nel rinnovamento spirituale e sociale della comunità e nella diffusione del Vangelo come fonte di valori capaci di ricostruire l’uomo e ricomporre la famiglia umana. In 182 paesi la Lubich è riuscita a coinvolgere non solo cattolici ma persone di oltre 350 diverse Chiese e fedi religiose insieme a moltissime persone animate da diverse convinzioni. Con la forza dell’amore verso gli altri è riuscita a sanare violenze, odi e pregiudizi ridando a tanti disperati un po’ di fiducia e dignità”.
Ma Plinio ha voluto ringraziare la Lubich anche per quanto lei e i suoi collaboratori hanno fatto e continuano a fare per i più deboli e i più poveri fra i liguri ed i genovesi: “E’ infatti degno di massimo rispetto anche e soprattutto da parte della pubblica amministrazione chi, superando le logiche del profitto, ha saputo, come il consorzio Tassano, creare cooperative sociali in grado di condividere parte dei loro utili con i poveri e attente all’inserimento lavorativo di soggetti in fascia debole che oggi risultano fuori dal processo produttivo”.
Dopo il presidente Plinio ha preso la parola il Presidente della Giunta Sandro Biasotti che nel rivolgersi a Chiara Lubich si è detto emozionato come quando ha incontrato il Papa”. Biasotti si è poi detto onorato di poter incontrare una persona del suo valore morale: “Lei – ha aggiunto – è riuscita ad adattare il suo ruolo all’evoluzione dei tempi ed è riuscita ad essere attuale per ben 50 anni”.
Chiara Lubich, dopo aver ringraziato il Consiglio regionale per l’ambito riconoscimento, ha ripercorso a grandi linee le tappe del suo movimento nato nel 1943 a Trento in piena guerra. Ed è proprio in quel momento terribile che si sviluppò la volontà di far crescere la fratellanza e l’amore fra i popoli. Chiara Lubich ha ricordato i primi contatti, nel 1969, con il capoluogo ligure, i suoi imprenditori e i suoi lavoratori. Grazie anche al contributo di questi ultimi, l’azione incessante dei focolarini si sviluppò fra i Bangwa, un popolo che abitava un posto sperduto nella foresta del Camerun ed era in via di estinzione, decimato da una mortalità infantile che raggiungeva il 90 per cento. Vennero inviati medici, creato un piccolo dispensario, diffusa una cultura igienico sanitaria di base. “I risultati – ha ricordato la Lubich – non si fecero attendere: la mortalità infantile diminuì rapidamente.
Ma quello è stato solo il primo passo: oggi il villaggio un tempo sperduto nella foresta è diventato sede di sotto-prefettura”.
Altra operazione che ha visto l’intervento dei genovesi è il progetto “Genova per il Nord Est del Brasile”: grazie a 150 opere donate da pittori e scultori e al patrocinio della Regione Liguria, è stata creata a Recife una moderna falegnameria che dà lavoro in una zona poverissima. Negli anni ‘80 inoltre è nata un’azienda dedicata alla cooperazione allo sviluppo grazie alla quale sono stati dotati di acqua potabile 25 villaggi del Benin.
Domani Chiara Lubich riceverà la cittadinanza onoraria della città di Genova.
Dic 11, 2001 | Dialogo Interreligioso
Venerdì 14 dicembre alle ore 18, nella Sala del Maggior Consiglio al Palazzo Ducale, il Sindaco ha conferito a Chiara Lubich la cittadinanza onoraria.
Anche l’Università di Genova le ha assegnato un riconoscimento per l’apporto dato alla cultura.
Particolare significato assume questo avvenimento in coincidenza con la giornata di digiuno e di preghiera promossa dal Papa per “accrescere la comprensione reciproca tra cristiani e musulmani, chiamati più che mai, nell’epoca attuale, ad essere insieme costruttori di giustizia e di pace”.
Ed è proprio sullo sfondo dell’attuale contesto internazionale che al Palazzo Ducale Chiara Lubich ha parlato della spiritualità dell’unità e dell’impegno nel dialogo ecumenico, interreligioso e con persone di buona volontà, mentre Shahrzad Hushmand, teologa islamica iraniana, ha dato testimonianza del dialogo tra cristiani e musulmani promosso dal Movimento dei Focolari in varie parti del mondo.
Tra le personalità, è intervenuto anche l’arcivescovo di Genova, card. Dionigi Tettamanzi.
Il Consiglio regionale della Liguria, considerata “l’importanza di questo momento per tutta la comunità cittadina e regionale”, ha istituito un premio che è stato assegnato a Chiara Lubich quale riconoscimento del suo apporto nel campo dello sviluppo, della solidarietà internazionale e della pace. Le è stato consegnato dal Presidente della Regione, Sandro Biasotti, giovedì 13 dicembre, alle ore 10,30, durante la seduta straordinaria del Consiglio stesso.
Sabato 15 dicembre, al Palasport di Genova, alle ore 15, c'è stato un grande incontro di associazioni, movimenti e nuove comunità. Anche questo appuntamento è stato nel segno del dialogo e dell’unità. E' stata presentata l’esperienza di dialogo tra cristiani e musulmani promosso dai Focolari e il cammino di comunione tra associazioni, movimenti e nuove comunità incoraggiato dal Papa alla vigilia di Pentecoste ’98. E' seguita la presentazione del contributo dei vari carismi al momento storico attuale. Hanno preso la parola rappresentanti dell’Azione Cattolica, Comunità di Sant’Egidio, Rinnovamento carismatico, Comunione e Liberazione. Ha concluso Chiara Lubich. L’incontro è culminato con la celebrazione eucaristica presieduta dal card. Tettamanzi, alle ore 17,30.
Sabato, al Palasport, alle 21, appuntamento aperto alla cittadinanza: il complesso internazionale Gen Rosso ha presentato il musical “Streetlight” che porta in scena la storia vera di un giovane afroamericano ucciso per il suo impegno non violento.
Dic 7, 2001 | Ecumenismo
Incontro di movimenti cattolici e evangelici nel duomo di Monaco di Baviera
Monaco – Chiara Lubich, presidente e fondatrice del Movimento internazionale dei Focolari, ha invitato i 5000 partecipanti all’incontro – primo nella storia – nel duomo di Monaco, ad una nuova passione per portare il messaggio cristiano.
Questa nuova passione può crescere solo da un nuovo amore a Dio e agli uomini. L’amore cristiano è molto esigente e va oltre i confini di un amore puramente naturale che si ferma alla cerchia dei propri amici. L’amore cristiano deve rivolgersi a tutti, ai simpatici e agli antipatici, ai belli e a brutti, a quelli della mia patria e agli stranieri, a quelli che appartengono alla mia religione e a quelli di altre religioni – diceva la Lubich. E proprio per questo è importante per i cristiani il dialogo interreligioso, senza tacere il messaggio dell’amore cristiano dell’amore di Dio in Gesù Cristo.
A diffondere il Vangelo, non sono chiamati solo i ministri nelle Chiese. E’ compito di tutto il popolo di Dio – diceva Chiara Lubich. Qui c’entra la grande forza dei Movimenti che si sono formati nelle varie Chiese.
L’arcivescovo di Monaco, card. Friedrich Wetter, e il vescovo evangelico-luterano della Baviera, Johannes Friedrich sottolineavano il legame dei Movimenti con le Chiese. “La Chiesa e i Movimenti non sono alternative – diceva Friedrich – Le Chiese hanno bisogno di voi e voi avete bisogno della Chiesa per non chiudervi in voi stessi”.
Il card. Wetter diceva che solo insieme possiamo costruire la civiltà dell’amore.
Il vescovo Friedrich ricordava anche la firma sulla Dichiarazione congiunta sulla Giustificazione tra le Chiese evangelico-luterana e cattolica; l’incontro dei Movimenti in duomo è un segno visibile che la Dichiarazione comune non è rimasta senza seguito.
La pluralità e la vivacità dei nuovi movimenti spirituali sono inoltre una dimostrazione che lo spirito di pentecoste è ancora molto forte.
Il pastore Friedrich Aschoff, presidente del Rinnovamento nello Spirito della Chiesa evangelica in Germania diceva: “Già il fatto che sono nati questi movimenti è un segno dell’agire dello Spirito Santo. Il secolo passato non è stato solo un secolo di guerre mondiali terribili e di crolli diversi, ma anche un secolo di risveglio spirituale.
In questo contesto, Aschoff nominava anche la nascita del movimento pentecostale, la fondazione di nuove comunità, come Taizè e anche il Concilio Vaticano II, a cui erano invitati anche osservatori evangelici. Adesso si tratta di cercare di più l’unità tra queste nuove forme associative, e diceva: “Il nostro mondo così frammentato, così in ricerca, ha bisogno di una Chiesa che diventi unita e che comprenda la molteplicità. Una tale Chiesa è il segno più certo in cui il mondo secolarizzato può riconoscere Gesù quale salvatore mandato da Dio”.
Per questo incontro dei Movimenti nel duomo di Monaco erano stati invitati circa 50 gruppi del mondo evangelico, di quello cattolico e delle chiese libere. Alcuni movimenti presentavano anche alcune loro realizzazioni, come la comunità di Sant’Egidio che si impegna nella lotta contro la povertà e l’Aids, il CVJM (= YMCA), che si impegna per il rinnovamento spirituale nelle capitali, il movimento Cursillos che offre corsi di approfondimento della fede e la Équipe Nôtre Dame che si impegna per il sostegno delle famiglie. E’ stato il primo incontro a livello tedesco di questo tipo, che è stato organizzato in modo ecumenico. Il titolo era: “Come, se non insieme?”.
Nov 30, 2001 | Parola di Vita
Ecco una Parola decisiva per la nostra vita e la nostra testimonianza nel mondo. Per spiegare la condotta del cristiano, Paolo ama spesso far l’esempio delle vesti che il seguace di Cristo deve indossare. E anche qui, nella lettera ai Colossesi, parla delle virtù, che devono prendere posto nel nostro cuore, come di tanti capi di vestiario. Esse sono: la misericordia, la bontà, l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza, la sopportazione, il perdono.
Ma “al di sopra di tutto – dice, quasi pensando ad una cintura che lega tutto insieme e dà perfezione all’abbigliamento – vi sia la carità”. Sì, la carità; perché non basta per un cristiano esser buono, misericordioso, umile, mansueto, paziente… Egli deve avere per i fratelli e le sorelle la carità. Ma la carità – può obiettare qualcuno – non è forse esser buoni, misericordiosi, pazienti, saper perdonare? Sì, ma non solo. La carità ce l’ha insegnata Gesù. Essa consiste nel dare la vita per gli altri. L’odio toglie la vita agli altri (“chi odia è omicida” ), l’amore dà loro la vita. Ogni cristiano, solo se muore a se stesso per gli altri ha la carità. Ma se ha la carità – dice Paolo – sarà perfetto e ogni altra sua virtù acquisterà la perfezione.
«Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»
Certamente alcuni di noi possono avere una buona disposizione verso i fratelli e le sorelle, perdonando e sopportando. Ma, se ben osserviamo, quello che spesso ci manca può essere proprio la carità. Pur con le più sante intenzioni, la natura ci porta a ripiegarci su noi stessi e, di conseguenza, nell'amare gli altri usiamo le mezze misure. Ma non si è cristiani se si è solamente così. Occorre mettere il nostro cuore nella massima tensione. Di fronte ad ogni prossimo che incontriamo nella nostra giornata (in famiglia, al lavoro, dappertutto) dobbiamo dire a noi stessi: “Su, coraggio, rispondi a Dio, è il momento di amare, con un amore così grande da mettere in gioco anche la vita”.
«Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione»
Questa Parola dell'Apostolo ci invita, dunque, ad esaminarci fino a che punto la nostra vita cristiana è animata dalla carità, la quale, come vincolo della perfezione, è quel legame che ci porta alla più alta unità con Dio e fra noi. Ringraziamo, dunque, il Signore per averci riversato nei cuori il suo amore che ci rende sempre più capaci di ascoltare, di immedesimarci con i problemi e le preoccupazioni dei nostri prossimi; di condividerne il pane, le gioie e i dolori; di far cadere certe barriere, che ancora ci dividono; di mettere da parte certi atteggiamenti di orgoglio, di rivalità, di invidia, di risentimento per eventuali torti ricevuti; di superare quella terribile tendenza alla critica negativa; di uscire dal nostro egoistico isolamento per metterci a disposizione di chi è nella necessità o nella solitudine; di costruire dappertutto l'unità, voluta da Gesù. E' questo il contributo che noi cristiani possiamo dare alla pace mondiale e alla fraternità fra i popoli, specie nei momenti più tragici della storia.
Chiara Lubich
Nov 29, 2001 | Spiritualità
La dottrina spirituale di Chiara Lubich viene presentata secondo tre grandi momenti:
il primo concentrato sul cuore del carisma;
il secondo sull’originale modalità di vivere e pensare la fede; il terzo sulla visione del mondo nei suoi aspetti più diversi, dalla politica all’economia, dalla filosofia alle scienze della comunicazione.
Come dimostrano i saggi teologici introduttivi, la figura di Chiara Lubich può essere collocata, senza timore di eccedere nella valutazione, accanto alle più grandi personalità della spiritualità cattolica di tutti i tempi.
Il suo insegnamento ha già mostrato lungo gli anni tutta la propria ricchezza, generando libri, discorsi, lettere, interventi. Di tale variegato e ricco messaggio però mancava un’organica articolazione che ne abbracciasse sia l’estensione cronologica di oltre mezzo secolo, sia l’ampiezza degli argomenti trattati.
Il presente volume, che della figura di Chiara Lubich offre la dottrina spirituale, intende colmare tale vuoto.
Gli scritti che lo compongono vanno dal 1943 (anno di fondazione del Movimento dei Focolari) ai nostri giorni, e racchiudono l’intera varietà dei generi letterari nei quali ha preso vita la spiritualità di Chiara Lubich: lettere personali e manifesti programmatici, pagine a stampa e parole sussurrate all’orecchio, magistrali lezioni accademiche e frasi stringate come aforismi, discorsi pubblici e colloqui intimi e personali. In queste pagine non manca nessuno dei numerosi registri utilizzati da Chiara Lubich per esprimere la sua originale interpretazione del cristianesimo.
Curato da un esperto studioso di Chiara Lubich, questo libro è stato rivisto dall’Autrice parola per parola, non senza nuove integrazioni e una significativa presenza di inediti. Al testo si affiancano due saggi sul valore teologico e spirituale, la bibliografia completa delle opere e una rassegna dei principali scritti sulla sua figura, due dettagliate schede sulla biografia e sul Movimento dei Focolari, un indice dei temi spirituali.
Frutto di una competenza e di un amore rari, questo libro è una vera piccola “summa” che consente di conoscere in profondità una delle più suggestive spiritualità del nostro tempo.
Nov 29, 2001 | Spiritualità
Qual è il destino del cristianesimo nel terzo millennio? Quale ascolto riesce a ottenere il suo messaggio – cruciale – di amore, in un’epoca continuamente minata e smembrata dall’odio e dalla violenza? Quali vie deve percorrere la fede, e quale spazio può avere la provocazione evangelica o il modello ecclesiale mariano nel mondo globalizzato, dove vecchi e nuovi fanatismi si intrecciano a facili sincretismi acquisiti a basso costo nel supermarket del sacro? Il teologo Karl Rahner non aveva dubbi: per lui, il cristiano del futuro o sarà un mistico (vale a dire, uno che vive l’esperienza di Dio nel mondo) o, semplicemente, non sarà.
Chiara Lubich è la testimonianza vivente di questa convinzione. Sin da quando, ventenne, scriveva in una lettera degli anni ’40 dalle macerie della sua Trento bombardata: “Vedi, io sono un’anima che passa per questo mondo. Ho visto tante cose belle e buone e sono sempre stata attratta solo da quelle. Un giorno (indefinito giorno) ho visto una luce. Mi parve più bella delle altre cose belle e la seguii. Mi accorsi che era la Verità”. In queste poche, semplici parole è racchiuso il nocciolo di un carisma, di un’utopia incarnata nel movimento cattolico del Focolare, fondato il 7 dicembre del 1943 da Lubich: classe 1920, maestra elementare appassionata di filosofia che proprio dal crollo di ogni progetto e valore provocato dalla seconda guerra mondiale ha scoperto il Dio-amore, il suo ideale di unità e santità comunitaria.
A 81 anni, dopo 12 dottorati honoris causa, altrettante cittadinanze onorarie, ruoli di spicco che l’hanno resa familiare e amata in ogni angolo del pianeta e un mare di premi nazionali e internazionali, Chiara conserva lo stesso sorriso fresco e contagioso di allora, la stessa schiva ma autorevole mitezza e l’infaticabile operosità che ha fatto crescere il movimento da lei fondato e presieduto. Radicato, oggi, in 182 Paesi del mondo, con due milioni di aderenti e un’irradiazione di più di cinque milioni di persone.
Per approfondire la peculiare spiritualità contemplattiva di questa figura – non a torto considerata una delle più profetiche personalità cattoliche di tutti i tempi, maestra di dialogo, economia di comunione, ecumenismo interreligioso – giunge quanto mai opportuna la pubblicazione della sua dottrina spirituale. Si tratta di un florilegio di scritti dalle origini del percorso di Chiara Lubich ai giorni nostri, raccolto per la cura dello studioso Michel Vandeleene per Mondadori in un corposo volume (pagg. 446, lire 36mila) che si avvale, tra l’altro, di due saggi teologici di Piero Coda e Jesus Castellano.
Il volume (Chiara Lubich, la dottrina spirituale) verrà presentato oggi alle 18 a Roma, nel Teatro Quirino, in un incontro durante il quale il giornalista Sergio Zavoli (ammiratore della religiosità laica di Chiara, alla quale ha non a caso dedicato dei versi nella raccolta poetica In parole strette) dialogherà con l’autrice.
(da Il Mattino On Line – di Donatella Trotta)
Nov 29, 2001 | Spiritualità
Chissà. Se nel ’43 a Trento non fosse dovuta scappare nei rifugi antiaerei col Vangelo stretto sotto il cappotto, forse oggi il movimento dei Focolari non sarebbe una realtà in 182 Paesi. Sarà per questo che Chiara Lubich oggi invita a non disperare. Anche nella tragedia indicibile dell’11 settembre.
Anche con una guerra che atterrisce chi credeva e crede nel dialogo. «Ci sono due modi di vederla – dice Chiara Lubich con la disarmante semplicità delle grandi anime – uno umano: migliaia di morti, una giustizia che occorre fare ma stando attenti a che non provochi altra violenza… Poi c’è l’altro modo. Un ragazzo di New York mi ha scritto: da quel giorno qui i muri di indifferenza stanno crollando, in questa città è rinata la solidarietà. Ecco – spiega – san Paolo ci dice che tutto coopera al bene per chi ama Dio. Tutto, proprio tutto. Capi di Stato, che prima non si guardavano nemmeno, ora collaborano. Chissà che domani non guardino al mondo come a una fraternità, che domani non succeda qualcosa di bello. Se non ci fosse stata la Guerra mondiale, quando tutto crollava, forse non avremmo capito che tutto è vanità. Ed è nata questa rivoluzione cristiana. La guerra è stata un segno della Provvidenza».
Chiara Lubich spazia a 360 gradi dai ricordi dei suoi primi passi alla crisi internazionale, della fede al dialogo ecumenico e interreligioso. L’occasione è speciale. Al Teatro Quirino si presenta Chiara Lubich – La dottrina spirituale, appena edito da Mondadori. È la “summa teologica” della donna che ha fondato un movimento di 2 milioni e 200 mila persone. Cattolici e non solo. Cristiani e non solo, tenuto conto dei 30 mila ebrei, musulmani, buddisti, induisti, taoisti. E perfino agnostici dichiarati, che lei chiama «persone di buona volontà di convinzioni diverse». Scritti di tutto il suo cammino spirituale in un’organica rappresentazione della sua dottrina spirituale.
A stimolarla al racconto c’è un’intervistatore di professione qual è Sergio Zavoli.
ei fruga nei suoi tanti ricordi di ottantenne lucidissima. E parte dagli inizi: «Il Signore chiama persone deboli perché trionfi la sua potenza. Ma li prepara. Ero piccolina quando le suore mi portavano all’adorazione eucaristica. A quell’ostia chiedevo: dammi la tua luce. A 18 anni avevo una fame tremenda di conoscere Dio. Volevo andare all’Università Cattolica. Non potei. Poi, provvidenzialmente, sentii una voce: sarò io il tuo maestro». «Ha avuto il suo rettore…», chiosa ironico Zavoli. E gli chiede: «Ma perché non s’è fatta suora?». «Non ne avevo la vocazione – risponde disarmante – e perché c’era bisogno di un’altra strada». Una strada che si chiama unità: nella fede, tra gli uomini. Arduo parlarne in tempi di guerra.
«Quello che stiamo patendo è il Signore che ci frusta un pochino – dice la Lubich – noi cristiani siamo oltre un miliardo, ma siamo considerati atei e infedeli. Presentiamo i nostri riti, non il nostro distintivo di cristiano. Da questo riconosceranno che siamo cristiani, dall’amore. Con le nostre chiese dobbiamo darci sotto con l’ecumenismo, tra noi cattolici dobbiamo mettere la fraternità». Non mancano gli aneddoti. «Il patriarca Atenagora mi confidò il suo grande desiderio di celebrare tutti attorno all’unico calice».
Ma le divisioni teologiche? «Mi disse: prendiamo tutti questi teologi, e mettiamoli su un’isoletta. Senza mangiare, finché non avranno risolto tutto». Zavoli la provoca: «Non corre il rischio del sincretismo?». «No mai. Gli altri ci stimano per la fedeltà alla nostra Chiesa». E l’Islam? Con loro non c’è reciprocità: «Non bisogna aspettarla – confida – arriverà spontanea. Noi abbiamo le nostre chiese fatte da persone vive». Tutto così facile? «Sant’Agostino – ricorda Zavoli – diceva di guardarsi dalla disperazione come dalla speranza senza fondamento: «C’è il cristianesimo – chiude Chiara Lubich -. Più fondamento di questo!».
Nov 29, 2001 | Spiritualità
Non è un libro qualsiasi, La dottrina spirituale di Chiara Lubich.
Non appena si comincia a leggerlo, si ha la sensazione di entrare in una dimensione diversa, molto diversa, da quella a cui la realtà di ogni giorno troppo spesso ci abitua. Andando avanti con le pagine, si scende in profondità, ci si trova a fare i conti, inevitabilmente, con il senso più vero di parole e pensieri che lasciano il segno.
E anche con se stessi, e in particolare con il rapporto che ognuno di noi è capace di avere con gli altri: con chi ogni giorno condivide la nostra vita, ma anche con le persone di un’altra condizione sociale, di un’altra cultura, di una diversa etnia o fede religiosa.
C’è una parola, un valore fondamentale, che rappresenta la chiave di volta non solo del libro, ma credo di poter dire anche della vita di Chiara Lubich e del Movimento dei Focolari, da lei fondato – lo scrive – «con gran semplicità», e ormai presente in tutto il mondo. Questa parola è «dialogo».
Dialogo nella Chiesa, tra le Chiese, nei fedeli di altre religioni, tra i laici di «buona volontà»: quattro pilastri che reggono un edificio abitato e animato da più di due milioni di persone, quattro principi che segnano un crocevia per tutti coloro che ritengono valida la frase di Ghandi, citata dalla Lubich: «io e te siamo una cosa sola. Come posso ferirti senza far male a me stesso?».
È difficile non cogliere l’intima verità di questo messaggio. È difficile soprattutto oggi, nel momento in cui avvertiamo tutto il dolore della ferita più profonda che la storia degli ultimi cinquant’anni ci abbia mai inferto. Una ferita figlia di un odio maturato sotto la distorsione in fanatismo di una religione che come tutte le altre predica la pace e, appunto, il dialogo.
Una ferita che ha segnato l’umanità intera, perché la ragione Andrea Riccardi: quelle torri gemelle, ripiegate su stesse l’11 settembre, rappresentano una sorta di contemporanea «arca di Noè», abitate com’erano da donne e da uomini di ogni colore, di ogni credo religioso, di origini diverse, con radici che affondavano in così tanti paesi del mondo eppure con speranze e con sogni che non dovevano poi essere così dissimili tra loro.
Una ferita profonda, una lacerazione intensa e così grande che la politica e la comunità internazionale si sono dovute porre il problema del modo in cui impedire il ripetersi di una simile tragedia. Ma le istituzioni degli uomini devono sapersi porre anche un altro problema: quello del limite connaturato alle proprie azioni, dell’impossibilità di assicurare il futuro delle generazioni che verranno se non si riuscirà a far crescere una profonda cultura del dialogo, della conoscenza e del rispetto di ciò che è altro da sé.
Sono vere e colpiscono, in questo senso, alcune parole della Lubich, in particolare quando si sofferma sulla indispensabile capacità, che ogni individuo e ogni popolo dovrebbero ricercare, di «oltrepassare il proprio confine e guardare al di là», offrendo un contributo a «quanti lavorano in quest’immenso cantiere che è oggi il nostro pianeta».
Oltrepassare i confini del proprio modo di essere e di vedere le cose, creare ponti per costruire un dialogo: è questa la sfida. una sfida difficile, ma è l’unica stretta via per evitare che vinca chi vuole uno scontro di civiltà. Non possiamo permettere che un modo di pensare sia destinato a prevalere sugli altri, che si affermi una civiltà o una religione su un’altra. «Dialogando a 360 gradi», come dice ancora Chiara Lubich, potremo non fermarci di fronte allo «spacco della divisione»,ma potremo «trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile».
Anche perché, come lei stessa insegna, il dialogo e l’amore formano un flusso potente, ricco e a doppio segno: è un dare e ricevere continuo, senza interruzioni. È qualcosa che rafforza, che arricchisce e che costruisce rapporti di solidarietà tra gli uomini.
Quella stessa solidarietà per la quale ero partito per gli Stati Uniti, qualche giorno fa, e che ho portato al Sindaco e al Comandante dei Vigili del Fuoco di New York. Quella stessa, comune, solidarietà che poche ore dopo ho ricevuto da loro quando ad essere bisognoso sono stato io, è stata la città che rappresentavo, Roma, colpita da quella tragedia, da quella esplosione, dalla morte di chi stava facendo il suo dovere e di chi viveva e lavorava lì, a via Ventotene.
Davvero dialogo e solidarietà rappresentano un dare e ricevere, un flusso ininterrotto e biunivoco. E proprio dialogo e solidarietà hanno bisogno di essere costruiti, pazientemente, tenacemente, ogni giorno. Nei rapporti tra i popoli, ma anche nel sistema di relazioni che anima le nostre comunità, le nostre città. È compito di tutti: delle istituzioni, di chi governa e amministra, delle associazioni e dei movimenti che rendono ricco il tessuto di una società, di ogni uomo di buona volontà.
In un discorso riportato nel libro e tenuto a Castel Gandolfo, un anno e mezzo fa circa, Chiara Lubich fa cenno a un certo punto alla «tremenda responsabilità che hanno di fronte a Dio e agli uomini quelli che governano» e che il potere politico deve porsi «al servizio» dei cittadini.
Devo dire che come sindaco di Roma sento tutta la responsabilità di questo, e in particolare della parte che spetta alle istituzioni, del ruolo che il Comune può e deve avere, per contribuire a far funzionare al meglio quella rete di solidarietà cittadina senza la quale non avremmo speranza di «ricucire» una società che sia inclusiva e solidale, di costruire una città più umana, in cui ogni persona abbia garantita una vita degna di essere vissuta, in cui nessuno debba correre più il rischio di restare solo. Ma è proprio questo che conta di più, perché le condizioni di benessere di un città, di una qualsiasi realtà locale, non possono essere valutate e misurate unicamente in base alla generica capacità di produrre ricchezza, ma anche e soprattutto in base al livello di inclusione sociale e all’insieme di opportunità che le istituzioni e la comunità nel suo complesso sono in grado di garantire ai cittadini, a tutti i cittadini.
È vero, allora, che se il dialogo ha sempre più bisogno di «missionari», la solidarietà ha sempre più bisogno di «costruttori», di persone della fede e della profondità interiore di Chiara Lubich e di tutti coloro che, con il loro impegno quotidiano, siano amministratori o giovani che fanno parte di un movimento o di un’associazione di volontariato, spendono una parte di sé per la vita degli altri, per il futuro di tutti noi.
Nov 26, 2001 | Spiritualità
È il 27 novembre, e la comunità universitaria, alla conclusione della mattinata di lezioni, si raduna per aprire l’Avvento con Chiara Lubich, che si rivolge alle autorità accademiche, a professori e studenti, introdotta da una efficace presentazione del rettore, prof. Franco Imoda, che l’aveva invitata.
Partendo da alcuni episodi chiave della propria vita, la fondatrice del Movimento dei Focolari ha messo in luce i due cardini principali della sua spiritualità: l’unità e Gesù abbandonato.
E poi gli esempi: così la spiritualità dell’unità permette di rinnovare la vita quotidiana e di intraprendere e sviluppare i grandi dialoghi ai quali la chiesa è oggi chiamata.
Per ognuno di essi la Lubich ha fornito testimonianze e indicato linee dottrinali, profondamente inserite nella tradizione della Chiesa e, allo stesso tempo, portatrici di nuove e illuminanti prospettive.
Un percorso, quello tratteggiato dalla Lubich, culminante col riconoscimento che la spiritualità di comunione portata dal carisma dell’unità non è più, ormai, soltanto del Movimento dei Focolari, ma, come ha recentemente scritto Giovanni Paolo II, è spiritualità della Chiesa.
L’applauso caloroso e interminabile, lo stringersi dei giovani intorno a Chiara, i capannelli di studenti che si attardavano a commentare vivacemente, sembravano non voler concludere un incontro indimenticabile.
Nov 22, 2001 | Ecumenismo
Sullo sfondo dell’attuale situazione mondiale, un avvenimento ecumenico inedito, attorno al fonte battesimale del Grossmünster, l’antica chiesa nel centro di Zurigo, dove Huldrych Zwingli iniziò la Riforma in Svizzera: il 17 novembre, il pastore Ruedi Reich, presidente del Consiglio della Chiesa evangelico-riformata del cantone di Zurigo, ha accolto Chiara Lubich, invitata a prendere la parola sulla spiritualità dell'unità.
Altri ospiti d'eccezione: 24 vescovi di 9 Chiese, tra cui il vescovo Makarios, delegato del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e il card. Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga. Nel segno della riconciliazione, hanno pregato per l’unità dei cristiani.
Una celebrazione alla quale sono intervenute oltre 1.300 persone da tutta la Svizzera. Due giorni dopo, nel Centro “Unità” a Baar, l’incontro con altre 32 personalità ecumeniche, provenienti da varie Chiese e Comunità ecclesiali.
Nov 22, 2001 | Ecumenismo
A cinque secoli dalla rottura con la Chiesa di Roma, il Grossmünster, l’antica chiesa che domina la città di Zurigo dove Huldrych Zwingli iniziò la sua Riforma, il 17 novembre scorso ha accolto ospiti d’eccezione.
Assieme al pastore Ruedi Reich ed a Chiara Lubich, vi sono convenuti il cardinale Miloslav Vlk di Praga, il Vescovo ausiliare cattolico per Zurigo Peter Henrici e altri 22 vescovi di 9 Chiese di vari Paesi del mondo: ortodossi, siro-ortodossi, anglicani, evangelico-luterani, cattolico-romani.
Con oltre 1300 persone da tutta la Svizzera, riformati e cattolici, membri di Movimenti di diverse Chiese, religiosi e religiose, ma anche persone distanti dalla vita di fede, nel segno della riconciliazione e della fratellanza, hanno invocato da Dio il dono della piena unità visibile della Chiesa.
“Non immaginavo certo che un avvenimento di questa portata potesse aver luogo qui, al Grossmünster”, ha commentato il vescovo ausiliare per Zurigo Henrici. “Ero scossa e sfiduciata dopo i tragici eventi dei mesi scorsi, – commenta una donna – ma ora ho ritrovato la speranza”. Mentre una ragazza afferma: “Ho difficoltà con tutto ciò che riguarda la Chiesa. Ma qui ho avvertito qualcosa di carismatico che irradiava al di sopra di tutto”. E qualcun altro ancora: “Oggi ho sentito una chiamata speciale a vivere la solidarietà e la fraternità”.
“Da oltre 1000 anni il Grossmünster è un luogo di annuncio del Vangelo”. Con queste parole il pastore Ruedi Reich, presidente del consiglio della Chiesa evangelico-riformata nel cantone di Zurigo, in apertura della grande celebrazione ecumenica aveva sottolineato non la rottura ma ciò che unisce. Ed aveva ricordato l’antica tradizione di questa chiesa edificata da Carlo Magno sulle tombe dei martiri Felix e Regula della Legione tebana. Fu qui e nel vicino Fraumünster che Huldrych Zwingli, assieme ai suoi collaboratori, tradusse la Bibbia in tedesco.
Dopo una preghiera d’apertura formulata dal parroco del posto, Hans Stickelberger, e la lettura della Preghiera di Gesù per l’unità (Gv 17), Chiara Lubich era stata invitata a prendere la parola. In seguito agli eventi dell’11 settembre scorso – afferma – la riconciliazione fra i cristiani non è più soltanto un desiderio ma un’assoluta necessità. E ribadisce: “Non è tutto solo colpa del terrorismo, se stiamo vivendo un momento di tanta emergenza”. E non è neppure da attribuire semplicemente al fatto pur grave “che nazioni più ricche non hanno aiutato altre nazioni in grande ed estrema povertà”. C’è anche, secondo la Fondatrice dei Focolari, una seria responsabilità dei cristiani che spinge ad agire con urgenza: “Se oggi alcuni arrivano, tragicamente, a qualificare noi cristiani addirittura come ‘atei’ e ‘infedeli’, una ragione c’è…”.
Bisogna riconoscere, infatti, che, pur essendo oltre un miliardo nel mondo, siamo ancora divisi. Mentre solo nell’amore reciproco, nell’unità, secondo le parole di Gesù, c’è il distintivo vero dei cristiani. “Lavoriamo. Non diamoci pace”, esorta quindi la Lubich: “Quando ci sarà fra noi la piena comunione visibile, un fremito di nuova vita invaderà la terra per il bene dell’umanità”. Parole che hanno avuto un forte impatto sui presenti e sono state accolte con un lungo applauso.
Mentre la cerimonia prosegue, fra preghiere e canti eseguiti da una nutrita corale giovanile, l’assemblea si fa sempre più compatta. E non manca una certa commozione nel momento in cui cinque vescovi di diverse Chiese e il Pastore Reich formulano davanti a tutti le loro intenzioni di preghiera; quando tutti insieme recitano il Padre nostro; quando i vescovi presenti si dirigono fino ai posti più remoti della chiesa per dare un segno di pace e unità ai fedeli e quando Chiara Lubich con una preghiera appassionata chiede a Dio di suggellare la volontà della ricerca dell’unità dei cristiani “in modo tale, da essere e apparire a tutti una sola comunità cristiana, preludio e testimonianza della piena comunione visibile della Chiesa”.
“Lasciamoci incoraggiare dalla gioia della cerimonia che abbiamo vissuto stasera”. Così il pastore Reich al ricevimento coi vescovi subito dopo la cerimonia, e aggiunge: “L’ecumenismo non deve essere l’eccezione ma la regola, la normalità. È importante che sottolineiamo quello che già ci lega, rispettando ciò che ancora ci distingue”.
Nov 22, 2001 | Ecumenismo
L’avvenimento ecumenico al Grossmünster era stato preparato da una settimana di convivenza fraterna tra i 24 vescovi di varie Chiese e Comunità ecclesiali, esperienza che si ripete da 20 anni. Quest’anno si era svolta al Centro “Unità” dei Focolari, a Baar nel cantone di Zugo in Svizzera, dal 13 al 19 novembre. Provenivano da 12 nazioni, dal Brasile alla Svezia, dall’Inghilterra all’India. Si trattava di “fare un’esperienza di quella spiritualità di comunione che secondo Giovanni Paolo II deve caratterizzare tutto il nostro agire e, a maggior ragione, il nostro agire ecumenico”, spiega il moderatore del Convegno, il Card. Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga. E il frutto è stato visibile.
“Nella preghiera in comune e nel dialogo fraterno, durante le meditazioni bibliche e le conversazioni di spiritualità ecumenica, abbiamo potuto sperimentare quasi un presagio della piena comunione visibile fra le Chiese”, affermano i vescovi nei Messaggi che hanno inviato ai Capi delle rispettive Chiese a conclusione della loro riunione. Messaggi nei quali hanno espresso senza mezzi termini la loro risoluzione di testimoniare, in seno alle Chiese e tra i fedeli a loro affidati, “quella fratellanza che ci unisce sin d’ora, e di adoperarci in ogni modo, affinché si affretti il giorno nel quale i cristiani potranno accostarsi insieme alla Mensa del Signore e testimoniare in pienezza Cristo all’umanità, attraverso la nostra visibile unità”.
Mentre nelle edizioni precedenti del Convegno ci si era soffermati di più a sottolineare gli aspetti di convergenza, questa volta si sono toccati anche alcuni punti di divergenza. Continua a spiegare il Card. Miloslav Vlk: “La profonda unità in Cristo che abbiamo cercato di realizzare, permetteva di dialogare su argomenti delicati come l’eucaristia o il ministero petrino in un clima di amicizia e nel vicendevole ascolto”.
Tornando nei loro Paesi, i vescovi vogliono approfondire questi temi e, nel Convegno dell’anno prossimo, si spera di raccogliere le conclusioni. Una prospettiva che ricorda la convinzione, espressa da Giovanni Paolo II nel recente Messaggio alla Plenaria del Pontificio Consiglio per l’unità dei Cristiani, che “nello scambio di doni a cui il movimento ecumenico ci ha abituati, nella ricerca teologica rigorosa e serena, nella costante implorazione della luce dello Spirito, potremo affrontare anche le questioni più difficili ed apparentemente insormontabili nei tanti nostri dialoghi ecumenici come, ad esempio, quella del ministero del vescovo di Roma”.
Nel desiderio di “conoscere di più la tradizione dell’altro per potersi amare di più”, i partecipanti hanno visitato anche diverse comunità cristiane del posto: dall’Abbazia benedettina di Einsiedeln, al Monastero siro-ortodosso di Sant’Augin ad Arth e a Zurigo “sulle orme di Huldrych Zwingli”. Occasioni per dare insieme una testimonianza di quella ritrovata fraternità che è forse il risultato più importante del cammino ecumenico fin qui compiuto. ??
Nov 22, 2001 | Ecumenismo
Il ricco frutto del XX Convegno Ecumenico di Vescovi è confluito nell’ultima giornata, 19 novembre 2001, per la quale altre 32 personalità del mondo ecumenico sono venute a Baar, al Centro “Unità” dei Focolari. Fra queste, rappresentanti delle Chiese riformate svizzere, delle Chiese libere, del Consiglio mondiale delle Chiese a Ginevra, della Federazione luterana mondiale, del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e di altri Patriarcati ortodossi, della Chiesa Armeno-apostolica in Francia, il Nunzio Apostolico di Berna e vescovi cattolici.
A loro Chiara Lubich, in un efficace intervento, ha fatto dono dell’esperienza e della fecondità che si sprigiona dal mistero di “Gesù crocifisso e abbandonato: luce sul cammino verso la piena comunione fra le Chiese”.
Sono seguite testimonianze di vescovi, sacerdoti, pastori e laici che approfondivano la spiritualità di comunione vissuta nel Movimento dei Focolari nell’ambito della pastorale, della teologia e nell’azione per il rinnovamento della società.
“E’ questa una spiritualità che ci incoraggia, che apre nuove porte, che ci fa vedere nuove strade nel linguaggio della fede”, ha commentato il dott. Martin Robra, rappresentante del Consiglio Ecumenico delle Chiese. E il direttore dell’Istituto ecumenico di Bossey, il sacerdote ortodosso Ioan Sauca: “Se non scopriamo una spiritualità di comunione, l’ecumenismo rischia di fermarsi a dichiarazioni vuote. Chiara Lubich ci indica la via per vivere la nostra identità in un contesto di pluralità”.
Nov 13, 2001 | Non categorizzato
L’unità dell’Europa nella pluralità dei popoli, delle culture e delle religioni è stata al centro del Congresso "1000 Città per l’Europa", che si è tenuto il 9 e 10 novembre ad Innsbruck per iniziativa del sindaco Herwig Van Staa, Presidente della Camera dei Comuni all’Unione europea, e in collaborazione col Movimento dell’Unità, espressione politico-culturale del Movimento dei Focolari.
1200 i partecipanti da tutta Europa, tra cui circa 700 sindaci di varie provenienze geografiche ed appartenenze politiche, rappresentanti della vita pubblica, esponenti di varie religioni, e non per ultimi oltre 300 giovani.
Al termine del congresso è stato lanciato – in forma di Manifesto – un messaggio a tutto il mondo: l’Europa vuole dimostrare la volontà di realizzare la pace, e di assumere la fraternità come categoria politica, poggiata su un vasto consenso e apporto della base; vuole cioè formare una Europa dei cittadini che possa essere di esempio al mondo.
Nel complesso, il Congresso è stato – con discorsi, discussioni, gruppi di lavoro, elaborazione del manifesto, presentazioni culturali ma soprattutto con il dialogo tra i partecipanti – un avvenimento rilevante, che fa germogliare la speranza per una convivenza pacifica in un’Europa unita.
Nov 13, 2001 | Non categorizzato

Signor Sindaco di Innsbruck, dott. van Staa,
Signor Presidente della Commissione europea,
Prof. Romano Prodi,
Signor Presidente della Repubblica, dott. Klestil,
Signori Sindaci e Amministratori,
Signori Parlamentari,
Signore e Signori;
è un grande onore per me rivolgere la parola a una così qualificata assemblea che, attraverso le loro persone, rappresenta, in questa sala, diversi popoli e molte città.
Ringrazio perciò di cuore dell’invito, e cercherò di esserne il meno indegna possibile.
Il titolo della conversazione che devo ora svolgere recita così: "Lo spirito di fratellanza nella politica come chiave dell’unità dell’Europa e del mondo".
Lo spirito di fratellanza!
Quando mi è stato suggerito questo tema, l’estate scorsa, non avrei mai immaginato quali terribili avvenimenti sarebbero successi prima che lo potessi loro proporre.
Soprattutto quale straordinaria conferma essi avrebbero portato, nella loro tragicità, alla necessità nel mondo della fratellanza, e in particolare della fratellanza in politica.
Era l’11 settembre: le torri gemelle di New York crollavano. Veniva distrutto così il simbolo della più potente nazione del mondo, con una grande strage di vite umane.
Sgomento generale, infinito negli USA e non solo.
Ma ecco da quel groviglio di dolore, da quella notte piombata in piena luce, emergere un fenomeno inconsueto: una gara di solidarietà mai vista. New York si trasforma: muri di indifferenza si sciolgono in una valanga di aiuti concreti, di conforto, di prontezza a far qualcosa che allevi i dolori degli altri.
Gli Stati Uniti, Paese multi-religioso, multi-etnico, multi-culturale, sta per presentare al mondo, in una sua città, un modello di solidarietà, di unità.
E’ come se gli occhi di un popolo si spalancassero e vedessero, in pochi momenti, la necessità assoluta che si instauri dovunque la fraternità universale.
La fraternità universale, anche prescindendo dal cristianesimo, non è stata completamente assente dalla mente di qualche raro spirito forte. Il Mahatma Gandhi diceva: "La regola d’oro è di essere amici del mondo e considerare ’una’ tutta la famiglia umana. Chi distingue tra i fedeli della propria religione e quelli di un’altra, diseduca i membri della propria e apre la via al rifiuto e all’irreligione" .
Ed è presente tuttora in qualche grande anima come il Dalai Lama che, a proposito di quanto è successo, scrive ai suoi:
"Per noi le ragioni (degli eventi di questi giorni) sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra, e il modo di ricordarlo è semplice: amare in questo momento e sempre".
Ma chi ha portato la fraternità come dono essenziale all’umanità, è stato proprio Gesù, che ha pregato così prima di morire: "Padre, che tutti siano uno" – cf Gv 17,21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, introduce l’idea dell’umanità come famiglia, l’idea della "famiglia umana" possibile per la fraternità universale in atto. E con ciò abbatte le mura che separano gli "uguali" dai "diversi"; gli amici dai nemici; che isolano una città dall’altra. E scioglie ciascun uomo dai vincoli che lo imprigionano, dalle mille forme di subordinazione e di schiavitù, da ogni rapporto ingiusto, compiendo in tal modo un’autentica rivoluzione esistenziale, culturale e politica.
L’idea della fraternità iniziò così a farsi strada nella storia. E si potrebbe ripercorrere l’evoluzione del pensiero delle diverse epoche, rintracciandone la presenza, alla base di molte fondamentali concezioni politiche, a volte palese, altre volte più nascosta. Una fraternità spesso vissuta, anche se in maniera limitata, ogniqualvolta, ad esempio, un popolo si è unito per conquistare la propria libertà, o quando gruppi sociali hanno lottato per difendere un soggetto debole, o in ogni occasione in cui persone di convinzioni diverse hanno superato ogni diffidenza per affermare un diritto umano.
Quanto poi sia centrale, per la politica, la scoperta della fraternità, lo dice anche quell’importante evento storico, che costituisce uno spartiacque tra due epoche: la Rivoluzione francese. Nel suo motto: "Libertà, uguaglianza, fraternità", essa sintetizza il grande progetto politico della modernità, anche se essa stessa ha inteso i tre principi in un modo molto riduttivo.
Inoltre, se poi numerosi Paesi, arrivando a costruire regimi democratici, sono riusciti a dare una certa realizzazione alla libertà e all’uguaglianza, la fraternità, in particolare, è stata più annunciata che vissuta.
Ma la Rivoluzione francese, nonostante le sue contraddizioni, aveva intuito quel che le esperienze successive hanno dimostrato: i tre principi stanno o cadono insieme; solo il fratello può riconoscere piena libertà e uguaglianza al fratello.
Non si può più, dunque, guardare alla fraternità come a qualcosa di ingenuo, o di superfluo, o che si aggiunga alla politica dall’esterno.
I fondamenti dell’Europa
Per realizzare il grande progetto dell’unità europea, il vivere la fraternità è necessario, anche se difficile.
Dobbiamo però ricordare che questo progetto non nasce oggi. Esso parte da lontano.
Prendiamo, ad esempio, un manipolo di santi, scelti come patroni dell’Europa. Patroni perché fondatori di essa, i quali, in momenti cruciali della storia, seppero intervenire piantando i pilastri e tracciando le fisionomie di quella che oggi noi chiamiamo Europa.
Tra il V e il VI secolo, in uno dei periodi più critici per il continente, Benedetto da Norcia propose ai suoi contemporanei un nuovo modello di uomo che, se da una parte, è completamente immerso in Dio, dall’altra forgia gli attrezzi e lavora la terra. La fraternità monastica, a partire da Benedetto, crea una rete di centri spirituali, economici e culturali attorno ai quali rinasce l’Europa. Rinascita spirituale e insieme sociale.
Si aggiunge in questo movimento, ampliandolo verso l’Est, l’azione dei fratelli Cirillo e Metodio, che nel secolo IX impressero un’impronta indelebile nei popoli slavi, ideando una scrittura che ne esprimesse la lingua. Inserirono così più profondamente questi popoli nella comunione ecclesiale e salvarono, al contempo, la loro identità culturale. Applicarono, in questo modo, nei fatti, il modello cristiano di unità nella distinzione che appartiene al DNA dell’Europa e che continua ad essere il punto di riferimento nel cammino da compiere.
E in un momento in cui l’Europa – rotti i precedenti assetti feudali, ma ancora priva di un nuovo equilibrio – sembrava avere smarrito il senso della propria unità spirituale, Brigida di Svezia e Caterina da Siena si rivolgevano ai potenti del loro tempo, con una autorità d’amore che ricordava il loro vero fine di servire la giustizia.
E ancora, con Edith Stein, quasi una nostra contemporanea, la santità si è calata nel profondo dell’orrore che sconvolgeva l’Europa, unificando, nel suo sacrificio personale, una duplice fedeltà: al suo popolo e alla sua fede. Morì come monaca cristiana; ma morì perché ebrea. E pose così la pietra angolare di una casa europea nella quale tutte le religioni possono concorrere a costruire la fratellanza.
C’è santità alle radici dell’Europa: e non solo di quella che la storia ci consegna, ma anche dell’Europa che noi oggi stiamo costruendo, come ci è testimoniato da alcune delle figure dei padri dell’Europa unita: Robert Schuman e Alcide De Gasperi. Per essi è stato avviato il processo di canonizzazione che testimonia la loro santità, nel corso del quale si sta accertando, in particolare, come essi abbiano vissuto in maniera eroica non solo le virtù religiose, ma quelle civili che la loro professione politica richiedeva.
E se ritorniamo alla loro ispirazione originaria, al loro modo di intendere l’unità europea, possiamo trovare una luce per meglio concentrarci sull’obiettivo.
Il primo passo fu la creazione della "Comunità europea del carbone e dell’acciaio" (CECA). Ma la fusione delle produzioni di carbone e di acciaio non fu motivata dall’obiettivo di realizzare un "affare economico". Fu definita invece una "solidarietà di produzione" che rendesse impossibile ogni forma di guerra tra Francia, Germania e gli altri Paesi che vi avrebbero aderito. Lo scopo era, dunque, la pace, salvaguardare la fraternità, e l’economia il mezzo. Come dichiarava Konrad Adenauer davanti al Bundestag nel giugno 1950: "L’importanza del progetto è soprattutto politica e non economica".
E questo primo obiettivo, riguardante un settore industriale di primario interesse, era considerato solo una tappa verso l’effettiva unificazione economica dell’Europa, anch’essa a sua volta intesa – sottolineava Robert Schuman echeggiando anche le idee di Jean Monnet – come "il fermento di una comunità più profonda tra Paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni" .
E che neppure l’Europa fosse il fine ultimo di questo sforzo di comunione, è esplicitamente dichiarato nel primo atto ufficiale di tutto il progetto, la "Dichiarazione Schuman": "L’Europa, con maggiore copia di mezzi, potrà continuare la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano" .
Nella visione dei fondatori, l’Europa dunque è una famiglia di popoli fratelli, non però chiusa in se stessa, ma aperta ad una missione universale: l’Europa vuole la propria unità per contribuire, poi, all’unità della famiglia umana.
L’Europa unita, dunque, per arrivare ad un mondo unito.
Un mondo unito?
Sogno si può pensare, specie in quest’ora. Utopia. Non del tutto, però, se un Papa, l’attuale, così si è espresso con i nostri giovani pochi anni fa: "Davvero questa sembra la prospettiva che emerge dai molteplici segni del nostro tempo: la prospettiva di un mondo unito. E’ la grande attesa degli uomini di oggi (…) e, nello stesso tempo, la grande sfida del futuro. Ci accorgiamo che verso l’unità si sta procedendo sotto la spinta di un’eccezionale accelerazione"
Accelerazione data anche, forse, da circostanze che sembrano e ne sono la negazione. Ma che tutto possa cooperare al bene per chi crede, non è, paradossalmente in questo momento, pensiero di pochi.
E la Chiesa lo afferma da tempo, parlando di un nuovo ordine mondiale, di un nuovo ordine economico, di globalizzare la solidarietà. Questi campanelli di allarme attuali ci fanno capire che questi ideali non sono soltanto opzioni facoltative, ma qualcosa che riguarda il cammino dell’uomo sulla terra.
Strumenti d’unità
Ma come intanto proseguire l’opera di coloro che attraverso i secoli hanno costruito l’Europa?
Per suscitare la fraternità in Europa, per darle un’anima che generi un’unità spirituale, garanzia dell’unità politica, economica, ecc., non mancano gli strumenti. Basta saperli individuare.
Uno, la cui efficacia non è ancora del tutto scoperta, è quello dell’apparire dopo i primi decenni del ’900, in nazioni soprattutto europee (Spagna, Francia, Germania, Italia, e non solo nella Chiesa cattolica) di decine e decine di nuovi Movimenti e Comunità ecclesiali che, perché fondati o prevalentemente composti da laici, non mancano d’un sentito, profondo interesse per il vivere umano e di una ricaduta nel campo civile, offrendo concrete realizzazioni politiche, economiche, ecc.
Sono realtà queste venute in piena luce appena tre anni fa, quando la Chiesa si è riscoperta e ripresentata al mondo costituita, oltre che dall’aspetto istituzionale, anche da quello carismatico, coessenziale al primo. Aspetto che ha arricchito i secoli di Movimenti spirituali (come quello francescano) e delle più varie correnti di pensiero e di spiritualità, atte a riportare la cristianità, spesso illanguidita e secolarizzata dal contatto col mondo, all’autenticità ed alla radicalità del Vangelo.
Autenticità e radicalità soprattutto di quello straordinario amore evangelico, materia prima per la fraternità, che va rivolto a tutti, quindi anche al nemico, che sa prendere sempre coraggiosamente l’iniziativa, che non è mero sentimentalismo ma concreto agire, che tratta tutti da uguali; che, vissuto da più, diventa reciproco e genera appunto fraternità, unità.
Questi Movimenti, seguendo ognuno il proprio carisma, concretizzano l’amore in tante forme, ma soprattutto, parecchi di questi, manifestano la forza dello Spirito, sempre attento alle necessità del momento, con la capacità che hanno d’aprire a tutti gli uomini e donne del nostro pianeta un dialogo profondo.
E quattro sono oggi i dialoghi veramente necessari anche per la fraternità in Europa: il dialogo all’interno di ogni Chiesa cristiana, che è già iniziato anche per opera dei nuovi Movimenti ecclesiali; il dialogo ecumenico che aiuta il ricomporsi dell’unità nell’unica Chiesa; il dialogo con le persone delle altre religioni: musulmani, ebrei, buddisti, ecc., oggi presenti anche in Europa per le ondate immigratorie e gli interscambi legati alla globalizzazione. Dialogo attuabile per la cosiddetta "regola d’oro", comune a tutte le principali religioni della terra, che dice: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te" (cf Lc 6,31). Regola d’oro che in fondo vuol dire: ama. E se noi, perché cristiani, amiamo, ed essi pure amano, ecco l’amore reciproco, da cui fiorisce la fraternità anche con loro.
Dialogo infine con i nostri fratelli – e sono forse i più – che non professano una fede religiosa, ma hanno iscritta pure essi nel DNA della loro anima, la spinta ad amare.
Oggi, poi, la chiamata ad operare alla fraternità è partita dalla voce autorevole di Giovanni Paolo II il quale, il 6 gennaio scorso, ha proposto a tutti i cristiani, nella Lettera Novo millennio ineunte, la cosiddetta "spiritualità di comunione" che la rende possibile.
Spiritualità che, già presente nella Chiesa da 60 anni circa in uno dei Movimenti, quello dei Focolari, ma limitata ad esso, ora, assunta dal Santo Padre, poteva e doveva animare la Chiesa intera ed oltre.
Il suo segreto sta nel fissare lo sguardo ed imitare Colui che è stato l’artefice della fraternità e della ricomposizione dell’unità di tutti gli uomini, in Dio e fra loro, il Crocifisso, che grida: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46).
Noi tutti, uomini, eravamo staccati dal Padre e divisi fra noi. Era necessario che il Figlio, nel quale tutti siamo rappresentati, provasse il distacco dal Padre col quale era una cosa sola (Gv 10,30).
Ma Egli non si è fermato nel baratro di quel dolore infinito. Con un immane sforzo, s’è riabbandonato al Padre, dicendo: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Lc 23,46), ed ha così ricomposto l’unità con Dio e fra noi.
E’ il mistero di Gesù abbandonato-risorto, che dà la possibilità a tutti noi, imitandolo, di superare ogni divisione e di intraprendere il dialogo con tutti.
Prospettive politiche della fraternità
Se nei nuovi Movimenti, in genere, c’è l’interesse delle cose umane, nel Movimento dei Focolari la "spiritualità d’unità o di comunione" ha dato origine, fra il resto, anche ad una espressione politica: il Movimento dell’Unità, il cui scopo specifico è appunto la fraternità in politica.
Esso, sorto a Napoli, nel 1996, raccoglie l’esperienza di quei politici italiani che, fin dagli anni ’50, hanno cercato di vivere quest’ideale dell’unità. Ed ora si può costatare come, da ciò che ha posto in pratica ai diversi livelli dell’impegno politico, dall’amministrazione delle città fino all’attività parlamentare, è possibile ricavare alcune indicazioni concrete, che potrebbero essere sviluppate nella più grande dimensione continentale.
Si è capito, anzitutto, che esiste una vera vocazione alla politica. E’ una chiamata personale che emerge dalle circostanze e parla attraverso la coscienza. Chi crede vi avverte, con chiarezza, la voce di Dio che gli assegna un compito. Ma anche chi non crede si sente chiamato ad essa dall’esistenza di un bisogno sociale, da una categoria debole che chiede aiuto, da un diritto umano violato, dal desiderio di compiere il bene per la propria città o per la propria nazione.
E la risposta alla vocazione politica è anzitutto un atto di fraternità: non si scende in campo, infatti, solo per risolvere un problema, ma si agisce per qualcosa di pubblico, che riguarda gli altri, volendo il loro bene come fosse il proprio.
Il vivere così permette al politico di ascoltare fino in fondo i cittadini, di conoscerne i bisogni e le risorse; lo aiuta a comprendere la storia della propria città, a valorizzarne il patrimonio culturale e associativo: in tal modo arriva a cogliere, un po’ alla volta, la sua vera vocazione ed a guardare ad essa con sicurezza per tracciarne il cammino.
Il compito dell’amore politico, infatti, è quello di creare e custodire le condizioni che permettono a tutti gli altri amori di fiorire: l’amore dei giovani che vogliono sposarsi e hanno bisogno di una casa e di un lavoro, l’amore di chi vuole studiare e ha bisogno di scuole e di libri, l’amore di chi si dedica alla propria azienda e ha bisogno di strade e ferrovie, di regole certe… La politica è perciò l’amore degli amori, che raccoglie nell’unità di un disegno comune la ricchezza delle persone e dei gruppi, consentendo a ciascuno di realizzare liberamente la propria vocazione. Ma fa pure in modo che collaborino tra loro, facendo incontrare i bisogni con le risorse, le domande con le risposte, infondendo in tutti la fiducia gli uni negli altri. La politica si può paragonare allo stelo di un fiore, che sostiene e alimenta il rinnovato sbocciare dei petali della comunità.
Noi sappiamo come anche oggi ci sono cittadini per i quali la città è come non esistesse, cittadini per i cui problemi le istituzioni cercano con difficoltà le risposte. C’è anche chi si sente escluso dal tessuto sociale e separato dal corpo politico, a causa della mancanza di lavoro, o di casa, o della possibilità di curarsi adeguatamente. Sono questi, e molti altri, i problemi che quotidianamente i cittadini pongono a chi ha il governo della città. E la risposta che ricevono è determinante perché anch’essi si sentano a pieno titolo cittadini e avvertano l’esigenza e abbiano la possibilità di partecipare alla vita sociale e politica.
E perciò, da questo punto di vista il Comune è la più importante delle istituzioni, perché più vicina alle persone, di cui incontra direttamente tutti i tipi di bisogni. Ed è attraverso il rapporto con il Comune, nelle sue varie articolazioni, che il cittadino sviluppa la gratitudine – o il rancore – verso l’insieme delle istituzioni, anche quelle più lontane, quali lo Stato.
Passando ora a considerare la dimensione nazionale della politica, i rapporti tra i grandi orientamenti che nei nostri Paesi si alternano al governo, costatiamo che il vivere la nostra scelta politica come una vocazione d’amore ci porta a comprendere che anche coloro che hanno fatto una scelta politica diversa dalla nostra, possono essere stati spinti da una analoga vocazione d’amore. E che anch’essi sono parte – nel loro modo – dello stesso disegno, pur presentandosi come avversari. La fraternità permette di riconoscere il loro compito, di rispettarlo, di aiutarli – anche attraverso una critica costruttiva – ad esservi fedeli, mentre noi siamo fedeli al nostro.
Si dovrebbe vivere la fraternità così bene da arrivare ad amare il partito degli altri come il proprio, sapendo che entrambi non sono nati per caso, ma come risposta ad una esigenza storica presente all’interno della comunità nazionale: e solo soddisfacendo a tutti gli interessi, solo armonizzandoli in un disegno comune, la politica raggiunge il proprio scopo. La fraternità fa emergere i valori autentici di ciascuno e ricostruisce l’insieme del disegno politico di una nazione.
Lo testimoniano ad esempio, le iniziative di membri del Movimento dell’Unità volte a creare un rapporto fraterno tra maggioranza e opposizione, sia a livello di Parlamento, sia in alcuni Comuni, iniziative che si sono tradotte in leggi dello Stato o in politiche locali che hanno unito le città nelle quali si sono realizzate.
Lo testimoniano anche numerose esperienze di accoglienza degli immigrati, che accorrono nei Paesi più industrializzati non solo per motivi economici, ma anche politici: una città, una nazione, non perdono, ma guadagnano nell’aprirsi all’altro; si alza la loro statura politica nell’offrire una Patria e una cittadinanza a chi l’ha perduta.
E l’amore per la propria Patria fa comprendere quello che gli altri hanno per la loro, nella quale, pure, esiste un disegno d’amore.
Così colui che, rispondendo alla propria vocazione politica, inizia a vivere la fraternità, si immette in una dimensione universale che lo apre all’umanità intera. E tiene conto delle conseguenze universali delle proprie scelte, si chiede se ciò che sta decidendo, pur rispondendo agli interessi della propria nazione, non porti ad un danno per le altre. Ogni gesto politico, in questo modo, non solo quello di un governo nazionale, ma anche il più particolare, compiuto nel più piccolo municipio della più lontana provincia, si carica di un significato universale, perché è pienamente uomo, pienamente responsabile, il politico che lo compie. Il politico dell’unità ama la Patria degli altri come la propria.
Questa è la caratteristica della dimensione politica, dell’essere cittadini: il continuo rapporto con l’altro, il riconoscimento della sua distinzione da me, ma, allo stesso tempo, la convinzione di appartenere, insieme, alla città. Ed è, questa, anche la caratteristica dell’Europa.
Infatti, quando si è iniziato a parlare di Europa, lo si è fatto in relazione alla città.
Attraverso i secoli, continuerà ad approfondirsi la percezione di che cosa è l’Europa e, contemporaneamente, se ne ampliano i confini: dalla piccola Grecia la coscienza europea arriverà a comprendere se stessa dall’Atlantico agli Urali. E questo soprattutto grazie alla penetrazione del cristianesimo, che infonde nei popoli dell’Europa "geografica" i principi religiosi che sviluppandosi in principi civili, sociali e politici, costruiranno l’Europa culturale. E tutto ciò senza soffocare le distinte identità cittadine e le identità nazionali che si sono andate via via formando.
E ad ogni passaggio d’epoca ritroviamo la stessa situazione: ciò che, ad un dato momento, si pensava essere l’Europa, è risultato troppo piccolo, si è trovato alle prese con qualcosa di diverso che lo metteva in scacco, e che sfidava l’Europa a comprenderlo, a prenderlo dentro modificandolo e modificandosi.
E facendo ciò, l’Europa è andata sempre più verso se stessa, verso la piena maturazione del seme cristiano che non si esprime più, certo, nella "cristianità" medievale ma, più profondamente, nella dinamica della fraternità universale, che coinvolge persone e popoli diversi fra loro.
E’ in questa fraternità universale, che crea l’unità salvando le distinzioni, la vocazione dell’Europa. Essa è ancora in cammino. Le guerre, i regimi totalitari, le ingiustizie, hanno lasciato delle ferite aperte da sanare. Ma per essere davvero europei, dobbiamo riuscire a guardare con misericordia al passato, riconoscendo come nostra la storia della mia nazione e di quella dell’altro, riconoscendo che ciò che oggi siamo è frutto di una vicenda comune, di un destino europeo che chiede di essere preso interamente e consapevolmente nelle nostre mani.
L’unità d’Europa chiede oggi, ai politici europei, di interpretare i segni del tempo, e di stringere tra loro quasi un patto di fraternità, che li impegni a considerarsi membri della Patria europea come di quella nazionale, cercando sempre ciò che unisce e trovando insieme le soluzioni ai problemi che ancora si frappongono all’unità di tutta l’Europa.
Per un fine così alto vale senz’altro la pena di impegnare la propria esistenza.
E’ quanto auguro a loro, Signori.
E li ringrazio per avermi ascoltata.
Chiara Lubich
Nov 13, 2001 | Non categorizzato
Eccellenze,
Signore e signori,
È un piacere e un onore per me essere con voi oggi.
Sono grato per questa prima occasione di parlare con i sindaci di tutta Europa del futuro dell’Unione e del vostro ruolo sempre più importante nel progetto europeo.
Oggi vorrei affrontare tre aspetti del futuro dell’Unione che, pur essendo distinti fra loro, sono strettamente legati:
Nov 13, 2001 | Non categorizzato
Noi, sindaci partecipanti alla Conferenza di Innsbruck, provenienti da 28 paesi d’Europa(1), affermiamo il nostro impegno di protagonisti per la costruzione europea nella nuova fase di riflessione sull’avvenire del continente che si apre con il Consiglio europeo di Laeken.
Consci che l’Europa ha stabilmente inserito tra i suoi valori fondamentali la libertà e l’uguaglianza dei popoli e degli stati e che tali valori, che devono comunque continuare ad essere approfonditi nella loro dimensione politica, non bastano da soli ad assicurare il compimento del disegno europeo, siamo fermamente convinti che tale disegno può venire pienamente realizzato solo assumendo la fraternità come categoria politica attraverso la quale sviluppare la costruzione dell’Europa.
Questa nuova dimensione dell’impegno politico per l’Europa può essere realizzata in primo luogo a livello delle città, dove i cittadini vivono rapporti di prossimità e di reciprocità e il loro accesso alle istituzioni è personale, immediato, continuo.
I drammi e i problemi che attraversano il continente hanno nelle città il loro impatto più vivo e quotidiano, ed è lì che chiedono la prima risposta. È nell’ambito del comune che le persone possono iniziare ad assumere la loro dimensione politica; è a partire dalle città, vere e proprie palestre di democrazia, che si possono affrontare le nuove domande di appartenenza, di responsabilità e di solidarietà.
I comuni, elemento di base nella molteplicità dei livelli di governo, diventano in tal modo un esempio per un’Europa più democratica e più aperta alla partecipazione.
Per crescere insieme nella consapevolezza dell’appartenenza europea, noi sindaci ci impegniamo a fondare il nostro lavoro sul dialogo costante con i cittadini, coinvolgendoli nei progetti delle città.
Riteniamo inoltre che il nostro impegno debba essere rivolto a tutti i responsabili dei poteri locali per costruire una rete di relazioni formali ed informali, al fine di condividere idee, problemi, esperienze, progetti, risorse.
Siamo convinti che la costruzione europea attualmente in corso, nel suo significato politico più autentico, rappresenti il tentativo di realizzare l’aspirazione ad un’unità vera, che valorizza le diverse identità. Questa dinamica, in tutte le sue forme politiche, cominciando dalla dimensione comunale, è, pur con le sue alterne vicende, il filo conduttore della storia dell’Europa.
Un’Europa unita nella fraternità non potrà non mettere la propria esperienza e le proprie risorse al servizio della domanda di giustizia, di cooperazione e di pace che sale dalle aree più deboli del mondo.
____________
(1) Austria, Belgio, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Repubblica Federale di Jugoslavia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia (ex Repubblica Jugoslava di Macedonia), Paesi Bassi, Polonia, Romania, Regno Unito, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ucraina, Ungheria.
Nov 10, 2001 | Dialogo Interreligioso, Focolari nel Mondo, Senza categoria
- Thomas Klestil – Presidente della Repubblica Austriaca
- Jos Chabert – Presidente della Camera delle Regioni alla UE
- Chiara Lubich – Fondatrice del Movimento dei Focolari
Trasmissione Internet E’ un avvenimento progettato da tempo. Dopo l’11 settembre rivela una particolare attualità e significato. La tragedia che ha colpito gli Stati Uniti, ha posto la comunità mondiale di fronte alla necessità di una risposta politica di tipo nuovo. Nell’opinione pubblica mondiale cresce la coscienza di appartenere ad un’unica famiglia umana. L’Europa ha un ruolo importante da giocare nella ricerca di vie e strumenti che possano far crescere una nuova cultura di giustizia sociale e cooperazione su percorsi di pace e di fraternità tra i popoli, uniche vie praticabili nell’attuale drammatica situazione mondiale. “Ai comuni – ha dichiarato il sindaco van Staa – viene richiesto coraggio, apertura, senso di responsabilità”. I comuni possono contribuire all’unità europea con un processo dal basso: questa prima assemblea dei poteri locali dell’Europa unita mostrerà quanto le amministrazioni locali siano in grado di agire nel “costruire” i cittadini d’Europa, nel contribuire a comporre e ricomporre diversità delle culture e delle religioni, da sempre ricchezza del vecchio continente, nell’aprire sfide di fraternità intrecciando rapporti stretti e diretti con comunità locali dei paesi poveri degli altri continenti. Il convegno si propone così di “dare un’anima” al processo di integrazione e di allargamento dell’Europa. Oltre alla presenza del Presidente austriaco Thomas Klestil, spiccano i due interventi centrali: quello del Presidente della Commissione europea Romano Prodi su “le grandi opportunità dell’attuale fase storica dell’Europa” e quello di Chiara Lubich su “la fraternità in politica come chiave dell’unità d’Europa e del mondo”. Hanno confermato la loro adesione sindaci da tutta Europa, dall’Atlantico agli Urali, spalancando i confini dell’Europa unita. Significativa, in questa proiezione al futuro, la partecipazione anche di oltre 200 giovani, studenti in scienze politiche o comunque attenti al futuro politico del continente. Sindaci e giovani lavoreranno insieme in quattro gruppi tematici di lavoro, finalizzati alla redazione di un “appello per l’unità europea” rivolto ai governi dei paesi rappresentati, per una autentica “Europa – comunità di popoli”. Il Consiglio Europeo, tenutosi a Nizza nel dicembre scorso, aveva chiesto alle istituzioni europee, governi e parlamenti nazionali, di aprire sull’Europa un dibattito ampio ed aperto per una vasta sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Il Convegno di Innsbruck sarà una tappa importante e forse unica per la sua rilevanza in questo progetto: il documento finale sarà consegnato nelle mani del presidente della commissione che sta preparando il prossimo appuntamento del Consiglio, fissato per dicembre a Laeken, in Belgio. Le premesse ci sono tutte, come lascia presagire la dichiarazione del Presidente Prodi: “Il convegno costituirà un significativo momento, indispensabile per aiutare a creare un Europa in cui tutti i cittadini si sentano protagonisti”. Chiara Lubich, da parte sua, ha affermato: “L’unità d’Europa: un ideale, un impegno, quello di dare al nostro continente un supplemento d’anima che rinnovi i suoi cittadini e le sue grandi o piccole istituzioni”. Ufficio Stampa Innsbruck Responsabile: Mr. W. Weger – Mail: w.weger@magibk.at Tel: 0043 512 5360 1930 – Fax: 0043 512 5360 1757 Portatile: 0043 664 14 02 761 Fax diretto: 0043 512 58 24 93 (altro…)
Nov 4, 2001 | Non categorizzato
Intervengono:
Romano Prodi
Presidente della Commissione Europea
Thomas Klestil
Presidente della Repubblica Austriaca
Jos Chabert
Presidente della Camera delle Regioni alla UE
Chiara Lubich
Fondatrice del Movimento dei Focolari
Live internet
E' un avvenimento progettato da tempo. Dopo l'11 settembre rivela una particolare attualità e significato.
La tragedia che ha colpito gli Stati Uniti, ha posto la comunità mondiale di fronte alla necessità di una risposta politica di tipo nuovo. Nell'opinione pubblica mondiale cresce la coscienza di appartenere ad un'unica famiglia umana. L'Europa ha un ruolo importante da giocare nella ricerca di vie e strumenti che possano far crescere una nuova cultura di giustizia sociale e cooperazione su percorsi di pace e di fraternità tra i popoli, uniche vie praticabili nell'attuale drammatica situazione mondiale.
"Ai comuni – ha dichiarato il sindaco van Staa – viene richiesto coraggio, apertura, senso di responsabilità".
I comuni possono contribuire all'unità europea con un processo dal basso: questa prima assemblea dei poteri locali dell'Europa unita mostrerà quanto le amministrazioni locali siano in grado di agire nel "costruire" i cittadini d'Europa, nel contribuire a comporre e ricomporre diversità delle culture e delle religioni, da sempre ricchezza del vecchio continente, nell'aprire sfide di fraternità intrecciando rapporti stretti e diretti con comunità locali dei paesi poveri degli altri continenti.
Il convegno si propone così di "dare un'anima" al processo di integrazione e di allargamento dell'Europa.
Oltre alla presenza del Presidente austriaco Thomas Klestil, spiccano i due interventi centrali: quello del Presidente della Commissione europea Romano Prodi su "le grandi opportunità dell'attuale fase storica dell'Europa" e quello di Chiara Lubich su "la fraternità in politica come chiave dell'unità d'Europa e del mondo".
Hanno confermato la loro adesione sindaci da tutta Europa, dall'Atlantico agli Urali, spalancando i confini dell'Europa unita. Significativa, in questa proiezione al futuro, la partecipazione anche di oltre 200 giovani, studenti in scienze politiche o comunque attenti al futuro politico del continente.
Sindaci e giovani lavoreranno insieme in quattro gruppi tematici di lavoro, finalizzati alla redazione di un "appello per l’unità europea" rivolto ai governi dei paesi rappresentati, per una autentica "Europa – comunità di popoli".
Il Consiglio Europeo, tenutosi a Nizza nel dicembre scorso, aveva chiesto alle istituzioni europee, governi e parlamenti nazionali, di aprire sull'Europa un dibattito ampio ed aperto per una vasta sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Il Convegno di Innsbruck sarà una tappa importante e forse unica per la sua rilevanza in questo progetto: il documento finale sarà consegnato nelle mani del presidente della commissione che sta preparando il prossimo appuntamento del Consiglio, fissato per dicembre a Laeken, in Belgio.
Le premesse ci sono tutte, come lascia presagire la dichiarazione del Presidente Prodi: "Il convegno costituirà un significativo momento, indispensabile per aiutare a creare un Europa in cui tutti i cittadini si sentano protagonisti".
Chiara Lubich, da parte sua, ha affermato: "L’unità d’Europa: un ideale, un impegno, quello di dare al nostro continente un supplemento d’anima che rinnovi i suoi cittadini e le sue grandi o piccole istituzioni".
Ufficio Stampa Innsbruck
Responsabile: Mr. W. Weger – Mail: w.weger@magibk.at
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Accredito dei giornalisti: via e-mail all’Ufficio Stampa Innsbruck
Nov 4, 2001 | Non categorizzato
TELEPACE:
Agrigento, Chiavari, Lodi, Roma, Trento, Verona
CAMPANIA:
Tele Ischia
EMILIA-ROMAGNA:
ANTENNA UNO (Modena, Ferrara, Bologna)
TELETRICOLORE (Reggio Emilia, Parma)
TELELIBERTA’ (Piacenza)
RTV San Marino (Repubblica di S. Marino)
LAZIO:
Telelazio-Reteblu
LIGURIA:
Telepace (Chiavari)
LOMBARDIA:
Telenord e Radio TV Super (Brescia)
Nov 2, 2001 | Nuove Generazioni
RUFZEICHEN significa “punto esclamativo”, ma Ruf significa anche “chiamata”.
E' il titolo della manifestazione degli oltre 5000 giovani di 29 movimenti e associazioni cattoliche austriache, che ben esprime l'esperienza vissuta sabato 3 novembre nella Cattedrale di Vienna: la meraviglia della chiamata di Dio comunicata con forza da Chiara Lubich.
“Chiara, Grazie! Ci hai comunicato quanto sia grande l'amore di Dio e ciò che lui può fare della nostra vita se ci affidiamo a lui, se ci doniamo a lui, se seguiamo la sua voce”. Cristina, dell'Azione Cattolica, una dei presentatori, parla a nome degli oltre 5000 giovani che sabato pomeriggio hanno gremito la cattedrale di Santo Stefano a Vienna, dandole un volto del tutto inedito.
Una manifestazione – la prima di queste dimensioni – avviata da “Dialog X” che favorisce l'incontro tra oltre 30 movimenti e associazioni, per iniziativa del vescovo Iby di Eisenstadt, incaricato dalla Conferenza episcopale austriaca della pastorale giovanile.
Cristina ha preso la parola dopo che un lungo applauso aveva accolto le ultime parole di Chiara: “Puntate in alto! Avete una vita sola, spendetela per un ideale grande: Dio, l'Amore!”.
Difficile esprimere il clima che si respirava: gioia, entusiasmo, commozione. Lo si leggeva sui volti dei giovani, ma anche su quello del cardinale Schönborn, seduto accanto a Chiara Lubich, su un palco eretto davanti all'altare maggiore. Questo clima veniva reso anche dalla diretta satellitare, trasmessa da Telepace e seguita in tutta Europa e nel mondo via Internet.
Ancora Cristina, nel saluto a Chiara riportava l'interrogativo che qualche giovane si faceva prima dell'incontro: “Che cosa ha da dire questa donna non certo più diciassettenne ai giovani?”, a cui aveva risposto: “Con la sua vita può affascinarli e entusiasmarli”.
E così è stato. In modo del tutto imprevedibile. Dopo le prime battute, Chiara ha lasciato da parte i fogli. Ha donato ai giovani un'esperienza che aveva radici sin dall'infanzia, maturata poi in piena giovinezza. L'ha data con un'intensità tale – perché da lei rivissuta, per così dire, in diretta – che ha avuto una grande forza di coinvolgimento dei giovani presenti.
Veniva in rilievo il filo d'oro della chiamata di Dio, intrecciato col dramma della seconda guerra mondiale che pareva presente, con i richiami all'attuale conflitto in Afghanistan, al dramma dei profughi. Sfondo drammatico di odio e violenza da cui emergeva la risposta ad una domanda che di certo era in molti giovani: “Tutto passa. Ci sarà qualcosa che non crolla?”. Ed è scoppiato un applauso, alla risposta: “Sì c'è: è Dio, Dio Amore. L'unico che non crolla”.
Il racconto che si è snodato rivelava certo un Vangelo esigente perché preso alla lettera, senza sconti, ma affascinante perché, con episodi concreti, Chiara mostrava che a quel “date” evangelico, corrisponde il “vi sarà dato, con una misura colma e traboccante”.
Ed è proprio in questo momento difficile che l'umanità sta vivendo, che quel messaggio esigente lanciato da Chiara, da viversi nell' “amore” momento per momento, verso tutti, “dal professore antipatico, a chi ti passa accanto di altra razza e religione, senza esclusione alcuna”, che si comprende la profondità della risposta dei giovani, la loro gioia e commozione, una gioia liberatoria per aver riscoperto in Dio una nuova certezza. Lo confermano alcune impressioni a caldo: “Abbiamo scoperto che Dio ha un posto importante nella nostra vita.” “Voglio vivere per portare assieme a tutti questi giovani l'amore alla società”.
Ott 31, 2001 | Parola di Vita
Luca scrive il suo Vangelo quando le persecuzioni contro i primi cristiani sono già cominciate. Ma, come ogni parola di Dio, è diretta ai cristiani di tutti i tempi e alla loro quotidiana esistenza. Essa contiene un monito e una promessa. L’uno riguarda più la vita presente, l’altra più la futura. Ambedue puntualmente si verificano nella storia della Chiesa e nelle vicende personali di chi cerca di essere un discepolo fedele a Cristo. E’ normale, per chi segue lui, essere odiati. E’ il destino del cristiano coerente, in questo mondo. Non c’è da illudersi e Paolo ce lo ricorda: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati”. Gesù spiega il perché: “Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Ci sarà sempre un contrasto fra il modo di vivere del cristiano e quello di una società che rifiuta i valori del Vangelo. Contrasto che può sbocciare in una persecuzione più o meno larvata oppure in una indifferenza che fa soffrire.
«Sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà»
Dunque, siamo avvertiti. Quando, in maniera che ci appare incomprensibile, fuori da ogni logica e da ogni buon senso, riceviamo odio in cambio dell’amore che abbiamo cercato di dare, questa ricompensa non dovrebbe disorientarci, scandalizzarci, meravigliarci. Non è che la manifestazione di quell’opposizione che esiste fra l’uomo egoista e Dio. Ma è anche la garanzia che siamo sulla strada giusta, quella stessa percorsa dal Maestro. Quindi è un momento per rallegrarsi ed esultare. E così vuole Gesù: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno […] per causa mia. Rallegratevi ed esultate”. Sì, ciò che deve dominare nel cuore in quell’ora, è la gioia, quella gioia che è la nota caratteristica, la divisa dei veri cristiani in ogni circostanza. Anche perché, non dimentichiamolo, molti sono anche gli amici, fra i fratelli e le sorelle di fede, e il loro amore è fonte di consolazione e di forza.
«Sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà»
Ma c’è anche la promessa di Gesù: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. Cosa significano queste parole? Gesù riprende un proverbio di Samuele e lo applica al destino finale dei suoi discepoli, per rassicurarci che, pur avendo delle vere sofferenze, delle reali difficoltà a causa delle persecuzioni, dobbiamo sentirci interamente nelle mani di Dio che ci è Padre, conosce tutto di noi e non ci abbandona mai. Se dice che nessun capello del nostro capo perirà, vuole darci la certezza che Lui stesso si prenderà cura di ogni preoccupazione, anche minima, per la nostra vita, per i nostri cari e per tutto quanto abbiamo in cuore. Quanti martiri noti o ignoti hanno attinto dalle parole di Gesù la forza e il coraggio di affrontare privazioni di diritti, divisione, emarginazione, disprezzo, fino alla morte violenta, a volte, essendo certi che l’amore di Dio ha permesso ogni cosa per il bene dei suoi figli!
«Sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà»
Se ci sentiamo bersagliati dall’odio o dalla violenza, in balia della prepotenza, conosciamo già l’atteggiamento che Gesù ci ha indicato: dobbiamo amare i nemici, fare del bene a chi ci odia, benedire chi ci maledice, pregare per chi ci maltratta. Occorre partire al contrattacco e vincere l’odio con l’amore. In che modo? Amando noi per primi. E stare attenti a non “odiare” nessuno, neanche in maniera nascosta o sottile. Perché, in fondo, questo mondo che rifiuta Dio, ha bisogno di Lui, del suo amore, ed è capace di rispondere al suo richiamo. In conclusione, come poter vivere questa Parola di vita? Essendo felici di scoprirci degni dell’odio del mondo, garanzia di seguire più da vicino Gesù, e mettere, a fatti, amore là, proprio là, dove l’odio scaturisce.
Chiara Lubich
Ott 31, 2001 | Nuove Generazioni
15,45 INIZIO DIRETTA
15:45 Pantomima di Christian Habringer ’Wo stehe ich?’
15:46 Band: ’Lean on’
15:50 Saluto del Vescovo incaricato pastorale giovanile, Mons. Paul Iby,
15:52 Testimonianza del vescovo
15:54 Il Vescovo introduce la Preghiera
15:55 Preghiera
16:00 Band: ’Jesus, Dein Licht’
16:05 Interviste-testimonianze
16:15 Band: ’Spreng die Leere der Zeit’
16:20 Band: ’Where do I go’
16:31 Card.Schönborn: presentazione di Chiara Lubich
16:41 Chiara Lubich: ’La risposta d’amore alla chiamata’
17.31 Band: ’Bleibe hier bei uns’
17.40 Interviste
17,45 FINE DIRETTA
Ott 10, 2001 | Focolari nel Mondo
Da New York:
Ci ha dato gioia vedere che in un documentario alla fine della giornata veniva riportata la frase di un ministro nella cattedrale di Washington: "L’amore è più forte dell’odio". E il Rev. Billy Graham, predicatore protestante molto famoso: "L’America ha bisogno di un rinnovamento spirituale". In un’altra intervista un signore diceva: "Quello che i politici e i leaders civili e religiosi non sono riusciti a fare, l’ha fatto questa tragedia: ha unito l’America". Abbiamo saputo dai nostri amici afro-americani che l’Imam W.D. Mohammed (loro leader), aveva fatto in moschea un sermone, dove diceva che la soluzione alla violenza è proprio vivere meglio la loro fede, essere dei veri musulmani, perché l’Islam è una religione di pace.
Da Chicago:
Anche se nell’anima c’è ancora l’angoscia degli avvenimenti dell’11 settembre e la paura di ciò che può succedere ora, gioisco a vedere che questo Paese sta reagendo con tantissimo amore, unità e una solidarietà mai sperimentate. Vedo l’anima religiosa dell’America che viene a galla dopo essere stata per 30-40 anni soffocata dalla mentalità di chi vuole ammazzare la fede in Dio. Poi sono stata colpita dalla solidarietà con i nostri amici ebrei e musulmani, e con cristiani di altre Chiese. In tutta la società, persone di diverse fedi stanno incontrandosi e pregando per la pace.
Da San Antonio:
In questi ultimi giorni siamo stati in contatto con i nostri amici musulmani afro-americani di diverse città: San Antonio, Dallas, Houston, Tulsa, Oklahoma City, Baton Rouge, New Orleans e Jackson. Grande la loro gioia e gratitudine per il nostro sostegno, preghiera e unità. A Dallas, dove hanno sparato ad una moschea di musulmani del Medio Oriente, i nostri amici sono accorsi in soccorso e sostegno. Qui a San Antonio siamo andati ad un incontro di preghiera per la pace, invitati dal nostro amico Imam. Loro notano il bene che sta venendo fuori da questa tragedia e gioiscono specialmente delle preghiere gli uni per gli altri.
Da Karachi – Pakistan:
Certo la sospensione c’è, la trepidazione, per i nostri Paesi, per il Pakistan, l’Afghanistan. Ma è più forte quel "qualcosa" che dice speranza, futuro. Cristiani e musulmani preghiamo insieme. Anche se nel Paese prevale la tensione, nei "nostri" c’è tanta pace. Tutti sentono la spinta forte a diffondere l’ideale dell’unità nel nostro mondo musulmano perché "riscopra – come dicono i nostri amici musulmani – il vero volto dell’Islam". Stiamo cercando di stare vicino, di accrescere l’unità fra tutti, sostenendoli spiritualmente, e di vedere concretamente come aiutarli in questi momenti non facili, in particolare per la comunità cristiana.
Da Gerusalemme:
Due sentimenti abbiamo avuto in seguito a quanto è successo: sgomento per la tragedia e timori per le possibili ripercussioni nel mondo e in Medio Oriente. Ri-offriamo le nostre vite a Dio perché cadano i muri in Medio Oriente e perché la Parola "Unità" diventi una realtà fra i nostri popoli.
Da Londra:
Qui ciò che è accaduto ha un’eco fortissima in tutti. Anche qui, come in America, si moltiplicano le espressioni di solidarietà, che dà testimonianza a livello ecumenico e interreligioso di una nuova esigenza di unità al di là di ogni barriera.
Da Solingen (Germania):
Abbiamo scritto (ed incoraggiato altri a scrivere) ai politici responsabili del governo della Germania e ai capi dei partiti di impegnarsi fortemente per una soluzione politica e per l’eliminazione delle cause.
Da Lipsia (Germania):
Crediamo che il mondo unito si costruisce anche su questo dolore. Lo vediamo già nel nostro piccolo: nelle chiese piene, nei rapporti più veri, in tanti gesti di solidarietà e fratellanza nuova, nell’ansia profondissima per la pace!
Set 30, 2001 | Parola di Vita
Spesso Israele, nella sua storia fatta di lunghi esili, faceva l’esperienza di una radicale impotenza di fronte ad avvenimenti che nessuna forza umana avrebbe potuto cambiare. E apprendeva l’umiltà, cioè un atteggiamento di dipendenza totale e di piena fiducia in Dio. E proprio nella sua condizione di popolo umile e povero, più volte Israele trovava rifugio e ascolto solo in Colui che aveva stretto con esso un’alleanza eterna. Nella prospettiva messianica, poi, l’atteso è un re umile che entra in Sion cavalcando un asinello, perché il Dio di Israele è soprattutto il “Dio degli umili”. E poiché in Gesù si sono compiute tutte le aspettative, è dalla sua vita e dai suoi insegnamenti che potremo apprendere la vera umiltà, quella che rende la nostra preghiera accetta al Signore.
«La preghiera dell’umile penetra le nubi»
La vita di Gesù è tutta una lezione di umiltà. Da Dio che è, si è fatto prima uomo nel seno della Vergine Maria, poi pane nell’Eucaristia e quindi “nulla” sulla croce. Aveva detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e poi nella lavanda dei piedi, lui che era il Maestro, si era chinato a fare il più umile dei servizi. Aveva proposto a modello i piccoli ed era entrato in Gerusalemme a cavallo di un asino. Alla fine si è lasciato crocifiggere, annientandosi nel corpo e nell’anima, per ottenerci il Paradiso. Ma perché tutto questo? Cosa spingeva il Figlio di Dio? Egli non faceva che rivelarci il suo rapporto col Padre, il modo di amare della Trinità, che è un reciproco “farsi nulla” per amore, un eterno donarsi l’uno all’altro. E Gesù riversa sull’umanità questo amore trinitario che raggiunge il suo culmine proprio nell’atto di donarsi completamente nella sua passione e morte. Dio mostra così la sua potenza nella debolezza. Il suo è un amore che solleva il mondo, proprio perché si mette all’ultimo posto, sull’infimo gradino della creazione.
«La preghiera dell’umile penetra le nubi»
Dunque è veramente umile chi, sull’esempio di Gesù, sa farsi nulla, per amore degli altri, chi si mette davanti a Dio in un atteggiamento di totale disponibilità al suo volere, chi è talmente vuoto di sé, da lasciarsi vivere da Gesù. E allora la sua preghiera sarà esaudita, perché quando pronuncia la parola Abbà-Padre, non è più lui a pregare; è una preghiera che ottiene ciò che domanda perché è messa sulle labbra dallo Spirito Santo. Il culmine della vita di Gesù fu quando “egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte, e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7-8) cioè, per la sua preghiera ispirata dall’obbedienza totale alla volontà del Padre, al suo pieno abbandono a lui. Ecco dunque la preghiera che penetra le nubi e giunge al cuore di Dio, quella di un figlio che si solleva dalla sua miseria per gettarsi con fiducia fra le braccia del Padre.
Chiara Lubich
Set 18, 2001 | Focolari nel Mondo
D. – Di fronte ad una così grande tragedia e assurdità che ci supera tutti, si è alla ricerca di un senso. A tanta paura e angoscia, quale risposta?
R. – Quando ho visto incredibilmente quelle torri crollare, di fronte a questa immane tragedia, allo shock di una super-potenza che si scopre di colpo vulnerabile e tocca con mano il crollo di tante certezze, di fronte alla paura dello scoppio di una guerra dagli esiti imprevedibili, m’è parso di rivivere a Trento sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Tutto crollava e forte era la domanda se c’era qualcosa che nessuna bomba potesse distruggere? La risposta era stata: sì c’è. E’ Dio. Dio che scoprivamo Amore. Una scoperta folgorante che ci aveva dato la certezza che lui non può abbandonare noi uomini, che Lui non è mai assente dalla storia, anzi che sa convogliare qualunque cosa succede al bene. E l’ho toccato con mano in modo sorprendente. E mi sono chiesta: non sarà che proprio ora, all’inizio di questo XXI secolo Dio voglia ripetere questa grande lezione e darci di rimettere lui al primo posto nella nostra vita, costringendoci a mettere in sott’ordine tutto il resto? E questo mi dice speranza e futuro. Per cui quello che per tutti sembra un passo indietro, per me ha assunto un significato diverso. Ed ho visto che questa visione delle cose sta spuntando anche nell’anima degli americani. Così mi dicono da lì.
D. – Quali sono i segni concreti di questa visione?
R. – Ci sono assolutamente dei segni concreti! Per esempio ho saputo che un ragazzo di 15 anni diceva: "Sono molto colpito dal male provocato da una simile azione; ma guarda quanto bene ne sta venendo fuori. E’ una gara di solidarietà che non si è mai vista." Attribuisco ciò al fatto che questi avvenimenti tragici hanno avvicinato maggiormente le persone a Dio. Ancora mi scrivono da New York – e questo lo si sa anche attraverso la televisione – che hanno visto la città completamente trasformata, muri di indifferenza sciogliersi in una valanga di aiuti concreti, di conforto, di prontezza a far qualcosa, proprio che allevi i dolori degli altri. E’ commovente – dicono – vedere tutto un popolo che, davanti alle avversità, si rivolge verso Dio in preghiere spontanee, dal Parlamento alle piazze, mostrando così le sue vere radici di fede. Secondo noi questo è un segno anche della vocazione particolare di questo grande Paese. Sono stata più volte negli USA: hanno una speciale vocazione all’unità. Sono presenti, si può dire, tutte le etnie del mondo. E’ un Paese talmente multi-religioso, multi-etnico, multi-culturale che potrebbe presentare al mondo un modello d’unità.
D. – Però non si può negare che ci sia anche un crescente sentimento anti-islamico; c’è stato anche un attentato negli Stati Uniti in questo senso. Che cosa si può fare per evitare queste divisioni, questi sentimenti che criminalizzano l’intero mondo musulmano?
R. – Da tempo nel nostro Movimento – ma non è solo nel nostro Movimento – abbiamo costruito una profonda unità in Dio con i musulmani; e proprio negli Stati Uniti, con un vasto Movimento musulmano afro-americano. Ed ho saputo che in questo momento li aiuta tanto l’essersi uniti con noi cristiani nell’impegno di portare nel mondo la fraternità universale. Dobbiamo riconoscerci fratelli, cristiani e musulmani. Siamo tutti figli di Dio. Perciò comportiamoci noi cristiani in questa maniera. Ecco, questa è la strada.
D. – Lei, appunto, conosce bene l’Islam e ci sono – lei dice – anche musulmani che sono nel suo Movimento dei Focolari?
R. – E certo! Moltissimi: ce ne sono in Algeria, ce ne sono in America, ce ne sono in Palestina. E in molti altri Paesi dove ci sono musulmani, in Africa, in Asia.
D. – Com’è possibile, a suo avviso, tanto odio da parte di alcuni fondamentalisti musulmani? Che cosa si può fare?
R. – Secondo me, qui c’è di mezzo il Male con la M maiuscola. Per questo io sento profondamente una cosa, che forse è un po’ originale: adesso si stanno mobilitando tutte le forze, a livello politico, tra capi di Stato, ecc. Ma bisogna che anche il mondo religioso si mobiliti per il bene, si unisca per il bene. Già lo si fa. Per esempio il Santo Padre, domenica scorsa ha parlato con così tanta forza – e tutti i giornali, ho visto, lo riportano – che bisogna che l’America non si lasci tentare dall’odio. Di continuo ripete i suoi appelli per la pace. E’ quanto già sta facendo, per esempio, la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace. Pochi giorni fa c’è stato a Barcellona un incontro di centinaia di rappresentanti di religioni e di Chiese diverse, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio che hanno fatto anche un messaggio in cui si impegnano per la pace. Il nostro stesso Movimento, per esempio, nella sua espressione più politica – si chiama "Movimento dell’Unità" – porta questa idea della fraternità che è foriera di pace, attraverso i Comuni, attraverso i Parlamenti, in molte parti del mondo. Ma è poco, quello che facciamo. Tutto andrebbe intensificato e universalizzato. Non bisogna lasciar fare soltanto al mondo politico. E preghiamo che non si crei tragedia su tragedia se non si imbocca la strada giusta, secondo la saggezza e il buon senso. E m’è venuta un’idea: se noi tutti cristiani, attuassimo con rinnovato slancio la nuova evangelizzazione, così come il Papa la presenta, questa sarebbe una soluzione, perché porta proprio la fraternità, lo spirito di comunione, non solo fra i cattolici, ma poi, attraverso il dialogo, con tutti gli altri nel mondo. Insomma si potrebbe trovare una strada.
D. – Che cosa può dare il cristianesimo all’Islam, in questo dialogo?
R. – La fraternità, la fraternità. Il piano di Dio sull’umanità è proprio la fraternità. E’ quella anche il correttivo della politica deviata, che un po’ viviamo anche noi qui in Occidente. Fraternità che è possibile anche con gli uomini di altre fedi e di altre convinzioni, perché l’amore fraterno è nel DNA di ogni uomo creato a immagine e somiglianza di Dio.
D. – Eppure in questo momento si sta vivendo un po’ un clima di guerra…
R. – E sì, purtroppo! Si sperava di no, e invece mi sembra che le cose si fanno più gravi.
D. – Che cosa può fare l’uomo della strada, l’uomo semplice?
R. – Ci sono già iniziative concrete. So di una città italiana che vorrebbe offrirsi per ospitare nelle famiglie i bambini di New York e Washington rimasti orfani. Noi stessi accogliamo in una delle nostre cittadelle vicina a New York persone bisognose di aiuto. Mentre sul posto siamo tutti impegnati ad aiutare chiunque incontriamo con qualsiasi mezzo. L’amore è inventivo. Bisogna darsi da fare.
D. – Lei quindi anche in questa tragedia vede un mondo che va verso l’unità?
R. – Verso il bene, verso l’unità. Proprio così. Anzi, guardi, paradossalmente noi qui e i nostri del Movimento negli Stati Uniti, ci diciamo la stessa cosa. Noi abbiamo come ideale, appunto, un mondo migliore, un mondo unito. Ecco, ci diciamo: ma qui paradossalmente le porte… si spalancano per arrivare prima all’unità.
Set 14, 2001 | Nuove Generazioni
"Con la certezza di aver raggiunto il cuore del Padre con la nostra preghiera planetaria, oggi più che mai assicuriamo il nostro impegno a non riposare, affinché scoppi la pace" dicono i giovani di Bahia Blanca (Brasile). "Abbiamo un Alleato d’eccezione, possiamo farcela…" scrivono da Barcellona. "Scegliamo di vivere 'la fraternità infinita' come antidoto a ogni violenza", così da Nantes Francia. "Siamo in prima fila, pronti all’ 'offensiva dell’amore'", da Los Angeles.
Questi, alcuni dei molti echi giunti via fax e e-mail da giovani di tutto il mondo dopo il collegamento telefonico planetario di domenica scorsa che aveva messo in comunicazione migliaia di giovani da oltre 70 città nei 5 continenti: da New York a Mosca, da Hong Kong a Toronto, da Fontem (Camerun) a Dallas, Brasilia, Buenos Aires, Bombay sino alla Nuova Caledonia (Australia). Giovani cattolici, ma anche cristiani di altre tradizioni, musulmani, ebrei e indù.
Un’iniziativa definita da molti “un’esperienza di unità planetaria”, una potente iniezione di speranza e coraggio nel clima di “paura globale” che si respira. E’ stata promossa dai “Giovani per un mondo unito”, espressione giovanile del Movimento dei Focolari. Segna il culmine della Settimana Mondo Unito, giunta alla sesta edizione, una settimana densa di iniziative per la pace, l’unità e la solidarietà.
Ed è proprio la drammatica situazione mondiale di queste ore che ha spinto questi giovani ad imprimere un nuovo slancio, una nuova radicalità all’impegno di vivere e pregare per la pace e l'unità. E’ perciò che è stata per tutti i giovani un momento culmine del collegamento, la preghiera finale “all’unico Dio”, nella certezza di “strappare dal Cielo la grazia della pace” con “la promessa di essere portatori di pace, non solo dove vi è violenza, ma dovunque dove siamo ” (da Catania).
Chiara Lubich aveva lanciato un messaggio che – come scrivono i giovani di Hong Kong – "ci ha dato la chiave per vedere Dio che agisce nella storia anche dietro gli avvenimenti dolorosi". Chiamava i giovani a "testimoniare con più forza il grande Ideale che Dio ci ha dato: l'unità". Chiara ha comunicato loro quanto le hanno scritto dalla Thailandia: “Se esistono persone capaci di sacrificare la vita per una causa che provoca la morte, noi dobbiamo essere felici di dare la nostra vita per il bene, per l’unità”. Questo l’antitodo più radicale all’attuale drammatica situazione mondiale.
E la risposta è stata senza mezze misure. "Mi ha impressionato la possibilità di dare la vita per il mondo unito: sento che Gesù mi richiede questo, mettendo da parte tutto il resto”. (da Catania) "E' la risposta concreta alla sfida drammatica in cui viviamo oggi" (dal Portogallo).
Set 14, 2001 | Nuove Generazioni
Carissimi giovani,
eccoci giunti al nostro appuntamento mondiale: quello di oggi è il primo del nuovo millennio!
Il 5 settembre scorso il Papa, rivolgendosi a leaders di tutte le religioni riuniti a Barcellona per un congresso interreligioso, li invitava a iniziare questo nuovo millennio, il XXI
Set 14, 2001 | Nuove Generazioni
Una risposta testimoniata proprio dai giovani più colpiti, quelli di New York: da loro innanzitutto un grazie, perché attraverso e-mails e fax hanno sentito condiviso con i coetanei di tutto il mondo "il grande dolore di questo tragico momento per il nostro Paese". Toccante la loro esperienza: “Mentre guardavamo il World Trade Centre cadere in fiamme e cenere, abbiamo subito pensato agli inizi del Movimento a quelle parole della nostra storia: “Erano i tempi di guerra e tutto crollava. Solo Dio e il Suo amore rimangono”.
Questo e’ apparso chiaro non solo a noi Giovani per un Mondo Unito, ma anche a tanta altra gente nel nostro Paese che si sono unite in questo momento di dolore. Infatti, subito dopo abbiamo visto come l’amore è più forte dell’odio, l’amore sta già vincendo perché le barriere dell’indifferenza crollano e ci si aiuta l’un l’altro concretamente sostenendosi a vicenda. Molti gli atti concreti per le squadre di soccorso, i sopravvissuti, le famiglie in lutto. Gli aiuti e le offerte di volontariato hanno superato la domanda.
Che cosa possiamo fare noi di concreto, ci siamo chiesti, che non sia già stato dato? Abbiamo capito che abbiamo un dono unico, immenso da offrire in questo momento di shock e smarrimento: quella comprensione di questo grande dolore illuminata dal mistero di Gesù che sulla croce giunge a gridare l’abbandono del Padre. Siamo certi più che mai dell’amore di Dio e che questa sofferenza porterà frutti."
Una certezza che si imprime in tanti: "Tutto crolla… Oggi ho sentito in modo più forte che anche se tutto crolla… l’amore di Dio resta" (Francesca 17 a. Scicli). Da Los Angeles: "Ci impegniamo ad amare tutti, specialmente quelli che soffrono per questa tragedia. Vediamo, nonostante tutto, segni di quel mondo nuovo per cui vogliamo vivere".
Set 14, 2001 | Nuove Generazioni
Da 11 punti dei 5 continenti i giovani hanno comunicato una carrellata di esperienze concrete: dal messaggio di solidarietà dei giovani musulmani dell’Algeria, a quello dall’India dei giovani indù dell’istituzione gandhiana Shanti Ashram. Dalla Corea giovani giapponesi e coreani, popoli tradizionalmente nemici, hanno testimoniano l’unità con un concerto per la pace. Da El Salvador dove giunge l’eco della sofferenza e della gratitudine per la solidarietà vissuta dopo i due recenti devastanti terremoti.
Dall’Africa, la voce dei giovani di Fontem – cittadina nel cuore della foresta camerunese – che, a partire dalla giornata mondiale dei giovani del 2000, è testimone di un’ondata di solidarietà concreta, grazie al lancio del "Progetto Africa": in un anno oltre 250.000 i dollari raccolti per la costruzione di una nuova ala dell’ospedale per i malati di Aids e per altri interventi.
Ma non solo aiuti: "Dall’inizio di quest’anno abbiamo avuto la possibilità di accogliere giovani dalla Germania, Austria, Francia, Italia, Filippine, Olanda e da altri Paesi africani". Sono giunti non solo per prestare il loro aiuto, ma per uno scambio dei valori della proprio cultura.
Ancora da Innsbruck, viene annunciato per i primi di novembre un grande incontro dei sindaci d’Europa (9/10 novembre) per dare un’anima al continente, a cui parteciperanno il Presidente Prodi e Chiara Lubich. Invitati anche 200 giovani.
E dal Canada parte l’appuntamento a tutti i giovani del mondo: a Toronto per la Giornata mondiale della gioventù 2002 con il Papa.
Set 6, 2001 | Chiesa
(P. Sidney Fones) – Dal 1
Ago 31, 2001 | Parola di Vita
L'insegnamento di Gesù qui riguarda l'uso della ricchezza, e Luca, l'evangelista dei poveri, se ne fa portavoce. Il termine “mammona” è una parola aramaica che significa i beni materiali, ma è usato qui da Gesù in senso negativo e cioè come quell'insieme di tesori che possono prendere nel cuore umano il posto di Dio. Il pericolo della ricchezza è che ci si possa innamorare a tal punto di essa, da richiedere l'impegno di tutte le forze e di tutto il tempo a disposizione per mantenerla ed accrescerla. Essa diventa un idolo a cui sacrificare tutto. Per questo Gesù la paragona a un padrone così esigente da non ammetterne altri. Di qui la richiesta di una scelta senza compromessi.
«Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».
Le parole di Gesù non devono suonare come una condanna della ricchezza in se stessa; ma del posto esclusivo che essa può avere nel cuore umano. Egli non richiede a tutti la povertà assoluta, anche esterna, tanto è vero che ci sono dei ricchi fra i suoi discepoli, come Giuseppe d'Arimatea. Ciò che egli richiede è il distacco dai propri beni. Occorre che il ricco non si consideri tanto padrone, quanto amministratore dei beni in suo possesso, i quali sono primariamente di Dio e destinati non solo ad alcuni privilegiati ma a tutti. La ricchezza è un ottimo mezzo se serve a chi è nel bisogno, se aiuta a fare del bene, se si usa a fini sociali, non solo con opere di carità ma anche nella gestione di un'azienda. Solo in questo modo ci si potrà servire dei propri beni senza essere asserviti ad essi. Grande è il pericolo di accumulare ricchezze per sé. E sappiamo bene dall'esperienza e dalla storia, quanto l'attaccamento ai beni di questa terra possa corrompere e allontanare da Dio. Per cui non deve sorprendere l'aut aut così deciso di Gesù: o Dio o la ricchezza.
«Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».
Come mettere in pratica, allora, questa parola? Oltre a chiarirci il rapporto con la ricchezza, essa, come ogni parola di Dio, ci dice molte altre cose. Gesù non ci pone di fronte all'alternativa fra lo scegliere Dio o mammona. Dice chiaramente che, nella nostra vita, dobbiamo scegliere Dio. Forse, fino ad oggi, questo non l'abbiamo ancora fatto. Forse abbiamo mescolato un po' di fede in lui, una qualche pratica religiosa, un certo amore per il prossimo, con tante altre piccole, grandi ricchezze, che occupano il nostro cuore. Analizzandoci bene, possiamo vedere se ciò che più importa a noi è il lavoro o la famiglia o lo studio o il benessere o la salute o tante altre cose umane che amiamo per se stesse o per noi, senza nessun riferimento a Dio. Se così è, il nostro cuore è già schiavo: poggia su idoli, idoletti, incompatibili con Dio. Che fare? Decidersi; e dire a Lui che non desideriamo altro che amarlo con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra mente, con tutte le nostre forze. E poi sforzarci di tradurre in pratica questo proposito, che non è difficile se lo attuiamo momento per momento, ora, nel presente della nostra vita, amando tutto e tutti soltanto per Dio.
Chiara Lubich
Ago 2, 2001 | Focolari nel Mondo, Senza categoria
E' il dialogo tra cristiani e laici la nota fondamentale e qualificante di questo VI Convegno Internazionale che ha affrontato tematiche di grande attualità: Globalizzazione economica e cultura, politica e etica sociale. La base è una comunione profonda costruita mettendo al centro la persona, rendendo così possibile e fecondo lo scambio di riflessioni, esperienze, proposte. E' Chiara Lubich stessa, che, nel messaggio rivolto ai partecipanti di convinzioni non religiose, letto in apertura del Convegno, evidenzia le radici di questa comunione tra cristiani e laici:
“Noi, come tutti i cristiani, abbiamo certamente fede in un Dio trascendente, ma incarnatosi su questa terra, fattosi uomo. Il fatto che ha preso carne umana è – vorrei dire – il punto qualificante della nostra religione che il Movimento sottolinea appieno. Ed è qui quel qualcosa di grande che ci permette un profondo legame con voi, una comunione con voi, impegnati come siete a rispettare, a potenziare l'essere umano, ogni uomo, con l'incremento e la salvaguardia dei suoi valori. Ciò che anche noi dobbiamo e vogliamo fare assieme a voi”: E' sull'Uomo-Gesù che fissiamo lo sguardo quando con voi desideriamo spenderci per il bene dell'uomo, le sue necessità, ma anche quando vogliamo comprendere le sue immense potenzialità e le sue ricchezze“.
Portata universale del dialogo
Un movimento, come quello dei focolarini, nato da una profondissima convizione religiosa, dalla scelta di Dio come ideale della loro vita, può forse essere d’interesse per uomini e donne di altre convinzioni? C’è qualche segno che tutto quanto facciamo può contribuire al grande disegno che abbiamo dinanzi: la fraternità universale per un mondo unito? A questi interrogativi ha risposto il messaggio di Chiara Lubich, approfondito dalle esperienze nelle più diverse condizioni di vita da laici di Firenze, Roma, Barcellona e Parigi.
Riflessioni ed esperienze sull'economia
Il laico Armando Romano ha affrontato il tema della globalizzazione economica e di quella culturale, che condiziona pesantissimamente la vita dei popoli del Sud, ma anche del Nord del mondo. Povertà estreme sempre più insopportabili per i primi; solitudini, separazioni, egoismi, disagi umani e politici per i secondi. Alla denuncia di Armando ha fatto eco con soluzioni innovative Luigino Bruni dell'Università di Milano. Egli ha indicato nella riconduzione del mercato alla sua funzione originaria di socializzazione, come pure nei rapporti umani improntati più alla comunicazione amichevole ed altruistica che alla caccia di sempre più costosi quanto inutili “status-simbols”, insomma in una nuova cultura solidale, il futuro di un'economia sostenibile, giusta, responsabile e… portatrice di felicità.
Le testimonianze di due giovani imprenditori belgi e di uno portoghese, responsabili di due medie imprese in fase decisamente espansiva, che sostengono il progetto dell'Economia di Comunione in favore di 10.000 famiglie emarginate in vari Paesi in via di sviluppo, come pure un filmato sulle sei aziende operanti nel Polo industriale nei pressi di San Paolo in Brasile, hanno conquistato colla forza dei fatti l'attenzione ed il cuore dei 300 presenti.
Riflessioni ed esperienze sulla politica
Il laico Roberto Montanelli e la cattolica Lucia Crepaz presentavano insieme le loro riflessioni sulla politica: riflessioni su una concezione alta e su una pratica della politica vista come attuazione del 3° assunto della rivoluzione francese, la fraternità, rimasto piuttosto in ombra rispetto a quelli della libertà ed eguaglianza, ma essenziale ad ambedue perché la libertà degli uni non avvenga a scapito di quella degli altri, o l'uguaglianza non si trasformi in camicia di forza per la libertà. La testimonianze di tre sindaci italiani e di un ex segretario di partito, già vittima del nazismo, il viennese Franz Muhri, personaggio di grande spessore umano, che, assieme ad alcuni componenti della segreteria del partito, in dialogo col locale Movimento dei focolari sta portando a compimento lo statuto del nuovo partito comunista austriaco, ora pienamente democratico e inserito nella società civile (anche nella sua componente religiosa).
Etica sociale
E’ la base ed il fine di ogni attività umana. Solo un'etica basata sui diritti ed i valori umani può umanizzare ogni attività umana, attività che nella nostra società hanno purtroppo se stesse come mezzo e fine e producono asservimento alienazione, a cominciare proprio dalla politica e dall'economia, dalla scienza e dall'informazione. Il laico Piero Taiti parte dall'art. 1 della dichiarazione ONU del '48, che proclama la libertà di ogni uomo, per affermare che essa non può essere conculcata da sovrano alcuno, portatore di qualsivoglia ideologia di razza, di religione, di popolo o quant'altro. Nota quante volte tale libertà sia stata nel corso della storia umana proclamata e negata, in nome di questo o quel potere, compreso quello – presunto – della ragione. Cita Hans Jonas, che dichiara imprescindibile per la convivenza umana la corresponsabilità di ciascun cittadino per ogni suo simile e distingue il diritto, valido e obbligatorio per tutti e quindi difesa per tutti, dall'etica, che non impone ma anima la convivenza umana.
Il cattolico Antonio Baggio, dell'università Gregoriana di Roma, ravvisa nell'etica che nasce dal dialogo il tratto fondamentale della nascita e della crescita della cultura europea: da Socrate, che dialogava col dàimon divino presente in sé, a Platone, che dialogava col gruppo degli altri discepoli del suo maestro, a Gesù di Nazareth, che dalla domanda profondamente umana a Dio: “Perché mi hai abbandonato?” arriva alla risposta dell'affidarsi a quello stesso Dio.
Toccante la testimonianza di Luli, non credente di Quito (Equador), che con altre giovani del Movimento riesce a rendere dignitosa la vita di 160 bambini di strada della sua città. Il gruppo di Milano invierà un suo esperto da lei per sostenere la sua azione. Maurizio, cattolico, e Khaled, musulmano tunisino, gestiscono insieme ad un terzo pescatore una barca a Cesenatico (Rimini) e organizzano feste che coinvolgono tutti i marinai del porto. Molto concreto nei particolari del racconto del loro duro lavoro, il loro dialogo costruttivo nella vita di ogni giorno.
Gruppi di Lavoro
Se ne costituiscono 15, composti da 15-20 membri ciascuno. Ad essi si dedicano oltre 3 ore filate. Ci si conosce in profondità, gli argomenti e le esperienze del convegno permeano lo scambio di esperienze, critiche, proposte, sostanziale adesione allo spirito che anima il dialogo.
Lug 31, 2001 | Parola di Vita
Nell'Antico Testamento il fuoco simbolizza la parola di Dio pronunciata dal profeta. Ma anche il giudizio divino che purifica il suo popolo, passando in mezzo ad esso. Così è la parola di Gesù: essa costruisce, ma contemporaneamente distrugge ciò che non ha consistenza, ciò che deve cadere, ciò che è vanità e lascia in piedi solo la verità. Giovanni Battista aveva detto di lui: “Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” , preannunciando il battesimo cristiano inaugurato il giorno di Pentecoste con l'effusione dello Spirito Santo e l'apparizione delle lingue di fuoco. Dunque è questa la missione di Gesù: gettare il fuoco sulla terra, portare lo Spirito Santo con la sua forza rinnovatrice e purificatrice.
«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!»
Gesù ci dona lo Spirito. Ma in che modo lo Spirito Santo agisce? Lo fa diffondendo in noi l'amore. Quell'amore che noi, per suo desiderio, dobbiamo mantener acceso nei nostri cuori. E com'è questo amore? Non è terreno, limitato; è amore evangelico. E' universale come quello del Padre celeste che manda pioggia e sole su tutti, sui buoni e sui cattivi, inclusi i nemici. E' un amore che non attende nulla dagli altri, ma ha sempre l'iniziativa, ama per primo. E' un amore che si fa uno con ogni persona: soffre con lei, gode con lei, si preoccupa con lei, spera con lei. E lo fa, se occorre, concretamente, a fatti. Un amore quindi non semplicemente sentimentale, non di sole parole. Un amore per il quale si ama Cristo nel fratello e nella sorella, ricordando quel suo: “L'avete fatto a me”. E' un amore ancora che tende alla reciprocità, a realizzare, con gli altri, l'amore reciproco. E' quest'amore che, essendo espressione visibile, concreta della nostra vita evangelica, sottolinea e avvalora la parola che poi potremo e dovremo offrire per evangelizzare.
«Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!»
L'amore è come un fuoco, l'importante è che rimanga acceso. E, perché ciò sia, occorre bruciare sempre qualcosa. Anzitutto il nostro io egoista, e lo si fa perché, amando, si è tutti protesi verso l'altro: o Dio, compiendo la sua volontà, o il prossimo, aiutandolo. Un fuoco acceso, anche piccolo, se alimentato, può divenire un grande incendio. Quell'incendio di amore, di pace, di fraternità universale che Gesù ha portato sulla terra.
Chiara Lubich
Lug 20, 2001 | Non categorizzato
La città, luogo della prossimità
La politica come principio di organizzazione della società civile ha preso le mosse dalla «città». Dopo 2500 anni di vicende politiche ed istituzionali, occorre riscoprire la dimensione urbana della politica, occorre tornare, in Europa e nel mondo, a guardare alla città come al luogo ove le dimensioni della socialità e della “prossimità” tra gli uomini trovano la prima, concreta espressione. Già Aristotele, del resto, considerava la città come uno spazio politico tipicamente umano, cioè distintivo dell’uomo in quanto uomo ed essere sociale; e nella tradizione antica la dimensione urbana è collocata nel «giusto mezzo» tra le due polarità del «giardino» e del «deserto». La politica, nella sua essenza, tratta della comunità e della reciprocità di persone e comunità differenti; nasce, dunque, nello spazio-tra-gli-uomini; si costituisce come relazione. E dove maggiormente, se non nella «convivialità» e nella “ospitalità” dello spazio comunale questa relazione può sviluppare tutte le sue potenzialità? Il comune, con la sua stessa esistenza, testimonia due esigenze, in cui tutti si riconoscono: quella della comunità e quella della solidarietà. Ma, nella complessità sociale e politica del mondo contemporaneo, è necessario un fattore aggiunto, un supplemento qualitativo che, partendo proprio dalla prossimità della vita comunale, rigeneri la comunità e renda concreta la solidarietà.
L’Europa, laboratorio di fraternità
Questo fattore, questo “di più” rinvenibile in tutte le tradizioni di pensiero, pur diversamente radicato e declinato, è la fraternità. Si può affermare che l’Europa ha realizzato la reciproca libertà dei popoli attraverso la reciproca libertà degli Stati; tra essi, infatti, non vi sono egemonie politiche (contano, ad esempio, nel voto, essenzialmente gli aspetti demografici). Benché in modo parziale ed incompleto, l’Europa ha favorito anche l’uguaglianza dei popoli, con le politiche di coesione economica e sociale, la libertà di circolazione, la parità di trattamento e il riconoscimento dei diritti fondamentali al di là delle frontiere nazionali.Ma la fraternità dei popoli e degli Stati, sia tra quelli che sono attualmente membri che tra quelli che non lo sono, sia reciprocamente tra loro, è ben lungi dall’essere una realtà. Realizzare la «fraternità politica» in Europa, trarre tutte le conseguenze dalla «prossimità» reciproca dei popoli e degli Stati, compirebbe il passaggio dall’Unione Europea alla com-unione europea. Si tratta di realizzare il progetto dialogico, ospitale, conviviale e fraterno di un’Europa autenticamente e liberamente unita e al contempo autenticamente e consapevolmente molteplice. Un’Europa ove si compongono, senza fusioni o egemonie, strutture, territori, funzioni, identità, culture, nella coscienza della reciproca appartenenza e della reciproca responsabilità.Mettere in moto la fraternità politica, dimostrare che essa è la chiave per ritrovare il senso ultimo della costruzione europea e per fornire risposte originali alle molteplici sfide poste dall’ampliamento del suo territorio, dalla rivisitazione delle sue strutture, dalla riqualificazione delle sue funzioni: questo il compito che attende l’Europa ed i suoi Comuni.
Il Comune, un cantiere europeo
I Comuni, oggi, hanno molto da dire all’Europa, e il loro compito può essere assai più incisivo che quello di dare l’esempio, pur importante, di «virtù pubbliche» nella gestione locale.Tornare alle radici del modello comunale vuol dire, in fondo, scoprire le potenzialità politiche della dimensione della fraternità, che si dipana dalla «prossimità» della vita cittadina alle «prossimità» più ampie della regione, del livello statale, dell’Europa, del mondo. La fraternità politica del Comune trova nelle diverse declinazioni della «prossimità», cioè nel reciproco «farsi vicini» dei cittadini e delle istituzioni la sua specifica concretizzazione. E ciò è denso di significati per l’Unione Europea, che si costituisce al contempo come unione di Stati e unione di popoliLa ricchezza e l’articolazione della vita nelle comunità locali costituisce un patrimonio politico-amministrativo prezioso, che va ben al di là della dimensione comunale. Il modello di partecipazione nella politica urbana è fatto di molti canali, istituzionali ed informali, e di molti soggetti, organizzati o spontanei. Più di altre istituzioni, i Comuni già oggi assicurano in modo sistematico forme di devoluzione di poteri e di decentramento per meglio servire i cittadini; promuovono spesso una stretta collaborazione tra il settore pubblico, privato ed il volontariato. Nei Comuni si è sviluppata in modo quasi naturale una rete di relazioni di cooperazione che vanno al di là dei rapporti “verticali” di gerarchia. I Comuni costituiscono perciò altrettanti luoghi di maturazione di un nuovo progetto di Europa, che consenta non solo di consolidare i rapporti tra Stati e Governi, ma soprattutto di fare passi avanti decisivi verso l’unità dei cittadini e dei popoli. I Comuni europei, in molti casi, già oggi testimoniano l’impegno delle autonomie e dei poteri locali per l’approfondimento della democrazia in Europa, e per «dare un’anima» al processo di integrazione e a quello di allargamento.Essi stessi hanno elaborato originali soluzioni ed esperienze istituzionali, che si inseriscono costruttivamente nel dibattito sul futuro dell’Unione Europea, in vista di una più ripartizione più flessibile e cooperativa delle funzioni e delle responsabilità tra i diversi livelli di governo in Europa.Ai Comuni spetta un posto centrale nella ricerca di un metodo più democratico, partecipativo ed efficace di elaborazione e gestione delle politiche in Europa. Ed il ruolo dei Comuni europei è centrale, specie dopo l’affermazione, nel Trattato di Maastricht, della cittadinanza europea come dimensione di appartenenza e di partecipazione. I Comuni dell’Unione, quelli dei Paesi dell’adesione e quelli che, più in generale, si riconoscono nel progetto europeo, rappresentano la “prima linea” per affrontare con coraggio, apertura, senso di responsabilità e solidarietà i problemi che inevitabilmente sorgeranno nel processo di ricomposizione dell’unità europea, nel rispetto ed anzi nella piena valorizzazione delle sue varie culture ed identità.
1. Funzioni e responsabilità dei livelli di governo in Europa
La complessità insita nel disegno e nella struttura dell’Europa ci sprona, partendo proprio dalla quotidianità della vita nei nostri Comuni, a ripensare la politica, sia essa locale, regionale, nazionale, internazionale.Interessanti prospettive si sono già aperte dopo l’adozione da parte del Consiglio d’Europa e l’apertura alla ratifica della Carta europea delle Autonomie Locali. Il 2001 è l’anno in cui le istituzioni europee ed i Governi degli Stati membri dell’Unione Europea hanno avviato una nuova riflessione sull’avvenire dell’Europa (che si basa sulla «Dichiarazione sul futuro dell’Unione» allegata al Trattato di Nizza). Tra i punti su cui si sollecita un’ampia discussione a livello di società civile, forze politiche, ambienti culturali ed accademici, figura quello della ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri e, implicitamente, la loro articolazione interna (regioni, province, dipartimenti, comuni, comunità). Inoltre, sempre nel 2001, è stato lanciato il dibattito sulla «governance», e cioè sul “metodo di governo”, sulla cooperazione costruttiva tra tutti i livelli di potere e di responsabilità in Europa.I principi-guida di questa riflessione sono la sussidiarietà, il pluralismo istituzionale e la legittimità democratica. Sono punti programmatici emersi già in occasione del Trattato di Maastricht, e che pero’ non hanno ancora trovato una realizzazione nelle concrete politiche europee. In ogni caso, la sussidiarietà non puo’ essere ridotta ad una fredda “divisione del lavoro” tra apparati di governo nazionali e apparati sovranazionali. Il principio di sussidiarietà non si può nemmeno ridurre ad un elenco di funzioni da assegnare a questo o a quel livello istituzionale; esso comporta, invece, un radicale cambiamento di etica politico-istituzionale, più che la ridefinizione di architetture istituzionali.La sussidiarietà non discende dall’alto come concessione, né nasce dal basso solo come domanda. Essa sorge e si sviluppa solo grazie ad una tessitura paziente di rapporti, ad un dialogo costruttivo tra tutte le istituzioni. Essa richiede inoltre il riconoscimento della diversità istituzionale, cioè della pluralità delle organizzazioni territoriali e funzionali e della loro pari dignità. In questo contesto, la potenzialità della dimensione locale è essenziale. La sussidiarietà autentica (dalle persone e dalle comunità alle istituzioni mondiali) è un principio strutturale, insito nelle dinamica politica tra persone e comunità. La sussidiarietà deve essere attiva, dinamica, cooperativa, e non deve creare compartimenti stagni. L’idea che si fa strada è che lo spazio politico abbia una continuità, ben al di là del principio di sussidiarietà, da un livello di comunità ad un livello di mondialità. Un’azione politica consapevole deve indirizzarsi verso la ricerca di soluzioni istituzionali che consentano, come scriveva Robert Musil, di “essere abitanti del villaggio, ma anche abitanti del mondo.”Il grande tema della “condivisione di sovranità” in Europa non riguarda perciò soltanto i Governi nazionali nei loro rapporti con le istituzioni sovranazionali ed internazionali, ma anche la capacità degli Stati nazionali di condividere al loro interno questa stessa sovranità su base territoriale e/o funzionale. In questo senso, processo di integrazione europea e federalismo decentralizzante, inteso cioè come affermazione del ruolo “originario” delle autonomie non sono in contraddizione, ma sono parte di uno stesso dinamismo dello spazio politico in Europa. Un nuovo assetto istituzionale, in tutto lo spazio politico europeo, puo’ essere costruito solo se è sussidiario, funzionale, relazionale, costruttivo, responsabile, aperto, e fraterno.
PROPOSTA
L’esperienza comunale insegna che la sussidiarietà deve essere completata con il principio di «prossimità»: le decisioni devono essere assunte il più vicino possibile ai cittadini. Su questo elemento, oltre che su quello della libera partecipazione elettorale, si basa la sottolineatura della legittimità democratica. Ma questa prossimità ha anche un altro valore: quello che fa si che i cittadini si sentano reciprocamente «vicini» tra loro, e che sentano «vicini» i problemi, le angustie, le difficoltà di tutti gli uomini che abitano la terra. Accanto ad una sussidiarietà «verticale» occorre esplorare le dimensioni della sussidiarietà «orizzontale». Anche i Comuni tra di loro, infatti, sono reciprocamente «prossimi», e possono contribuire a risolvere i problemi l’uno dell’altro, ad esempio attraverso rapporti stabiliti e continuativi più profondi e articolati rispetto ai semplici «gemellaggi». Più che gemellaggi, occorrerebbe prospettare autentiche e durature «strutture di fraternità» o di «dialogo strutturato» tra i poteri locali, sia all’interno dell’Unione Europea che degli organismi internazionali attuali. Tra i vari strumenti, si potrebbe prevedere un “Portale” internet multilingue che sia un «luogo» di scambio di informazioni tra comunità locali e che renda concreta la prospettiva della «prossimità» fra comunità locali. L’iniziativa potrebbe essere appoggiata dall’Unione Europea (nel contesto di iniziative simili al programma URBAN II) e dal Consiglio d’Europa, nell’ambito del Congresso delle Autorità Locali e Regioni d’Europa. Inoltre i Comuni potrebbero affrontare in modo costruttivo il tema delle migrazioni, che certamente pongono problemi complessi, ma possono anche essere un’occasione di crescita socio-culturale delle comunità locali. Si tratterebbe, in particolare, di costruire, sulla concreta e spesso difficile esperienza delle migrazioni nelle città, progetti ed iniziative. Ad esempio, il rapporto delle città di origine con le comunità stabilite in altre città europee, mediante intese tra i Comuni, potrebbe essere un “modo” per appoggiare e sostenere le diversità culturali. In particolare, il rapporto con le città dalle quali provengono immigrati dai Paesi dell’Est Europeo può essere un campo di impegno concreto fondante per una effettiva fraternità.
2. La ricomposizione socio-culturale europea
Nel processo di allargamento dell’Unione Europea si dimentica spesso che l’identità europea è espressa dalle persone e dalle comunità dell’Europa centro-orientale e mediterranea al pari dei cittadini e delle società dei Paesi dell’Europa occidentale. In questo importante cambiamento non solo delle dimensioni («quantità»), ma soprattutto della dimensione («qualità») dell’Europa, è bene ricordare la frase programmatica di Jean Monnet: «Noi non coalizziamo degli Stati, noi uniamo degli uomini.» A parte le precauzioni economiche, emerge sempre più spesso, nei discorsi sull’ampliamento dell’ Europa, la preoccupazione per l’accresciuta diversità storico-politica e socio-culturale tra gli Stati che si riconoscono già o intendono aderire nel progetto europeo. C’è la tendenza a collocarsi e a collocare gli «altri» sulla «carta geografica mentale», a fare della «meta-geografia». Il paradosso è che un continente inizia e finisce esattamente dove “pensiamo” che inizi e finisca. Ma la visione dei confini tra le culture cambia perché gli uomini cambiano, si incontrano, talvolta si scontrano, ma sempre interagiscono in modo nuovo, diverso, imprevedibile.Più che di confini, occorrerebbe parlare di fini. Se l’Europa vuole davvero crescere e non solo allargarsi, deve sapersi ridiscutere. L’ingresso di nuovi membri nell’Unione europea non è un fatto quantitativo, ma qualitativo. Processo e progetto cambiano, senza però snaturarsi, ogni volta che vi è una nuova adesione. Altrimenti non si ha dialogo autentico: il processo si riduce ad un insieme di pandette comportamentali; il progetto diventa semplicemente l’imposizione di decisioni prese in un altro tempo, da altri attori, per un altro contesto. Se si vuole adottare un atteggiamento realistico e politicamente impegnato nei riguardi della ricomposizione europea, occorre essere consapevoli che nessuna finalità di integrazione può giustificare l’omologazione. Oggi l’Europa si trova a dover cambiare se vuole davvero crescere (e non solo allargarsi); e, inversamente, a dover crescere, cioè a “maturare” in tutte le sue dimensioni per poter davvero cambiare. Quale può essere il ruolo dei Comuni per un’Europa più consapevole? I due obiettivi fondamentali che i Comuni ritengono prioritari nella nuova fase sono, da un lato, appoggiare e sostenere le specificità, le diversità culturali, non in quanto elementi disgreganti, di irriducibile diversità, ma come ricchezza propria dell’Europa; dall’altro, fare in modo che ognuno possa scegliere, senza condizionamenti economici, politici, culturali, di vivere e lavorare nella propria terra senza che nessuno si senta «periferico». Sono queste le due condizioni perché ognuno possa riconoscersi pienamente anche in un patria più grande, possa avvertire, senza cadere né nel particolarismo chiuso né nell’universalismo astratto, due o più appartenenze: quella alla propria realtà locale, quella alla più ampia identità regionale e nazionale, quella alla dimensione europea e mondiale. La «città locale» e la «città mondiale» sono due dimensioni indivisibili e complementari della politicità. In questo senso, è giusto dire che il «locale» è una progettualità universale «situata» nello spazio e nel tempo.
PROPOSTA
Dovrebbe perciò essere naturale per i Comuni riflettere, nella loro programmazione di iniziative culturali, la loro appartenenza ad una dimensione più vasta, nella quale essi possono giocare, come soggetti politici legittimati nel proprio ordine, la loro specifica ed insostituibile identità culturale, in una chiave di dono reciproco e non di sola rivendicazione di autonomia. A questo fine, dovrebbero essere privilegiate le iniziative che sottolineano al contempo il radicamento locale e gli elementi di reciproca influenza con altri contesti ed altre culture. Un possibile campo di impegno potrebbe essere la valorizzazione del ricchissimo patrimonio linguistico-culturale europeo, che spesso trova proprio all’interno dei Comuni un’espressione concreta nella diversa provenienza nazionale dei residenti. In questo contesto, potrebbero essere considerate, come una pista da percorrere, le iniziative assunte nell’ambito dell’ anno europeo delle lingue (2001).
3. Un’Europa della solidarietà e della responsabilità
La ricostruzione di una grande “società europea” non può prescindere da regole e parametri comuni, da un senso di responsabilità. Ma, ben oltre la responsabilità, c’è la solidarietà. Nuove disparità economiche, sociali e tecnologiche potrebbero crearsi tra le varie regioni di un’Europa ampliata.La parola d’ordine dell’Europa, ove le disomogeneità sono crescenti, dovrà essere condivisione: non di sole risorse economiche, ma soprattutto di conoscenze, esperienze, patrimonio umano e culturale.Solo un’Unione fraterna potrà consentire di coniugare la responsabilità con la solidarietà.E’ in corso di radicale ripensamento anche la componente “regionale” (e locale) delle politiche comunitarie. E’ già stata avviata la discussione sul secondo rapporto sulle politiche di coesione in Europa, presentato dalla Commissione Europea nel gennaio 2001, e intitolato «Unità dell’Europa, solidarietà dei popoli, diversità dei territori». La Commissione Europea propone una nuova visione della coesione economica e sociale delle regioni e di territori in Europa. Per il futuro, l’impostazione delle politiche di coesione avrà una natura più tematica («orizzontale») che regionalistica in senso geografico («verticale»). In questa prospettiva, occorre rivalutare il ruolo delle autonomie territoriali non solo in funzione di poteri “recettori” più o meno attivi di finanziamenti, quanto come poteri “cogestori” delle politiche di coesione, partecipanti attivi al processo politico europeo. Tutto ciò evitando un’eccessiva frammentazione e dispersione. Il contesto operativo deve comprendere un quadro d’azione per uno sviluppo urbano durevole; l’inserimento dei programmi di sviluppo urbano nei programmi di sviluppo regionale, con particolare riferimento al recupero urbano, l’aiuto allo sviluppo economico, il miglioramento dell’ambiente urbano, la lotta contro l’esclusione sociale; la promozione dell’’innovazione, delle nuove tecnologie, del miglioramento dei trasporti e dell’ambiente urbano; lo scambio di esperienze e buone pratiche nelle iniziative urbane; la valutazione sul modo in cui la programmazione urbana si inserisce nella programmazione delle regioni in ritardo di sviluppo; la valutazione della qualità della vita urbana.
PROPOSTA
Il ruolo «costruttivo» delle realtà locali, oltre che in favore di uno sviluppo non solo economico, ma anche sociale e culturale radicato sul territorio, consiste nel sostenere l’apertura delle comunità locali alle esigenze ed alle necessità non solo degli altri popoli europei, ma anche delle regioni più povere del pianeta. I comuni europei, d’altra parte, sono già in molti casi attori di iniziative di «cooperazione decentrata» con i Paesi in via di sviluppo, attuate secondo diverse modalità e ricorrendo a diverse risorse disponibili.Questo patrimonio di esperienze non va disperso, ma valorizzato in chiave di un «benchmarking» della solidarietà e di «buone pratiche» di cooperazione tra le collettività locali in Europa. Inoltre i Comuni potrebbero inserire stabilmente nella propria programmazione economica una componente di «investimento solidale», diretto sia ai Comuni degli Stati candidati ad entrare nell’Unione che ad altri municipi. Nell’attuazione delle iniziative di cooperazione allo sviluppo, può essere assai utile consultare e coinvolgere attivamente le comunità etniche residenti nel territorio comunale che provengono dalle aree verso le quali si indirizzano le iniziative.
4. Costruire l’Europa partendo dai cittadini
I Comuni, per la loro stessa struttura organizzativa, possono costituire un esempio per un’Europa più democratica, più aperta e più «partecipata». I poteri locali possono in particolare contribuire all’unità europea con un processo «bottom up», che parte cioè dalla base e coinvolge in modo fattivo i cittadini. Si tratta di disegnare un nuovo «spazio politico europeo», inteso come un continuum che parte dalle persone e dalle comunità e giunge, attraverso un fittissimo intreccio di legami, sino alle istituzioni di Bruxelles.Un primo passo per una riforma delle strutture europee consiste nel considerare al centro del processo politico l’idea e la prassi del “servizio” ai cittadini, più che il prestigio e il potere delle singole istituzioni, e ridisegnare tutte le politiche europee a questo fine. I cittadini desiderano che i servizi siano assicurati e le attività siano svolte, quale che sia l’autorità politica che vi provvede e indipendentemente dall’ampiezza della sua legittimazione elettorale. Una seconda direzione consiste nell’inserire nelle politiche europee formule istituzionali che rendano compatibile un sistema d’integrazione basato sui diritti individuali (come quello che emerge dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) con un modello in cui anche i diritti delle comunità sono rilevanti. Non è infatti la forza dei diversi che minaccia la democrazia, ma la loro debolezza. Il riconoscimento delle differenze presuppone che le istituzioni politiche non siano “cieche” nei confronti delle specificità culturali. In questo contesto, le Carte e le Convenzioni relative alle “minoranze” (linguistiche e culturali), strumenti senz’altro validi e indispensabili per la convivenza pacifica, andrebbero riformulate su nuove basi. La convivenza non basta, come non basta l’integrazione. C’è bisogno della convivialità, di riconoscere cioè il diritto delle specificità culturali di abitare sotto lo stesso tetto istituzionale senza dover abbandonare la propria identità. Inoltre, mentre la sussidiarietà consente di portare la dimensione della democrazia locale nelle istituzioni europee e mondiali, la dimensione comunitaria porta l’Europa, e cioè le diverse sue componenti linguistiche, culturali, associative, all’interno della democrazia locale.
PROPOSTA
In questo contesto, occorre andare oltre l’accezione giuridica del concetto di cittadinanza. Nei Comuni europei si vive già oggi una situazione di “cittadinanza allargata”, che comprende anche stranieri, immigrati, comunità etniche. Il diritto di voto alle elezioni municipali per tutti i residenti europei è una realtà, come pure la partecipazione alle elezioni per il Parlamento Europeo. Questo schema, che va perfezionato per garantire un accesso effettivo in condizioni di uguaglianza a tutti i servizi e a tutte le iniziative della città, può fornire una pista utile anche per la dimensione politica europea in senso più ampio. Un possibile strada da percorrere è l’adozione, da parte dei Comuni, oltre che degli Statuti e delle Carte dei servizi, anche di una «Carta comunale dei diritti e dei doveri delle persone e delle comunità» residenti nel territorio comunale o residenti all’estero (per lavoro, studio, ecc). L’esperienza delle comunità «straniere», spesso difficile e dolorosa, di una «doppia patria» e di una «doppia identità» può oggi divenire patrimonio comune ed esperienza di cui far tesoro in Europa anche nella prospettiva dell’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi attualmente candidati e dei possibili, connessi fenomeni migratori.D’altra parte, pur rimanendo centrale il riferimento allo stato per l’identità nazionale, non si può negare che la nuova «costellazione politica post-nazionale» può trovare nella democrazia locale un fattore di integrazione e non di ulteriore disgregazione. Più in generale, la dimensione urbana della politica consente di arricchire l’idea di un’Europa-delle-nazioni con quella, più ampia ed aperta, di un’Europa-in-relazione. E proprio l’impegno, non sempre mantenuto, a vivere l’unità nella molteplicità, e la molteplicità nell’unità, in tutte le forme politiche, è lo specifico, il filo conduttore del percorso dell’Europa; ed è anche il dono, semplice ma prezioso, che essa può dare al mondo.
Lug 20, 2001 | Non categorizzato
Si inserisce nel dibattito pubblico sul futuro dell'Europa lanciato dalla Dichiarazione sull'avvenire dell'Unione approvata al Consiglio Europeo di Nizza. L'iniziativa è del Presidente della Camera dei Comuni presso il Consiglio d'Europa, il sindaco di Innsbruck, dr. Herwig Van Staa in collaborazione con il Movimento dell'unità, espressione di impegno politico-culturale del Movimento dei Focolari.
Un contributo all'Europa dei cittadini. L'impegno delle autonomie e dei poteri locali per l'approfondimento della democrazia in Europa e “dare un'anima” al processo di integrazione e di allargamento
Verrà elaborato un “Appello per l’unità europea”
Intervengono:
Romano Prodi – Presidente della Commissione Europea
Thomas Klestil – Presidente della Repubblica Austriaca
Jos Chabert – Presidente della Camera delle Regioni alla UE
Chiara Lubich – Fondatrice del Movimento dei Focolari
Situata nel crocevia tra est ed ovest, tra nord e sud, Innsbruck rivela anche nel nome “città situata al ponte sull’Inn” una vocazione al dialogo. È una città dove facilmente si costruiscono ponti da uomo a uomo, tra culture diverse. Innsbruck è il luogo appropriato per ospitare una Conferenza di sindaci europei di varie convinzioni politiche, ma animati tutti dalla comune volontà di contribuire all’unità europea.
Giu 30, 2001 | Parola di Vita
Santa Teresa di Lisieux diceva che è meglio parlare con Dio che parlare di Dio, perché nelle conversazioni con gli altri si può sempre introdurre l'amor proprio. Ha ragione. Ma per dare testimonianza agli altri noi dobbiamo anche parlare di Dio. Tuttavia, certamente, dobbiamo anzitutto amare Dio con quell'amore che è la base della vita cristiana e che si estrinseca nella preghiera, nell'attuazione della sua volontà. Parlare, dunque, con i prossimi sì, ma parlare anzitutto con Dio. Parlare come? Con la semplice preghiera di ogni cristiano; ma anche verificando, durante il giorno, attraverso qualche brevissima preghiera, se il nostro cuore è veramente in Lui, se è Lui l'ideale della nostra vita; se lo mettiamo veramente al primo posto nel nostro cuore; se lo amiamo sinceramente con tutti noi stessi. Intendo accennare a quelle preghiere-lampo che sono consigliate specialmente a chi sta in mezzo al mondo e non ha tempo di pregare a lungo. Sono come frecce d'amore che partono dal nostro cuore verso Dio, come dardi di fuoco: le cosiddette giaculatorie, che etimologicamente significano appunto dardi, frecce. Esse servono magnificamente a raddrizzare il cuore verso Dio.
Nella liturgia eucaristica di questo mese, nella Chiesa cattolica, si trova un versetto che può essere considerato una giaculatoria, bellissimo, che fa al caso nostro. Esso dice:
«Sei tu, Signore, l'unico mio bene»
Proviamo a ripeterlo durante il giorno, specie quando i vari attaccamenti vorrebbero trascinare il nostro cuore su cose, su persone o su noi stessi: 'Sei tu, Signore, l'unico mio bene' – diciamo -, non quella cosa, non quella persona, non me stesso; tu sei l'unico mio bene, non altro”. Proviamo a ripeterlo quando l'agitazione, o la fretta, ci vorrebbe far compiere male la volontà di Dio del presente: “'Sei tu, Signore, l'unico mio bene' e, quindi, è mio bene la tua volontà, non quello che voglio io”. Quando la curiosità, l'amor proprio o le mille attrazioni del mondo stessero per incrinare il nostro rapporto con Dio, diciamogli con tutto il cuore: “'Sei tu, Signore, l'unico mio bene', e non ciò di cui la mia avidità, il mio orgoglio vorrebbero saziarsi!”
Proviamo dunque a ripeterlo spesso. Proviamo a ripeterlo quando qualche ombra offusca la nostra anima o quando il dolore bussa alla porta. Sarà un modo per prepararci all'incontro con Lui.
«Sei tu, Signore, l'unico mio bene»
Queste semplici parole ci aiuteranno ad aver fiducia in Lui, ci alleneranno a convivere con l'Amore e così, sempre più uniti a Dio e pieni di Lui, porremo e riporremo le basi del nostro essere vero, fatto a sua immagine. In tal modo tutto fluirà bene nella vita, nel senso giusto. Allora sì che quando apriremo bocca le nostre non saranno parole, o, peggio, chiacchiere, ma dardi anch'esse, capaci di aprire i cuori, perché accolgano Gesù.
Proviamo dunque a cogliere ogni occasione per pronunciare quelle semplici parole e, alla fine della giornata, avremo certamente la conferma che esse sono state una medicina per l'anima, un tonico e hanno fatto in modo – come direbbe santa Caterina da Siena – che il nostro cuore sia lampada diritta.
Chiara Lubich
Giu 29, 2001 | Cultura
Post G8. Globalizzazione, divario tra ricchi e poveri. Una sfida non solo per i G 8. “Il pianeta al bivio” Il primo a lanciare la globalizzazione è stato Gesù quando ha detto: “Che tutti siano uno”. Non solo: ci ha fatto capaci di quell’amore che ha la forza di ricomporre la famiglia umana nell’unità e nella diversità. Sono disseminati nel mondo molti ‘laboratori’ di questa ‘umanità nuova’. Che sia giunta l’ora di proiettarli su scala mondiale? Una cultura alternativa: “La cultura del dare”. Un progetto in atto: L’economia di Comunione. “Conosciamo i gravissimi dislivelli che pesano sull’umanità: ci sono nazioni che puntano sul consumismo, su’avere anziché sull’essere, con tutte le sue conseguenze ed altre, popolatissime, attanagliate da bisogni angoscianti. Bisogna diffondere la cultura del dare. E’ la cultura del Vangelo: “Date e vi sarà dato. Vi sarà versata in grembo una misura piena, pigiata e traboccante”(Lc 6,38). Questa la parola che potrebbe offrire un rimedio, ridare un equilibrio al nostro pianeta. Se tutti vivessero il Vangelo i grandi problemi nel mondo non ci sarebbero, perché l’eterno Padre interviene e le promesse di Gesù si realizzano: “Date e vi sarà dato”. E’ quanto sperimentiamo quotidianamente. (Chiara Lubich) Da dove nasce la cultura del dare Sin dagli inizi del Movimento dei Focolari, nel 1943, a Trento la scoperta evangelica del comandamento nuovo “amatevi come io ho amato voi” (cf. Gv 13,34) ha fatto scaturire la comunione dei beni spirituali e materiali. Da allora la comunione dei beni è diventata prassi vigente nel Movimento, sull’esempio delle prime comunità cristiane. E’ questo un fatto di enorme importanza e gravido di conseguenze. Quella comunione dei cuori e dei beni, gioiello delle prime comunità cristiane, eco degli insegnamenti di Gesù lungo la vita della Chiesa aveva perso di forza, ma era stata “custodita” nei monasteri e nei conventi e in qualche comunità di laici. Ora in quella piccola comunità nascente a Trento riesplodeva come inizio di un suo recupero per la “massa”, per il popolo cristiano, con tutti i frutti e le conseguenze che matureranno più tardi. Chiara e le sue prime compagne sin d’allora ne avevano coscienza: “Noi – dice Chiara – avevamo la mira di attuare la comunione dei beni nel massimo raggio possibile per risolvere il problema sociale di Trento”. “Pensavo: ‘vi sono due, tre località dove ci sono i poveri… andiamo lì, portiamo il nostro, lo dividiamo con loro…’ Un ragionamento tanto semplice, e cioè: noi abbiamo di più, loro hanno di meno; alzeremo il loro livello di vita in modo tale da arrivare tutti ad una certa uguaglianza.” Ed è da allora che ha inizio l’esperienza, “sorprendente” , “del date e vi sarà dato” evangelico: “in piena guerra, viveri, vestiario, medicinali arrivano con insolita abbondanza”. Nasce la convinzione che nel Vangelo vissuto vi è la risposta “in nuce” ad ogni problema individuale e sociale. La cultura del dare e l’economia di comunione I soggetti produttivi dell’Economia di Comunione – imprenditori e lavoratori e altre figure aziendali – sono ispirati a principi radicati in una cultura diversa da quella prevalente oggi nella pratica e nella teoria economica. Questa “cultura” possiamo definirla “cultura del dare” proprio in antitesi con la “cultura dell’avere”. Il dare economico è espressione del “darsi” sul piano dell’ “essere”. In altre parole, rivela una concezione antropologica non individualista né collettivista, ma di comunione. Una cultura del dare, che quindi non va considerata come una forma di filantropia o di assistenzialismo, virtù entrambe individualistiche. L’essenza stessa della persona è essere “comunione”. Di conseguenza, non ogni dare, non ogni atto di dare crea la cultura del dare. C’è un “dare” che è contaminato dalla voglia di potere sull’altro, che cerca il dominio e addirittura l’oppressione di singoli e popoli. E’ un “dare” solo apparente. C’è un “dare” che cerca soddisfazione e compiacimento nell’atto stesso di dare. In fondo è espressione egoistica di sé e in genere viene percepito, da chi riceve, come un’offesa, un’umiliazione. C’è anche un “dare” interessato, utilitaristico, presente in certe tendenze attuali del neo-liberalismo che, in fondo, cerca sempre il proprio tornaconto… E infine c’è un “dare” che noi cristiani chiamiamo “evangelico”. Questo “dare” si apre all’altro nel rispetto della sua dignità e suscita anche a livello di gestione delle aziende l’esperienza del “date e vi sarà dato” evangelico. Si manifesta a volte come un introito inatteso o nella genialità di una soluzione tecnica innovativa o nell’idea di un nuovo prodotto vincente. (Vera Araujo – sociologa) (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa
Dibattito al 10° convegno teologico-pastorale promosso dai Focolari, alla presenza di 1.300 sacerdoti di 44 Paesi I movimenti, un dono per l’annuncio Un ruolo profetico di fronte alle sfide dell’unità dei cristiani e della globalizzazione Chiara Lubich: siamo al servizio della nuova evangelizzazione. Piero Coda: con i movimenti la Chiesa del futuro. Andrea Riccardi: così la diversità è ricchezza – Lorenzo Rosoli – I movimenti ecclesiali? “Rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria”. Chiara Lubich, fondatrice e guida del Movimento dei Focolari, attinge alla Redemptoris missio e ad altri capisaldi del magistero di Giovanni Paolo II per tracciare l’identikit dei movimenti e delle comunità ecclesiali di fronte alle sfide dell’unità dei cristiani e della globalizzazione. Sfide storiche, rilanciate dalla cronaca di queste settimane, fra la visita del Papa in Ucraina – col suo forte appello ecumenico – e l’imminente G8 di Genova. Si inserisce in questo orizzonte il 10° Convegno teologico-pastorale internazionale promosso dal Movimento dei Focolari sul tema Unità dei cristiani e globalizzazione. Sfide dell’oggi e risposte suscitate dallo Spirito, che ha chiamato a Castelgandolfo oltre 1.300 sacerdoti – cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani – di 44 Paesi, assieme ai cardinali Dario Castrillon Hoyos e James Francis Stafford (destinatario di un messaggio del Papa del quale abbiamo parlato ieri). Un orizzonte che Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha identificato secondo le coordinate di una “svolta antropologica e storica” che pone la nuova evangelizzazione “tra un mondo globale e tante identità che si chiudono”. L’evangelizzazione sarà possibile – ha rilanciato il simposio – solo con l’apertura e la comunione, innanzitutto all’interno della Chiesa, tra la dimensione istituzionale e la carismatica e tra movimenti e nuove comunità. Nel suo intervento al Centro internazionale dei Focolari, Chiara Lubich ha riletto l’esperienza del suo movimento alla luce delle istanze della nuova evangelizzazione. “Nuova nel suo ardore se, man mano che procede, cresce in chi la promuove l’unione con Dio. Nuova nei metodi se attuata dall’intero popolo di Dio. Nuova nelle sue espressioni, se sarà conforme a ciò che lo Spirito suggerisce”. Annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini; formare comunità ecclesiali mature; rievangelizzare se stessi nella Parola e nella pratica dell’amore; donare la Parola annunciata e quella vissuta… “Non esiste più una società cristiana, esiste la globalizzazione con un intreccio di popoli e culture”, prosegue la Lubich citando ancora Wojtyla. In questo quadro l’evangelizzazione percorre le vie dei “dialoghi” additati dal Vaticano II: dentro la Chiesa cattolica, fra i cristiani, con le altre religioni, con gli uomini di buona volontà. “Il Movimento dei Focolari ha da 40 anni aperto tutti e quattro i dialoghi”. Presente in 182 Paesi, esso “abbraccia tutti gli stati di vita, dai bambini ai vescovi”. Ma “è soprattutto di nostri laici che il Signore si serve, come di strumenti per la nuova evangelizzazione”. I nuovi movimenti ecclesiali “costituiscono una preparazione e una recezione carismatica e dinamica, in qualche caso anche eccedente e profetica, del progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, ma in realtà ancora in via di definizione teologica e pastorale”. Una ecclesiologia di comunione che le nuove realtà ecclesiali attuano “in forma vitale”. È uno dei passi cruciali dell’intervento del teologo Piero Coda dal titolo Doni gerarchici e doni carismatici in comunione per l’edificazione e la missione della Chiesa. Una comunione – rivelata in modo sorprendente dal Giubileo – “con cui lo Spirito ringiovanisce la Chiesa e la guida nella missione”. Siamo di fronte a “un’icona appena abbozzata del futuro della Chiesa” che ha nel volto laicale uno dei tratti peculiari e decisivi: dentro la Chiesa ma anche rispetto al mondo, alla società e alla cultura d’oggi. È dunque duplice – ha spiegato Andrea Riccardi – la responsabilità dei movimenti nell’evangelizzazione, tra comunione nella Chiesa e comunicazione del Vangelo nel mondo contemporaneo. “Questi ultimi anni hanno fatto crescere la coscienza che la diversità vissuta nell’amore è una ricchezza per la Chiesa e per ogni carisma”, ha detto Riccardi. “I movimenti non sono piccole chiese ambiziose di estendersi a una vasta Chiesa. Ma sono doni che, lungo la storia del ‘900, il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Ogni movimento ha interpretato un aspetto della vocazione della Chiesa stessa in maniera originale: ma esso rinvia per sua natura alla Chiesa. Le tante vocazioni sacerdotali che nascono nei movimenti sono un dono alla Chiesa. La testimonianza della carità verso tutti, ma soprattutto verso i più poveri, è un dono alla Chiesa per il mondo intero. La comunicazione del Vangelo che è alla base della strutturazione missionaria del carisma dei movimenti, è un dono alla Chiesa”. Lorenzo Rosoli (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa
“Sviluppo della comunione tra i Movimenti ecclesiali, fra loro e con i Pastori della Chiesa, dal 1998 ad oggi”
Cari amici, sono molto contento di partecipare alla prima giornata di questo convegno promosso dal Movimento dei Focolari. Sono contento di incontrare tanti sacerdoti di tutte le parti del mondo, che sono legati al carisma del Movimento dei Focolari o ad altri Movimenti. Questi sacerdoti hanno in comune l’esperienza che rappresenta il titolo di questo convegno: i movimenti ecclesiali e la nuova evangelizzazione. Infatti coloro che sono riuniti qui -voi, cari amici- avete un contributo importante da dare proprio sulla frontiera più decisiva della vita della Chiesa nel 2000: la comunicazione del Vangelo. Sono contento di essere qui per vedervi negli occhi e per conoscere la vostra esperienza. Infatti i Movimenti e la nuove Comunità sentono sempre di più, non solo il bisogno di collaborare, ma di vedersi e essere insieme. Una settimana fa, Chiara era a Roma, a Trastevere, nella basilica di Santa Maria, dove si riunisce ogni sera la Comunità di Sant’Egidio per pregare. La preghiera è la prima opera per la Comunità in tutto il mondo, da Maputo in Mozambico a San Salvador in Centro America. E’ la prima opera in una Comunità che lavora in tanti luoghi del mondo con i più poveri, quelli che il mondo mette ai margini. La visita di Chiara rientra in una consuetudine di fraternità per cui ci si sente uniti nella diversità dei carismi, ci si sostiene, ci si accompagna. E’ lo stesso spirito con cui sono qui con voi. Perché quello che un Movimento vive è anche dell’altro Movimento. Questo avviene non per un vincolo esteriore, ma per quella comunione profonda che sta divenendo la realtà del nostro vivere. Così scopriamo che stiamo camminando nella stessa direzione, con lo stesso orientamento, anche se le vie sembrano o sono diverse. La direzione del nostro camminare viene dal fondo del nostro carisma stesso: comunicare il Vangelo. L’evangelizzazione, come si dice. I Movimenti normalmente nascono da questo: dalla condivisione di quella compassione di Gesù per le folle, stanche e malate, –come si legge nel Vangelo- per cui inviò i suoi apostoli a predicare ovunque il Vangelo del regno. I Movimenti nascono, in tempi diversi della storia, dal dono di quella passione del Signore per la gente che si fa evangelizzazione. Infatti comunicare il Vangelo è il primo gesto che compie la Comunità, che compiono gli apostoli, dopo l’effusione dello Spirito Santo in quella Pentecoste di Gerusalemme. Nel secolo trascorso, il Novecento, l’evangelizzazione è tornata ad essere la dimensione principale della vita della Chiesa non solo nei paesi mai raggiunti dal Vangelo, ma anche nelle terre di antica cristianità. Infatti si sono smarrite quelle istituzioni e quei quadri sociali attraverso cui si comunicava la fede, mentre ogni generazione che sale rappresenta una grande occasione per trovare insieme le parole del Vangelo e per aprire la propria vita alla presenza del Signore. Per questo, cari amici, oggi è giusto parlare di nuova evangelizzazione, proprio dopo questa prima Pentecoste del 2000. Ci troviamo in un mondo tanto nuovo, globalizzato, senza frontiere, ma dove riemergono –purtroppo- tanti muri. Tra il Novecento e il nuovo secolo è avvenuta una svolta antropologica e storica, per cui oggi l’evangelizzazione si pone in un modo nuovo: tra un mondo globale e tante identità che si chiudono. Ma non siamo qui solo ad affrontare un discorso sull’evangelizzazione, ma anche a chiederci quale responsabilità hanno i movimenti nell’evangelizzazione? Nel nostro programma sono poste in testa le parole di Giovanni Paolo II in quella indimenticabile Pentecoste del 1998. Le ripeto: “Più volte ho avuto modo di sottolineare come nella Chiesa non ci sia contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i movimenti sono un’espressione significativa. Ambedue sono coessenziali alla costituzione divina della Chiesa…”. Non si tratta di un discorso teorico, ma di una realtà della nostra vita. Si tratta di una realtà che riguarda da vicino il modo di essere della Chiesa, che tocca da vicino l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Del resto questa è anche la realtà a cui sono particolarmente sensibili i sacerdoti che, per il loro ministero, sono a contatto –vorrei dire- con la dimensione istituzionale ma anche –come voi- sentono molto da vicino quella carismatica. I sacerdoti partecipi dei carismi dei movimenti – mi sembra- quasi vivono in una zona di frontiera che può essere, allo stesso tempo, un terreno di ricchi innesti e scambi, ma forse di qualche difficoltà. Non sempre nella lunga storia della Chiesa è stato tutto così luminoso e chiaro come in quella giornata di Pentecoste del 1998 in piazza San Pietro. Quella giornata rappresenta un punto di arrivo e di grande chiarezza teologica ed ecclesiale. Infatti credo che dobbiamo far conoscere ancora di più quel discorso del papa e riflettere su di esso. Del resto il problema del rapporto tra la dimensione istituzionale e quella carismatica è antico come la lunga storia della Chiesa. Sono tentato di percorrere –e la mia visione di storico mi spinge in questo senso- la lunga storia della Chiesa per cogliere la dinamica di questo rapporto: quasi la vicenda della coessenzialità. Ma non è il mio tema oggi. Tuttavia vorrei citarvi un episodio lontano della storia della Chiesa occidentale. Nella vita di San Benedetto, all’origine di quel grande movimento carismatico di uomini e di donne, che è stato il monachesimo occidentale (cuore dell’evangelizzazione di tanta parte dell’Europa medievale), si trova un episodio narrato da Gregorio Magno. Si tratta di una storia, dietro a cui si trova nascosta una grave difficoltà di Benedetto con un prete dal nome Fiorenzo. Un grande carismatico e un prete… Questo prete Fiorenzo prese a invidiare la buona reputazione di Benedetto e il fatto che molti venivano attratti da lui. L’invidia giunse a un punto tale che il prete gli inviò un pane avvelenato; ma l’uomo di Dio si salvò. Allora il prete prese a diffamarlo e tentarlo. Ma Dio protesse il padre dei monaci. E’ un episodio di tensione tra un ministro ordinato che non tollera il carisma sino a volerlo sopprimere e un grande carismatico. Tale tensione può avvenire anche in senso diverso, quando un’esperienza carismatica si sente, in modo prepotente e poco filiale, come se fosse tutta la Chiesa, quasi in maniera messianica… quando un’esperienza carismatica non sente con amore e venerazione non solo la dimensione ministeriale, ma anche il fatto che nella casa di Dio ci sono molte dimore (e quindi tanti modi diversi di vivere la stessa fede). Infatti vivere la coessenzialità tra la dimensione istituzionale e quella carismatica vuol dire comprendere che tutti siamo figli nella Chiesa. Dice un antico adagio armeno del quinto secolo: “Riconosciamo come nostro Padre il sacro Vangelo e come Madre la Chiesa apostolica universale”. Un grande carismatico del 1200, Francesco d’Assisi, ha espressioni molto significative a questo proposito. Sono espressioni rivelatrici della genuinità evangelica del suo carisma. Tommaso da Celano racconta, nella sua Vita del santo, che il Papa di quei tempi difficili aveva fatto un sogno prima di incontrare Francesco: “Aveva sognato infatti che la basilica del Laterano stava per crollare e che un religioso, piccolo e spregevole, la puntellava con le sue spalle perché non cadesse: ‘Ecco, pensò: questi è colui che con l’azione e la parola sosterrà la Chiesa di Cristo”. E’ un’immagine stupenda della coessenzialità del carisma con l’istituzione: quel piccolo uomo reggeva l’immensa basilica che rischiava di crollare, senza uscire dalla sua piccolezza. E’ un’immagine evocativa di una coessenzialità che diviene originale corresponsabilità. Non posso dilungarmi su questo aspetto di Francesco grande carismatico e grande figlio della Chiesa, come si vede dal suo rapporto con il papa, dalla scelta di non predicare mai contro la volontà del vescovo del luogo. Ma vorrei farvi risentire –almeno questo- alcune parole del suo testamento, scritto nello stesso anno della sua morte, il 1226: “Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri.” Il carisma francescano coinvolse talmente il mondo cristiano del Duecento spingendosi anche al di là delle frontiere della cristianità, come nell’incontro con l’islam al di fuori di una logica di contrapposizione violenta. Allora –come sappiamo- il rapporto tra islam e cristianesimo era rappresentato dal binomio guerra santa-crociata: ma Francesco percorse un’altra strada. C’è una forza comunicativa del Vangelo che si manifesta nel carisma francescano. Questa forza comunicativa del carisma vive l’unità con le istituzioni e i ministeri della Chiesa di quel tempo. Dove c’è questa unità, dove c’è questa comunione, si moltiplica la forza attrattiva e comunicativa del Vangelo del Signore. Non si tratta di un piano o di un progetto pastorale, ma di qualcosa che viene dal profondo di una Chiesa viva che respira a pieni polmoni nella larghezza di tutte le due dimensioni, senza mortificarne alcuna. La coessenzialità veramente vissuta tra carisma e istituzione riveste l’intera Chiesa di una sua forza particolare. E’ un punto su cui vorrei concludere fra un poco (non troppo) la mia riflessione. Il carisma di un laico, Francesco (che poi fu ordinato diacono), coinvolse non pochi sacerdoti, come si vede dai primi compagni di Francesco e poi nello sviluppo del movimento francescano stesso. Fin dall’inizio ci sono preti attorno all’umile Francesco e nel suo movimento. Ma soprattutto quel carisma portò il Vangelo al di là dei quadri stanchi e feudali della vita ecclesiastica nel cuore della società; e lo portò pure al di là della cristianità. E’ un’immagine che dobbiamo avere ben presente, mentre entriamo nel nuovo secolo. E’ un’immagine che era esplicita nel discorso di Giovanni Paolo II alla veglia di Pentecoste del 1998: quando carisma e istituzione vivono l’unità, la libertà nel servizio del Vangelo, l’amore nella differenza, si manifesta pienamente una forza di salvezza nella vita della Chiesa, delle comunità, dei singoli. E’ quello che mi dicono tanti sacerdoti, che sono partecipi del carisma di un movimento: si sentono più preti, più capaci di comunicare il Vangelo, più forti nella fede e più al servizio del popolo di Dio. Ma è quanto dicono vescovi e sacerdoti, che pure sono esterni al carisma di un movimento, quando lo vedono vivere bene nella Chiesa: il Vangelo parla in maniera eloquente. Ogni carisma ha la sua storia. Ognuno ha il suo valore. Sono come figli della Chiesa: tutti hanno un valore –proprio come i figli- nonostante siano più o meno sviluppati. E’ la storia degli ultimi tre/quattro anni in cui ci siamo incontrati tra tante nuove comunità e tanti nuovi movimenti: quello di scoprire il valore, anche se diverso, di ciascuna realtà suscitata dallo Spirito. Ogni movimento ha la sua storia e il suo modo di vivere la coessenzialità, la presenza dei sacerdoti nel movimento carismatico e altro. Ognuno rappresenta una ricchezza per noi tutti. Per questo la dinamica del futuro di ogni movimento non è la clericalizzazione: non si è più ecclesiali, se si è più clericalizzati. Un carisma non è un’ondata che, bene o male, deve essere assorbita. C’è un fluttuare del carisma nella vita, libero e unito, in comunione forte con la dimensione istituzionale e con altri carismi, che rappresenta una grande ricchezza. Il problema dei movimenti non è la loro clericalizzazione e il loro assorbimento. Un esempio antico di questo problema si trova nella Regola di San Benedetto (che è l’espressione del grande carisma monastico in Occidente, che ebbe una profonda forza di evangelizzazione e di umanizzazione sino dal primo Medio Evo). La Regola di san Benedetto insiste in due capitoli sui sacerdoti che volessero entrare in monastero e condividere il carisma monastico e sull’ordinazione presbiterale dei monaci. Nel primo caso, quello dei preti che entrano in monastero, Benedetto stabilisce: “Se qualcuno appartenente all’ordine sacerdotale chiedesse di essere accolto in monastero, non gli si acconsenta troppo presto. Se tuttavia insistesse assolutamente in simile richiesta, sappia che egli dovrà osservare tutta quanta la disciplina della Regola…”. Il problema è che il sacerdote, che entra a far parte della comunità, sappia che dovrà vivere approfonditamente il carisma, rappresentato dalla Regola. Vengono prima la Regola e l’abate: si vuole evitare che, perché prete, l’ordinato si consideri al di là del carisma stesso. Ma all’interno del movimento benedettino ci sono giovani che possono venire ordinati. Allora la Regola stabilisce: Se un abate volesse che gli venga ordinato un monaco o un diacono, scelga fra i suoi chi sia degno di esercitare l’ufficio sacerdotale. L’ordinato però eviti la vanità e la superbia, né ardisca fare se non ciò che gli viene comandato dall’abate, conscio di dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola… Quel posto che gli spetta secondo l’ingresso in monastero, lo conservi sempre, eccetto che l’ufficio dell’altare…” L’ordinato resta partecipe del carisma (conservi il suo posto di sempre!), e anzi –proprio perché prete- sappia di dover vivere il carisma ancora di più (“dover sottostare più degli altri alla disciplina della Regola”). Un sacerdote –questo è lo spirito della Regola- non deve essere meno sacerdote e, anzi perché sacerdote, deve quasi vivere di più il carisma. Il monastero non si clericalizza, ma vive, per i monaci laici e per i monaci chierici, attorno al carisma, rappresentato dalla Regola e dall’abate. Sentiamo come questa storia, quella del rapporto tra le due dimensioni della vita della Chiesa, quella dei sacerdoti nei movimenti carismatici, non sia solo la nostra, ma affondi le sue radici addirittura nel primo millennio. Risolvere in maniera unilaterale –cioè fuori dalla comunione- questa storia può significare la clericalizzazione dei movimenti oppure, d’altra parte, la loro assolutizzazione nella Chiesa, quasi in un senso di superiorità su altre esperienze o sulla stesso ministero ordinato. A questo proposito non posso non richiamare le parole del Testamento di Francesco d’Assisi: “E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri”. Dopo il Concilio Vaticano II e con Giovanni Paolo II, questa storia è giunta a un particolare punto di maturazione nella coscienza ecclesiale. Ma questa coscienza, come è stata espressa dal papa per la Pentecoste del 1998, rappresenta anche una grande responsabilità per noi tutti in questo mondo contemporaneo. In che senso si può parlare di una responsabilità? Almeno, io credo sotto due aspetti, quello della comunione nella Chiesa e quello della comunicazione del Vangelo nel mondo contemporaneo. Una lettura politica e esterna alla vita della Chiesa ha parlato talvolta quasi di una rivalità tra i movimenti, proprio a partire dalla diversità. L’esperienza che noi facciamo di dialogo, di unità, di mutuo sostegno tra i movimenti, ci porta a dire il contrario. Non vedo tutto questo, se non in qualche angolo di immaturità, talvolta iniziale di qualche esperienza. Infatti la diversità non motiva la rivalità, ma anzi aiuta ciascuno a vedere –proprio nel confronto da fratelli- la specificità del proprio carisma. Il carisma, per restare tale, non può pretendere di volere informare a sé tutta la Chiesa in maniera messianica: è quell’assolutizzazione del carisma che fa torto al dono stesso che si è ricevuto. Del resto l’ultima stagione della vita della Chiesa, proprio a partire dalla Pentecoste del 1998, è stata profondamente segnata da una crescita di collaborazione e di simpatia tra i movimenti. Lo dico perché ho partecipato a questa stagione, assieme a Chiara Lubich, che si è sviluppata in tanti incontri tra i responsabili dei movimenti stessi. Ma questa stagione ha significato anche una crescita di amicizia nelle situazioni concrete tra la gente dei diversi movimenti. Questa amicizia era viva già da anni. Mi diceva un’amica di Sant’Egidio, che lavora in un ospedale, come in una situazione di grande tensione e disumanità, si fosse ritrovata spontaneamente con altri colleghi che erano legati a vari movimenti. Gli appuntamenti della vita, la testimonianza del Vangelo e della carità, avvicinano quelli che partecipano a spiritualità differenti. La stessa esperienza si verifica nell’incontro con vescovi, parroci, sacerdoti che fanno parte di un movimento o che si riferiscono alla spiritualità di una nuova comunità. Una spiritualità vissuta educa al gusto per i diversi carismi nella vita della Chiesa, proprio nel senso di una accoglienza e di uno stimolo di carisma anche che non appartengono alla propria spiritualità. Ho tante esperienze concrete a questo proposito, che mi confermano in questa consapevolezza. Ho visto sacerdoti del Movimento dei Focolari impegnati a far sì che nascesse una Comunità di Sant’Egidio lì dov’erano e a desiderarlo in maniera molto fattiva, come se si trattasse dell’esperienza a cui loro stessi erano legati. Perché ? Mi sembra che questi ultimi anni abbiano fatto crescere la coscienza che la diversità vissuta nell’amore è una ricchezza per la Chiesa e per ogni carisma. E’ una coscienza diffusa tra i Movimenti, ma anche tra quelli che non partecipano direttamente alla spiritualità e alla vita dei movimenti. Si sono visti tanti incontri, tante giornate, animate dai movimenti ecclesiali e imperniate sull’unità tra di loro, che hanno fatto la gioia di numerosi vescovi. In alcune situazioni sono stati i vescovi stessi a promuoverle. Non si tratta di un coordinamento o di un consiglio dei movimenti. Ma è qualcosa di più profondo. Infatti a che giova il coordinamento, se non c’è una coscienza profonda di unità, se non c’è un amore alla base che rende consapevoli come l’uno sia indispensabile all’altro? I coordinamenti, le consulte, i consigli non sono una novità nell’organizzazione della Chiesa. Ma qui c’è qualcosa di più: è la vera recezione del Concilio, come Giovanni Paolo II l’ha proposta: quella di una Chiesa, ricca di carismi, orgogliosa dei doni dello Spirito Santo, ma unita e coesa nell’amore. I movimenti non sono piccole Chiese, ambiziose di estendersi a una vasta Chiesa. Ma sono doni che, lungo la storia del Novecento, il Signore ha fatto alla sua Chiesa. Ogni movimento ha interpretato un aspetto della vocazione della Chiesa stessa in una maniera originale: ma esso rinvia per sua natura alla Chiesa. Le tante vocazioni sacerdotali, che nascono nei movimenti, sono un dono alla Chiesa. La testimonianza della carità verso tutti, ma soprattutto verso i più poveri, è un dono alla Chiesa per il mondo intero. La comunicazione del Vangelo che è alla base della strutturazione missionaria del carisma dei movimenti, è un dono alla Chiesa. Infatti i movimenti sono –per utilizzare il termine di Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte-, scuole di comunione. La stessa vita comune, la partecipazione alla missione, tra sacerdoti e laici nello spirito di un carisma, è una scuola di comunione. Se i movimenti nascono da un carisma e da un fondatore, si muovono –almeno per quelli del Novecento- nella dinamica stessa della comunione. E’ quella comunione che fonda metodi originali, semplici, diretti, di comunicare il Vangelo o di viverlo in maniera attrattiva per tante donne e uomini, nostri contemporanei. Si manifesta una pienezza di vita che abbraccia i movimenti grandi e i meno grandi, le istituzioni della Chiesa, i ministri ordinati, le Chiese locali, le parrocchie, sino alle comunità religiose. Questa pienezza di vita è eloquente comunicativa di per sé: parla della bellezza della vita cristiana, comunica il suo fondamento evangelico, coinvolge gli altri. L’unità tra i movimenti non è la costruzione di un fronte tra le forze più attive della Chiesa. Non è così. Sarebbe riduttivo. Essere uniti non vuol dire parlare la stessa lingua e fare le stesse cose. E’ un’idea riduttiva di unità. C’è una comunione profonda, che diventa solidarietà nella diversità e che rappresenta una ricchezza nella missione. Dopo la Pentecoste, quella prima Pentecoste di Gerusalemme, gli apostoli non si misero a parlare la stessa lingua, ma li udivano parlare in lingue diverse. Eppure la loro unità era profonda, come si manifestò poi con il discorso di Pietro. Dopo la Pentecoste del 1998, dopo il discorso di Giovanni Paolo II, non siamo chiamati a fare un fronte unico: sarebbe troppo poco. Ma siamo chiamati a amarci in profondità, a sentirci una cosa sola, a cogliere che abbiamo una missione in comune nel mondo, a sostenerci, ma anche a essere noi stessi, per fare della nostra libertà un’occasione per vivere secondo lo Spirito, per servire il Vangelo, per edificare la Chiesa. Dico a ogni nostra comunità, specie a quelle più isolate e in luoghi difficili del mondo: non sarete mai sole! Sono stato nel marzo di quest’anno in Mozambico, dove ho visitato una buona parte delle 50 e più comunità che sono sorte in quel paese, dopo la pace, firmata a Sant’Egidio e mediata da noi, tra il governo e la guerriglia che ha posto fine ad una guerra durata 15 anni e che ha prodotto un milione di morti. A tutti ho detto: non sarete mai soli! Ma mi sono reso conto che anche un movimento non è mai solo: è bello scoprire che qualcuno cammina accanto a sé. Gesù mandò i suoi discepoli due a due nel primo viaggio missionario dei Vangeli. Gregorio Magno si chiede perché Gesù non avesse mandato i discepoli da soli. La sua risposta è che, camminando l’uno a fianco dell’altro, comunicando insieme il Vangelo, guarendo gli ammalati, potessero testimoniare allo stesso tempo l’amore scambievole tra di loro. Da quell’amore li avrebbero riconosciuti. In quell’amore tra i due, c’era Gesù con loro. La loro missione fu efficace, tanto che Gesù vedeva Satana cadere dal cielo e li accolse, al loro ritorno, pieno di gioia. Quei due discepoli sono il segno di un cammino che stiamo facendo insieme tra diversi movimenti: la missione che compiamo, lungo strade differenti, in modi differenti, sarà più attrattiva e convincente, perché si fonda sull’unità. E’ quell’unità che avrà anche la capacità di abbattere tante barriere, di allargare le frontiere, di costruire ponti invece che muri, nella vita della Chiesa e nel mondo. Penso all’ecumenismo, in cui molti movimenti hanno un compito particolare. Penso al dialogo della vita, con gli altri mondi religiosi. Penso alla guerra o alle situazioni di tensioni. L’esperienza che noi possiamo fare, dopo la Pentecoste del 1998, è quella di vivere in maniera profonda l’unità. Scriveva un grande vescovo del II secolo, Ignazio di Antiochia, morto martire: “…quando infatti vi riunite, crollano le forze di Satana e i suoi flagelli si dissolvono nella concordia che vi insegna la fede”. C’è una forza di amore che nasce dall’unità vissuta nel profondo. Sono convinto che sta nascendo una nuova forza capace di far cadere tanti muri e divisioni: perché uno spostamento anche di pochi centimetri in profondità provoca sulla superficie un terremoto. E’ quella scossa profonda di amore e di Vangelo di cui il nostro mondo contemporaneo ha bisogno. ANDREA RICCARDI (altro…)
Giu 27, 2001 | Chiesa, Cultura
1. Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II dà parola, con gioia e gratitudine, alla sorpresa venuta dal Giubileo (cf. n. 12): la bellezza di un “volto pluriforme della Chiesa”, “un inizio, un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara” (n. 40). Aspetto rilevante e peculiare di quest’icona è stata senz’altro l’epifania della comunione tra i “doni gerarchici” e i “doni carismatici”, con cui lo Spirito ringiovanisce la Chiesa e la guida nella missione. Mio compito è dire qualcosa su questa comunione, sul suo significato teologico, sulla sua attualità storica, sulla sua portata pratica: questi, i tre momenti in cui articolo la presente conversazione, soffermandomi soprattutto sul primo. Il significato teologico 2. Che nella vita della Chiesa, sin dall’origine, i carismi abbiano giocato un ruolo singolare e insostituibile, è un dato di fatto più che una deduzione teologica. Il nuovo è che col Concilio Vaticano II la Chiesa, “sotto la guida dello Spirito, ha riscoperto come costitutiva di sé la dimensione carismatica”. Giungendo a dire, con Giovanni Paolo II, che la dimensione sacramentale-gerarchica e quella carismatica “sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù”. Si tratta di un evento di autocoscienza ecclesiale, di un contributo fondamentale alla formulazione concreta della risposta che il Concilio ha inteso dare alla domanda: Chiesa, che cosa dici di te stessa ? Ma come va inteso, teologicamente, il significato della co-essenzialità e complementarietà di doni gerarchici e doni carismatici ? Si noti, per iniziare, che la dizione scelta – doni gerarchici e doni carismatici – riprende il testo di Lumen gentium 4, che attribuisce all’azione dell’unico Spirito di Cristo tanto gli uni quanto gli altri. Con ciò si vuole escludere in partenza ogni riduttiva e fuorviante contrapposizione tra istituzione e carisma. Non solo i carismi ma anche il ministero ordinato, infatti, sono doni dello Spirito, con natura e finalità diverse, è vero, ma sgorganti da un unico principio e indirizzati a un unico fine: rendere attuale la presenza di Cristo nella storia, facendo crescere l’umanità sino alla sua piena maturità, nell’attesa fervente della sua parusia alla fine dei tempi. Come, dunque, in questa prospettiva, doni gerarchici e doni carismatici sono entrambi costitutivi della Chiesa? E quale il loro rapporto? L’ecclesiologia trinitaria del Vaticano II, da un lato, e la fioritura dei nuovi movimenti e comunità ecclesiali (o di esperienze ad essi assimilabili), dall’altro, hanno offerto alla teologia, negli ultimi anni, un quadro nuovo per impostare con pertinenza, in fedeltà alla Parola della rivelazione e nel solco della tradizione, la questione. Mi limito a richiamare tre contributi di peso, che aprono la strada a ulteriori, promettenti approfondimenti. Il primo è quello offerto dal Card. J. Ratzinger al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali del ’98. In esso, attraverso un’analisi storico-teologica attenta, soprattutto, alla missione della Chiesa nel suo effettivo realizzarsi, Ratzinger individua nell’apostolicità la collocazione teologica dei doni carismatici e dei movimenti di rinnovamento ecclesiale cui essi danno origine lungo il corso della storia. La tesi centrale è che la traditio dell’evento Cristo, realizzata nella sua forma originaria dagli apostoli, si rinnova e si continua non solo attraverso la struttura gerarchica e sacramentale della Chiesa – che assicura: 1) il legame con la sua origine e norma cristologica, 2) la guida autorevole della comunità locale, 3) l’interpretazione autentica della rivelazione -, ma anche attraverso l’imprevedibile irruzione dello Spirito che suscita sempre nuove forme di adesione, esperienza ed espansione del vangelo, caratterizzate dalla radicalità e dall’universalità. Questa interpretazione – sottolinea Ratzinger – implica un ampliamento e un approfondimento del concetto di apostolicità, e una comprensione specifica del ministero petrino non solo come centro e principio visibile della comunione tra le Chiese locali, ma anche come garante del raggio universale di azione dei grandi carismi. Un secondo e complementare contributo di carattere sistematico, attento alla forma trinitaria della Chiesa e alla sua vocazione alla santità, è quello offerto da H. Urs von Balthasar, e, sulla sua scia, sviluppato da altri Autori. Semplificando al massimo, secondo von Balthasar si può dire che attraverso i doni gerarchici lo Spirito Santo garantisce oggettivamente la presenza di Gesù che si dona, attraverso la Parola e i Sacramenti, alla Chiesa generandola e nutrendola come sua sposa (cf. Ef 5,25ss). Si pensi, per un esempio che rappresenta al contempo il culmine di tale donarsi di Gesù alla Chiesa in tutta la sua realtà oggettiva, all’Eucaristia. Attraverso i doni carismatici, d’altro canto, lo stesso Spirito dischiude e plasma la soggettività dei credenti – e cioè le loro menti e i loro cuori, la loro intera esistenza – perché si facciano capaci di accogliere, penetrare e portare a piena efficacia di vita e di santità il dono oggettivo di Cristo che ricevono dalla Parola e dai Sacramenti. Essi vengono donati, normalmente, a una singola persona, ma in modo tale da “essere condivisi da altri e così vengono conservati nel tempo come una preziosa e viva eredità, che genera una particolare affinità spirituale tra le persone”, a vantaggio della Chiesa intera (ChL 24). Proprio per questo il carisma oggettivo e quello soggettivo – così li definisce von Balthasar – sono co-essenziali nell’identità e nella missione della Chiesa: in quanto esprimono e realizzano il rapporto sponsale che sussiste tra Cristo e la sua Chiesa. Cristo continua a donarsi nello Spirito alla Chiesa sua Sposa attraverso la Parola e i Sacramenti custoditi e amministrati dai pastori; e la Chiesa Sposa, plasmata dai doni carismatici che riceve dallo stesso Spirito, accoglie, genera e fa crescere in sé il Cristo che le è donato dalla Parola e dai Sacramenti, vivendo il comandamento nuovo dell’amore, vincolo della perfezione (cf. Col 3,14; Rm 13,10). Nel primo caso, il dono è garantito oggettivamente dalla fedeltà di Cristo alla Chiesa (per cui, ad esempio, Gesù Eucaristia si fa presente indipendentemente dalla santità soggettiva del ministro); nel secondo, lo Spirito Santo è ricevuto e accolto solo quando chi è chiamato liberamente e gratuitamente a ricevere il carisma soggettivo, a viverlo e a trasmetterlo, si dispone a lasciarsi configurare esistenzialmente a Cristo crocifisso, unico mediatore dell’effusione dello Spirito Santo alla Chiesa. Il carisma oggettivo e quello soggettivo, perciò, sono costitutivamente indirizzati l’uno verso l’altro. I membri della gerarchia, configurati sacramentalmente a Cristo, sono chiamati a essere nel ministero segni e strumenti di Lui – agiscono in persona Christi Capitis Ecclesiae (cf PO 2; LG 10) -, perché Egli possa donare Sé alla Chiesa sua sposa. In quanto pastori, hanno anche la grazia e il dovere di accogliere con gratitudine e di discernere la genuinità dei doni carismatici, nonché di regolarne l’ordinato uso a seconda del loro specifico ambito di competenza: quello della Chiesa universale per il Papa, e quello della Chiesa particolare per i Vescovi uniti in comunione collegiale con Lui (cf. LG 12). Inoltre, in quanto membri della Chiesa sposa, i ministri ordinati sono chiamati a vivere con quella soggettività aperta e accogliente che riceve in sé il dono di Cristo, e possono quindi essere aiutati dai doni carismatici a vivere il loro essere cristiani, e anche ad esercitare il loro ministero, secondo il cuore e la mente di Cristo. Come ha detto Giovanni Paolo II, “i carismi dello Spirito sempre creano delle affinità, destinate a essere per ciascuno il sostegno per il suo compito oggettivo nella Chiesa”. Da parte loro, “i veri carismi – sono sempre parole del Papa – non possono che tendere all’incontro con Cristo nei Sacramenti”, e a vivere una “fiduciosa obbedienza ai Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Successore di Pietro”, secondo la parola di Gesù: “chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16). Non bisogna infine dimenticare quella tipicità dei doni carismatici che K. Rahner ha brillantemente identificato come l’elemento “dinamico” della Chiesa: “Il fattore carismatico – egli scrive, illustrando la dialettica positiva di crescita e di apertura alla novità dello Spirito che così s’instaura nella vita ecclesiale – è essenzialmente nuovo e sempre sorprendente. Naturalmente si trova anche in una misteriosa continuità interiore con quanto nella Chiesa precede, si inserisce nel suo Spirito e nel quadro dell’elemento istituzionale. È tuttavia nuovo e inderivabile, e al primo sguardo non si vede subito che tutto rimane nell’insieme della Chiesa. Spesso, infatti, è attraverso il nuovo che ci si accorge come il quadro della Chiesa fin dall’inizio sia più ampio di quanto non si fosse supposto fino a quel determinato momento”. Von Balthasar, dal canto suo, sottolinea che un autentico carisma è come un lampo dal cielo, destinato a illuminare un punto unico e originale della volontà di Dio per la Chiesa in un dato tempo, manifestando un nuovo tipo di conformità a Cristo ispirato dallo Spirito Santo, e pertanto una nuova illustrazione della Rivelazione. Dinamicità e novità sono dunque caratteristiche peculiari dei doni carismatici “sia come espressione dell’assoluta libertà dello Spirito che li elargisce, sia come risposta alle esigenze molteplici della storia della Chiesa” (così la Christifideles laici, 24), contribuendo in modo determinante – come insegna la Dei Verbum – al tendere incessante della Chiesa verso la pienezza della verità divina, “finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (n. 8). L’attualità storica della riscoperta dei doni carismatici 3. Quest’ultima annotazione circa la dinamicità, la novità e la tensione escatologica che i doni carismatici imprimono alla vita della Chiesa introduce nel secondo momento della nostra riflessione: l’attualità della riscoperta dei doni carismatici nell’ecclesiologia e nella vita della Chiesa, in quest’alba del terzo millennio. Alla luce dei precedenti pensieri e soprattutto della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, viene spontaneo domandarsi: perché proprio oggi questa riscoperta? Perché oggi proprio questi carismi? In altre parole: che cosa lo Spirito vuol dire alla Chiesa (cf. Ap 2,7), non solo attraverso i singoli carismi, ma anche grazie a questa nuova e imprevedibile stagione carismatica con le peculiari caratteristiche che, pur nella pluriformità dei doni, sembrano contraddistinguerla ? Evidentemente, non è facile rispondere a queste domande, e potrebbe addirittura sembrare pretenzioso, o per lo meno ozioso, il volersele porre. Penso invece che non solo sia possibile, ma anche importante tentare almeno un inizio di risposta. Mi sembra si possa dire che c’è qualcosa di provvidenziale nel fatto che proprio oggi la Chiesa riscopra la sua costitutiva dimensione carismatica e che proprio questi carismi lo Spirito Santo oggi le abbia dispensato. Forse, tutto questo accade perché la Chiesa possa diventare più pienamente, in questo decisivo trapasso epocale della storia umana, ciò che è per grazia e per vocazione: “sacramento in Cristo, e cioè segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (LG 1). In una parola: segno testimoniale credibile e strumento efficace e concreto dell’amore di Dio e della comunione universale. Se ciò che lo Spirito ha voluto dire alla Chiesa, attraverso il Concilio Vaticano II, è l’idea-forza della comunione, allora si comprende perché – come ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – sia indispensabile una spiritualità della comunione che faccia sì che la Chiesa diventi esistenzialmente ciò che già è sacramentalmente. In forme diverse eppure convergenti, mi pare si possa dire che le nuove realtà ecclesiali sono sorte per attuare in forma vitale l’ecclesiologia di comunione proposta dal magistero del Vaticano II. Ognuna di queste realtà guardi dentro di sé, alla sua scaturigine e alle forme storico-pratiche in cui si è realizzata, e riconoscerà questa ispirazione. I nuovi movimenti ecclesiali e le esperienze affini costituiscono una preparazione e una recezione carismatica e dinamica, in qualche caso anche eccedente e profetica, del progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, ma in realtà ancora in via di definizione teologica e pastorale. Una simile interpretazione – è opportuno sottolinearlo – rompe decisamente con il pregiudizio, purtroppo ancora diffuso, secondo cui le nuove realtà ecclesiali sono espressioni di un “conservatorismo” o “neo-classicismo” cattolico in controtendenza rispetto alla spinta innovatrice e riformatrice del Vaticano II. Non nego che qualche intemperanza, ingenuità e immaturità abbiano potuto offrire il destro a questo pregiudizio. Ma complessivamente, esaminando da vicino e senza preconcetti le ispirazioni, i frutti e le intenzionalità dei singoli carismi si può arguire che ci troviamo di fronte a provvidenziali e robuste premesse spirituali per un balzo in avanti, nell’attuazione della figura e della missione della Chiesa, conforme alla linea di marcia disegnata dal Vaticano II. Anche se si tratta soltanto di abbozzo e promessa, affidati alla nostra fedele e creativa responsabilità. Mi limito a richiamare tre tratti (certamente altri se ne potrebbero menzionare) di quest’icona appena abbozzata del futuro della Chiesa che lo Spirito sembra preparare. Il primo concerne la forma della comunione come realizzativa e manifestativa dell’essere Chiesa. Il Card. Ratzinger ha sottolineato che la tripartizione, nel popolo di Dio, tra sacerdoti, religiosi e laici è fondamentale: e come tale il Concilio la ripropone. Ma – e questo è decisivo! – in un quadro ecclesiologico nuovo: quello, appunto, della fondamentale eguale dignità cristiana e della comunione e reciproca comunicazione. Ora, mi domando: abbiamo sperimentato e riflettuto a sufficienza su che cosa può significare spostare il punto di vista dall’identità dei singoli stati di vita e vocazioni al punto di vista della relazione tra essi? Quando Sant’Agostino scoprì, nel De Trinitate, che la grammatica della relazione è almeno altrettanto essenziale quanto la grammatica della sostanza per dire il Dio di Gesù Cristo, la teologia e la filosofia hanno conosciuto una decisiva svolta. Non sarà che qualcosa di analogo, a livello ecclesiologico, può e deve venire dall’esperienza della comunione ? Non è un caso che le nuove realtà ecclesiali abbiano risposto ante litteram a quella che Giovanni Paolo II ha definito “la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo”: “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” (n. 43). In questa prospettiva, il Card. Ratzinger ha sottolineato che il vescovo (e io aggiungerei anche, per la sua parte, il presbitero) “pur rimanendo rappresentante del sacramento e quindi responsabile della presenza della fede, sarà meno monarca, più fratello in una scuola dove vi è un solo Maestro e un solo Padre. Penso che l’espressione ‘episcopato monarchico’ per molto tempo sia stata intesa in un modo scorretto”. Un secondo, decisivo tratto della Chiesa del futuro concerne il suo volto laicale. Il che non significa mettere in ombra la sua struttura sacramentale e gerarchica, anzi: significa piuttosto metterne in rilievo l’autentico significato e servizio. Quello di offrire i mezzi di grazia necessari perché Cristo, principio e forma dell’umanità nuova, faccia dei cristiani il sale e il lievito del mondo. E’ in questa essenziale finalità che si gioca il rapporto tra doni gerarchici e doni carismatici a favore del popolo di Dio, per il bene e la salvezza di tutti gli uomini. L’immagine di Chiesa conosciuta dal secondo millennio – in una forma che nella sua sostanza è certo stata provvidenziale per quei tempi – è stata caratterizzata, soprattutto in Occidente, come hanno mostrato gli studi di Y. Congar e H. De Lubac, dalla dimensione gerarchica, istituzionale, normativa e razionale. L’ecclesiologia del Vaticano II e la recezione carismatica dei movimenti ecclesiali, senza negare la precedente, richiama alla dimensione comunionale, misterica, pneumatica e agapica. Questo fatto è decisivo non solo per la vita ad intra della comunità ecclesiale – chiamata a convertirsi all’esperienza trinitaria dei rapporti tra i suoi membri -, ma anche per il suo proporsi ad extra nella società e nella cultura. Si tratta di realizzare una specie di rivoluzione copernicana, in cui un laicato impegnato seriamente nel cammino della vocazione universale alla santità, grazie alla matura comunione con i pastori della Chiesa nell’esperienza adulta e gioiosa della Parola e dei divini Misteri, possa testimoniare Cristo, salvezza e pienezza dell’umano, nella molteplicità complessa degli aeropaghi del nostro tempo. E ciò esige – ecco un terzo tratto – che emerga nella Chiesa il principio della sua identità mariana. Non può non colpire e far riflettere il fatto che il profilarsi della Chiesa comunione e del compito della nuova evangelizzazione, e insieme l’originale stagione carismatica che ha incorniciato il Vaticano II, sia stata preparata e seguita dal costante rendersi presente di Maria: attraverso la proclamazione dei dogmi dell’Immacolata e dell’Assunta, le molteplici sue apparizioni, i grandi carismi a forte impronta mariana. Tutto ciò, penso, racchiude una precisa indicazione ecclesiologica, che l’esperienza dei movimenti ecclesiali può aiutare a decifrare e a incarnare. Guardare a Maria, anzi far rivivere Maria in noi – direbbe il Montfort – affinché in noi e fra noi viva il Cristo Risorto, non significa forse primato dell’essere sul fare, dell’affidamento al disegno divino sul progetto umano, della vita sull’idea, del servizio sulle tante forme palesi o occulte di potere, della Parola di Dio e della contemplazione sull’azione che solo da esse può promanare, della misericordia sul giudizio, dell’attesa paziente sulla fretta dell’imposizione, dello sguardo universale sulla cura asfittica del particolare, dell’amore reciproco come premessa di ogni altra premessa per essere ed essere riconosciuti discepoli di Cristo su ogni altra cosa ? Non è forse la Chiesa del fiat e del magnificat, dello stabat ai piedi del Crocifisso e del fuoco di Pentecoste quella che il mondo, e noi stessi, attendiamo ? Conseguenze pratiche nella vita e nella missione della Chiesa 4. Mi avvio alla conclusione, accennando soltanto al terzo momento preannunciato: quali conseguenze pratiche dalla riscoperta della co-essenzialità di doni gerarchici e carismatici nella vita e nella missione della Chiesa ? La risposta la dobbiamo lasciare allo Spirito Santo, ma al tempo stesso la dobbiamo accogliere attraverso un rigoroso e profetico discernimento comunitario, che veda attori tutti i membri della Chiesa in ascolto dei segni dei tempi. La Pentecoste ’98, l’evento giubilare, le indicazioni sapienti, lungimiranti e incisive di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte indicano la strada. Mi contento di esplicitare quelle che mi sembrano tre direzioni in cui va esercitata oggi, da parte della Chiesa, una disarmata apertura nei confronti dell’azione dello Spirito Santo: perché la grazia grande che ci è stata posta tra le mani – con ciò intendo non solo i carismi dei singoli movimenti, ma anche l’icona di Chiesa proposta dal Vaticano II e stagliata, pur coi suoi limiti, dal Giubileo -, possa attuarsi secondo i modi, i tempi e i fini pensati dall’amore di Dio. La prima apertura è quella cui sono chiamati i pastori nei confronti dei nuovi carismi. Apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito vuol dire alla Chiesa, al suo modo profondo e insieme concreto di essere e di agire oggi: per evitare di strumentalizzare le nuove energie, secondo schemi di comprensione ecclesiale e di azione pastorale preconfezionati, e perciò irrimediabilmente non all’altezza dell’oggi di Dio. La seconda apertura è quella cui sono chiamate le nuove realtà ecclesiali le une verso le altre e, prima di tutto, verso la Chiesa di cui sono figlie. Se il novum dello Spirito è oggi la comunione come principio e fine della nuova evangelizzazione, sarebbe peccato imperdonabile se esse per prime non la vivessero in quella forma cui ciascuna è originalmente chiamata. Ritrovare sé fuori di sé: questa è la legge della comunione e della missione. La terza apertura è quella all’azione dello Spirito che spinge – se ve ne fosse bisogno, e ce n’è bisogno – a distogliere tutti lo sguardo da noi stessi, dalle nostre belle esperienze e dai nostri acuti problemi, così come dai nostri ideali e dalle nostre frustrazioni di Chiesa, per “prendere il largo” (Lc 5,4), per “uscire anche noi dall’accampamento e andare verso di Lui”, che “per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città” (cf. Eb 13,12-13). Solo se attraverseremo, come Chiesa e come singoli, la porta della città in cui abitiamo comodi e protetti, scopriremo con stupore la realtà della promessa: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. (…) Il popolo che Io stesso ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). PIERO CODA (altro…)