Movimento dei Focolari
Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione

Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione

Ha segnato un avvenimento storico

la firma il 31 ottobre ad Augsburg (Germania), nella Chiesa di s. Anna, della Dichiarazione congiunta tra la Chiesa cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla Dottrina della Giustificazione. E’ caduto così un pilastro teologico portante della divisione tra le due Chiese. La questione della giustificazione aveva scatenato – 450 anni fa – una polemica che portò a condanne reciproche, giunte sino ad oggi. Fu questa una delle cause fondamentali della separazione. Dopo 30 anni di lavoro della Commissione teologica internazionale luterano-cattolica, grazie alle preghiere e all’impegno di molti, è stato possibile superare anche gli ultimi ostacoli. La Dichiarazione congiunta afferma, tra l’altro, l’esistenza “di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali di tale dottrina”. Si considerano così decadute le reciproche condanne del passato sulla giustificazione. “Il documento – afferma il Card. Ratzinger – dice che le scomuniche del Concilio di Trento in questo settore non toccano la dottrina così come è esposta oggi” (Intervista a “30 Giorni”, giugno ’99). “Non vi è stato nessun rinnegamento del passato, – precisa un comunicato del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani (21.6.99) –  ma piuttosto un comune passo in avanti nella comprensione del mistero della salvezza in Cristo, reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Non si tratta di una disputa teologica del XVI secolo che oggi non ha più interesse. La giustificazione è una questione attualissima che risponde a domande vitali dell’uomo: Che cos’è che rende il cristiano giusto davanti a Dio? Chi lo salva e dà piena realizzazione alla sua vita? L’essere giusti è frutto della sola nostra buona volontà? Qual è la salvezza che la fede cristiana promette? La firma verrà apposta su: la “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (1997)” la “Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica”, e l’ “Allegato” (11 giugno 99) La solenne cerimonia della firma dell’avvenuto consenso sarà preceduta, sabato 30 ottobre, da varie iniziative collaterali, tra cui una manifestazione promossa dal Centro Ecumenico di Ottmaring (Movimento dei Focolari e Bruderschaft von Gemeinsamen Leben, fraternità evangelica) nella chiesa luterana di St. Ulrich ad Augsburg. Alcune personalità daranno la loro testimonianza su quanto significa nella loro vita il fatto di essere “giustificati da Dio”. Parleranno il Vescovo emerito evangelico-luterano di Lübech, Ulrich Wilckens, Frère Richard di Taizé, Chiara Lubich, Andrea Riccardi. La firma è stata apposta da parte cattolica dal Card. E.I. Cassidy e dal Vescovo W. Kasper, Presidente e Segretario del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani e, da parte luterana, dal Vescovo Ch. Krause e dal Dott. I. Noko, Presidente e Segretario Generale della Federazione Luterana Mondiale, oltre che da sei Vice-presidenti della Federazione, su: la “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (1997)” la “Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica”, e l’ “Allegato” (11 giugno 99) Per saperne di più: www.rechtfertigung.de  in tedesco e inglese www.justification.org (altro…)

Incontro con 1700 giovani nella Chiesa luterana di St. Ulrich ad Augsburg

Interventi di: Chiara Lubich, Andrea Riccardi, e del Vescovo emerito luterano Wilckens, presente  l’arcivescovo Kasper,  allora segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani (Augsburg – 30 ottobre 1999) Una preoccupazione comune, espressa da tanti – dal card. Ratzinger ai vescovi Krause e Kasper, segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani – è come spiegare alla gente di oggi, soprattutto ai giovani, la Giustificazione. Una prima risposta è stata data alla vigilia stessa dell’avvenimento, nella Chiesa luterana di St. Ulrich ad Ausgburg. Erano circa 1700 i giovani, riuniti per iniziativa del Centro Ecumenico di Ottmaring, presente anche il Vescovo Kasper. “Un pomeriggio così variopinto mi ha presentato un volto del tutto nuovo della Chiesa” l’impressione a caldo di una giovane signora, medico, che si era allontanata dalla fede. E tutto in quella chiesa parlava con il linguaggio dei giovani: “Sopra la balaustra campeggiavano un arcobaleno di palloncini. Trampolieri con uno striscione hanno dato il benvenuto ai giovani. Ritmi rock e brani di musical invece che le note dell’organo” – osserva il quotidiano Augsburger Allgemeine – “La chiesa evangelica gremita fino all’ultimo posto ospita un forum delle diverse tradizioni cristiane. Un incontro che lascia un’impressione duratura nei presenti. Un incontro intenso, aperto schietto“. Alla luce del documento di consenso di Augsburg sulla Giustificazione, la domanda centrale è: “Che cosa rende preziosa la tua vita?”. Scroscianti applausi dopo l’appello appassionato di Chiara Lubich: “Se noi ci amiamo a vicenda, cristiani cattolici e evangelici, allora ad Augsburg inizia la rivoluzione cristiana.” La fondatrice dei Focolari, aveva testimoniato con passione Dio amore, facendo vedere la bellezza, la forza, la coerenza di una vita immersa nel Suo Amore che ci libera e salva da ogni baratro piccolo o grande in cui possiamo essere caduti. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’ Egidio, aveva fatto un esempio efficace: “Immaginate dei carcerati nel braccio della morte. E’ l’ora della condanna. Arriva un poliziotto: ‘Non sarai condannato!’. Tutti salvi, tutti liberi, tutti graziati. Anche noi siamo prigionieri dell’angoscia, dell’egoismo, della ricchezza e della solitudine. Anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica: ‘Siamo liberi, amati, giustificati’”. Un esempio personale è portato dal vescovo luterano di Lubecca, Ulrich Wilckens: diciassettenne, negli ultimi giorni della guerra del ’45, doveva difendere la patria. Da solo si trovava in una trincea con una “paura folle”. Paura superata “come per un miracolo” per merito della fede, riconfermata dalla Sacra Scrittura che, in formato tascabile, portava con sé. E’ festa. Festa – come Wilckens ha definito questo momento storico – per “il ricongiungersi di una famiglia dove i genitori erano divorziati e si ritrovano“. E proprio i giovani sono forse i più sensibili a questa riconciliazione. Dopo questi avvenimenti, simbolicamente fissati dall’abbraccio del pastore Noko e del vescovo cattolico Kasper al momento della storica firma che ha suscitato grande emozione in tutti, l’impressione a caldo di una giovane evangelica esprime la certezza che “sì, un pezzo di muro tra le Chiese è crollato, d’ora in poi si accelereranno i tempi per l’unità.” (altro…)

Ottobre 1999

Questa Parola la si trova già nell’Antico Testamento. Per rispondere ad una domanda insidiosa, Gesù si inserisce nella grande tradizione profetica e rabbinica che era alla ricerca del principio unificatore della Torah, e cioè dell’insegnamento di Dio contenuto nella Bibbia. Rabbi Hillel, un suo contemporaneo, aveva detto: “Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te, questa è tutta la legge. Il resto è solo spiegazione”. Per i maestri dell’ebraismo l’amore del prossimo deriva dall’amore a Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, per cui non si può amare Dio senza amare la sua creatura: questo è il vero motivo dell’amore del prossimo, ed è “un grande e generale principio nella legge”. Gesù ribadisce questo principio e aggiunge che il comando di amare il prossimo è simile al primo e più grande comandamento, quello cioè di amare Dio con tutto il cuore, la mente e l’anima. Affermando una relazione di somiglianza fra i due comandamenti Gesù li salda definitivamente e così farà tutta la tradizione cristiana; come dirà lapidariamente l’apostolo Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Prossimo – lo dice chiaramente tutto il Vangelo – è ogni essere umano, uomo o donna, amico o nemico, al quale si deve rispetto, considerazione, stima. L’amore del prossimo è universale e personale al tempo stesso. Abbraccia tutta l’umanità e si concreta in colui-che-ti-sta-vicino. Ma chi può darci un cuore così grande, chi può suscitare in noi una tale benevolenza da farci sentire vicini – prossimi – anche coloro che sono più estranei a noi, da farci superare l’amore di sé, per vedere questo sé negli altri? E’ un dono di Dio, anzi è lo stesso amore di Dio che “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Non è quindi un amore comune, non una semplice amicizia, non la sola filantropia, ma quell’amore che è versato sin dal battesimo nei nostri cuori: quell’amore che è la vita di Dio stesso, della Trinità beata, al quale noi possiamo partecipare. Dunque l’amore è tutto, ma per poterlo vivere bene occorre conoscere le sue qualità che emergono dal Vangelo e dalla Scrittura in genere e che ci sembra poter riassumere in alcuni aspetti fondamentali. Per prima cosa Gesù, che è morto per tutti, amando tutti, ci insegna che il vero amore va indirizzato a tutti. Non come l’amore che viviamo noi tante volte, semplicemente umano, che ha un raggio ristretto: la famiglia, gli amici, i vicini… L’amore vero che Gesù vuole non ammette discriminazioni: non distingue tanto la persona simpatica dall’antipatica, non c’è per esso il bello, il brutto, il grande o il piccolo; per questo amore non c’è quello della mia patria o lo straniero, quello della mia Chiesa o di un’altra, della mia religione o di un’altra. Tutti ama quest’amore. E così dobbiamo fare noi: amare tutti. L’amore vero, ancora, ama per primo, non aspetta di essere amato, come in genere è dell’amore umano: si ama chi ci ama. No, l’amore vero prende l’iniziativa, come ha fatto il Padre quando, essendo noi ancora peccatori, quindi non amanti, ha mandato il Figlio per salvarci. Quindi: amare tutti e amare per primi. E ancora: l’amore vero vede Gesù in ogni prossimo: “L’hai fatto a me” ci dirà Gesù al giudizio finale. E ciò vale per il bene che facciamo e anche per il male purtroppo. L’amore vero ama l’amico e anche il nemico: gli fa del bene, prega per lui. Gesù vuole anche che l’amore, che egli ha portato sulla terra, diventi reciproco: che l’uno ami l’altro e viceversa, sì da arrivare all’unità. Tutte queste qualità dell’amore ci fanno capire e vivere meglio la parola di vita di questo mese.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Sì, l’amore vero ama l’altro come se stesso. E ciò va preso alla lettera: occorre proprio vedere nell’altro un altro sé e fare all’altro quello che si farebbe a sé stessi. L’amore vero è quello che sa soffrire con chi soffre, godere con chi gode, portare i pesi altrui, che sa, come dice Paolo, farsi uno con la persona amata. E’ un amore, quindi, non solo di sentimento, o di belle parole, ma di fatti concreti. Chi ha un altro credo religioso cerca pure di fare così per la cosiddetta “regola d’oro” che ritroviamo in tutte le religioni. Essa vuole che si faccia agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Gandhi la spiega in modo molto semplice ed efficace: “Non posso farti del male senza ferirmi io stesso”. Questo mese, dunque, deve essere un’occasione per rimettere a fuoco l’amore del prossimo, che ha così tanti volti: dal vicino di casa, alla compagna di scuola, dall’amico alla parente più stretta. Ma ha anche i volti di quell’umanità angosciata che la TV porta nelle nostre case dai luoghi di guerra e di catastrofi naturali. Una volta erano sconosciuti e lontani mille miglia. Ora sono divenuti anch’essi nostri prossimi. L’amore ci suggerirà volta per volta cosa fare, e dilaterà a poco a poco il nostro cuore sulla misura di quello di Gesù. Chiara Lubich (altro…)

Settembre 1999

Gesù con queste sue parole risponde a Pietro che, dopo aver ascoltato cose meravigliose dalla sua bocca, gli ha posto questa domanda: “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? fino a sette volte?”. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Pietro, probabilmente, sotto l’influenza della predicazione del Maestro, aveva pensato di lanciarsi, buono e generoso com’era, nella sua nuova linea, facendo qualcosa di eccezionale: arrivando a perdonare fino a sette volte. Nel giudaismo infatti si ammetteva un perdono di due, tre volte, al massimo quattro. Ma Gesù rispondendo: “… fino a settanta volte sette”, dice che per lui il perdono deve essere illimitato: occorre perdonare sempre.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Questa Parola fa ricordare il canto biblico di Lamech, un discendente di Adamo: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. Così inizia il dilagare dell’odio nei rapporti fra gli uomini del mondo: ingrossa come un fiume in piena. A questo dilagare del male, Gesù oppone il perdono senza limite, incondizionato, capace di rompere il cerchio della violenza. Il perdono è l’unica soluzione per arginare il disordine e aprire all’umanità un futuro che non sia l’autodistruzione.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Perdonare. Perdonare sempre. Il perdono non è dimenticanza che spesso significa non voler guardare in faccia la realtà. Il perdono non è debolezza, e cioè non tener conto di un torto per paura del più forte che l’ha commesso. Il perdono non consiste nell’affermare senza importanza ciò che è grave, o bene ciò che è male.  Il perdono non è indifferenza. Il perdono è un atto di volontà e di lucidità, quindi di libertà, che consiste nell’accogliere il fratello e la sorella così com’è, nonostante il male che ci ha fatto, come Dio accoglie noi peccatori, nonostante i nostri difetti. Il perdono consiste nel non rispondere all’offesa con l’offesa, ma nel fare quanto Paolo dice: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. Il perdono consiste nell’aprire a chi ti fa del torto la possibilità d’un nuovo rapporto con te, la possibilità quindi per lui e per te di ricominciare la vita, d’aver un avvenire in cui il male non abbia l’ultima parola.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Come si farà allora a vivere questa Parola? Pietro aveva chiesto a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare a mio fratello?”; “… a mio fratello”. E Gesù, rispondendo, aveva di mira, dunque, soprattutto i rapporti fra cristiani, fra membri della stessa comunità. E’ dunque prima di tutto con gli altri fratelli e sorelle nella fede che bisogna comportarsi così: in famiglia, sul lavoro, a scuola o nella comunità di cui si fa parte. Sappiamo quanto spesso si vuole compensare con un atto, con una parola corrispondente, l’offesa subita. Si sa come per diversità di carattere, o per nervosismo, o per altre cause, le mancanze di amore sono frequenti fra persone che vivono insieme. Ebbene, occorre ricordare che solo un atteggiamento di perdono, sempre rinnovato, può mantenere la pace e l’unità tra fratelli. Ci sarà sempre la tendenza a pensare ai difetti delle sorelle e dei fratelli, a ricordarsi del loro passato, a volerli diversi da come sono… Occorre far l’abitudine a vederli con occhio nuovo e nuovi loro stessi, accettandoli sempre, subito e fino in fondo, anche se non si pentono. Si dirà: “Ma ciò è difficile”. Si capisce. Ma qui è il bello del cristianesimo. Non per nulla siamo alla sequela di Cristo che, sulla croce, ha chiesto perdono al Padre per coloro che gli avevano dato la morte, ed è risorto. Coraggio. Iniziamo una vita così, che ci assicura una pace mai provata e tanta gioia sconosciuta. Chiara Lubich   (altro…)

Agosto 1999

Questa Parola fa parte di un avvenimento semplice e altissimo al tempo stesso: è l’incontro fra due gestanti, fra due madri, la cui simbiosi spirituale e fisica con i loro figli è totale. Sono esse la loro bocca, i loro sentimenti. Quando parla Maria, il bambino di Elisabetta fa un balzo di gioia nel suo ventre. Quando parla Elisabetta sembra che le parole le siano messe sulle labbra dal Precursore. Ma mentre le prime parole del suo inno di lode a Maria sono rivolte personalmente alla madre del Signore, le ultime sono dette in terza persona: “Beata colei che ha creduto”. Così la sua “affermazione acquista carattere di verità universale: la beatitudine vale per tutti i credenti, concerne coloro che accolgono la Parola di Dio e la mettono in pratica e che trovano in Maria il modello ideale” (1).

«E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore.»

E’ la prima beatitudine del Vangelo che riguarda Maria, ma anche tutti coloro che la vogliono seguire e imitare. C’è uno stretto legame, in Maria, tra fede e maternità, come frutto dell’ascolto della Parola. E Luca qui ci suggerisce qualcosa che riguarda anche noi. Più avanti nel suo Vangelo Gesù dice: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (2). Anticipando quasi queste parole, Elisabetta, mossa dallo Spirito Santo, ci annuncia che ogni discepolo può diventare “madre” del Signore. La condizione è che creda alla Parola di Dio e che la viva.

«E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore.»

Maria, dopo Gesù, è colei che meglio e più perfettamente ha saputo dire “sì” a Dio. E’ soprattutto questa la sua santità e la sua grandezza. E se Gesù è il Verbo, la Parola incarnata, Maria, per la sua fede nella Parola è la Parola vissuta, ma creatura come noi, uguale a noi. Il ruolo di Maria come madre di Dio è eccelso e grandioso. Ma Dio non chiama solo la Vergine a generare Cristo in sé. Seppure in altro modo, ogni cristiano ha un simile compito: quello di incarnare Cristo fino a ripetere, come san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (3). Ma come attuare ciò? Con l’atteggiamento di Maria verso la Parola di Dio e cioè di totale disponibilità. Credere dunque, con Maria, che si realizzeranno tutte le promesse contenute nella Parola di Gesù e affrontare, come Maria, se occorre, il rischio dell’assurdo che alle volte la sua Parola comporta. Grandi e piccole cose, ma sempre meravigliose, accadono a chi crede nella Parola. Si potrebbero riempire dei libri con i fatti che lo provano. Chi può dimenticare quando, in piena guerra, credendo alle parole di Gesù “chiedete e vi sarà dato”4 abbiamo chiesto tutto quello di cui tanti poveri in città avevano bisogno e vedevamo arrivare sacchi di farina, scatole di latte, di marmellata, legna, vestiario? Anche oggi accadono le stesse cose. “Date e vi sarà dato” (5) e i magazzini della carità sono sempre pieni, essendo regolarmente svuotati. Ma ciò che colpisce di più è come le parole di Gesù sono vere sempre e dovunque. E l’aiuto di Dio arriva puntuale anche in circostanze impossibili, e nei punti più isolati della terra, come è accaduto poco tempo fa ad una madre che vive in grande povertà. Un giorno si è sentita spinta a dare i suoi ultimi soldi ad una persona più povera di lei. Credeva a quel “date e vi sarà dato” del Vangelo. E aveva una grande pace nell’animo. Poco dopo è arrivata la sua bambina più piccola e le ha mostrato un dono appena ricevuto da un anziano parente che, per caso, era passato di lì: nella sua manina c’erano i soldi moltiplicati. Una “piccola” esperienza come questa ci spinge a credere nel Vangelo; e ciascuno di noi può provare quella gioia, quella beatitudine che viene dal vedere realizzate le promesse di Gesù. Quando, nella vita di tutti i giorni, nella lettura delle Sacre Scritture ci incontreremo con la Parola di Dio, apriamo il nostro cuore all’ascolto, con la fede che ciò che Gesù ci chiede e promette si avvererà. Non tarderemo a scoprire, come Maria e come quella madre, che Egli mantiene le sue promesse. Chiara Lubich 1) G.Rossé, Il Vangelo di Luca, Roma, 1992, p.67. 2) Lc 8,21. 3) Gal 2,20. 4) Mt 7,7. 5) Lc 6,38. (altro…)

Luglio 1999

In questa brevissima parabola, Gesù colpisce fortemente l’immaginazione dei suoi ascoltatori. Tutti sapevano il valore delle perle che, assieme all’oro, erano allora quanto di più prezioso si conoscesse. In più, le Scritture parlavano della sapienza e cioè della conoscenza di Dio come di qualcosa da non paragonare “neppure a una gemma inestimabile”. Ma viene in rilievo nella parabola l’avvenimento eccezionale, sorprendente e inatteso che rappresenta per quel commerciante l’aver adocchiato, forse in un bazar, una perla che solo ai suoi occhi esperti aveva un valore enorme e dalla quale perciò poteva ricavare un ottimo profitto. Ecco perché, avendo fatto i suoi calcoli, decide che valeva la pena di vendere tutto per comprare la perla. E chi non avrebbe fatto lo stesso al suo posto? Ecco dunque il significato profondo della parabola: l’incontro con Gesù, e cioè con il Regno di Dio fra noi – ecco la perla! -, è quell’occasione unica che bisogna prendere al volo, impegnando fino in fondo tutte le proprie energie e ciò che si possiede.

«Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va’, vende tutti i suoi averi e la compra».

Non è la prima volta che i discepoli si sentono messi di fronte ad un’esigenza radicale e cioè a quel tutto che bisogna lasciare per seguire Gesù: i beni più preziosi quali gli affetti familiari, la sicurezza economica, le garanzie per il futuro. Ma la sua non è una richiesta immotivata e assurda. Per un “tutto” che si perde c’è un “tutto” che si trova, inestimabilmente più prezioso. Ogni volta che Gesù domanda qualcosa, promette anche di dare molto, molto di più, in misura sovrabbondante. Così con questa parabola ci assicura che avremo tra le mani un tesoro che ci farà ricchi per sempre. E, se può sembrare un errore lasciare il certo per l’incerto, un bene sicuro per un bene solo promesso, pensiamo a quel mercante: egli sa che quella perla è molto preziosa ed attende fiducioso ciò che gli procurerà trafficandola. Così chi vuol seguire Gesù sa, vede, con gli occhi della fede, quale immenso guadagno sarà condividere con lui l’eredità del Regno per aver tutto lasciato almeno spiritualmente.  A tutti gli uomini Dio offre nella vita un’occasione del genere perché la sappiano afferrare.

«Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va’, vende tutti i suoi averi e la compra».

E’ un invito concreto a mettere da parte tutti quegli idoli che nel cuore possono prendere il posto di Dio: carriera, matrimonio, studi, una bella casa, la professione, lo sport, il divertimento. E’ un invito a mettere Dio al primo posto, al vertice di ogni nostro pensiero, di ogni nostro affetto perché tutto nella vita deve convergere a lui e tutto da lui deve discendere. Facendo così, cercando il Regno, secondo la promessa evangelica, il resto ci sarà dato in sovrappiù. Accantonando tutto per il Regno di Dio riceviamo il centuplo in case, fratelli, sorelle, padri e madri, perché il Vangelo ha una chiara dimensione umana: Gesù è uomo-Dio e insieme al cibo spirituale ci assicura il pane, la casa, il vestito, la famiglia. Forse dovremmo imparare dai “piccoli” a fidarci di più della Provvidenza del Padre, che non fa mancare nulla a chi dà, per amore, tutto quel poco che ha. In Congo un gruppo di ragazzi fabbricano da alcuni mesi cartoline artistiche con la scorza di banana, vendute poi in Germania. In un primo momento trattengono tutto il ricavato (qualcuno mantiene con ciò l’intera famiglia). Ora hanno deciso di mettere il 50% in comune e 35 giovani disoccupati hanno ricevuto un aiuto. E Dio non si lascia vincere in generosità: due di questi ragazzi hanno dato una tale testimonianza nel negozio ove sono impiegati, che diversi commercianti, in cerca di personale, si sono rivolti a quel negozio. Ben in undici hanno così trovato un lavoro fisso. Chiara Lubich (altro…)

Incontro internazionale di 41 movimenti ecclesiali a Speyer

… Il Convegno di Speyer – hanno sottolineato i promotori – è frutto della comunione che sta nascendo tra i movimenti. “Troviamo – ha osservato Chiara Lubich, presidente del Movimento dei Focolari – un’attesa incredibile per questa comunione, grande entusiasmo”. Chiara ha ricordato gli effetti suscitati dall’incontro di Pentecoste a Roma: “Ogni indifferenza reciproca era sparita, ogni prevenzione svanita, ogni resistenza sciolta”. Simili iniziative si sono ripetute quest’anno nelle varie chiese locali, alla presenza del vescovo. “Il nostro cuore – ha detto Chiara – si è allargato maggiormente su tutta la Chiesa, alla quale è stato donato ogni carisma. Con gioia si è vista nelle giornate l’occasione di svelare ciò che la Chiesa particolare ha nel suo seno: queste nuove forze, non sempre conosciute, perché ne goda e prenda nuovo coraggio”. da SIR 44 – 9.VI.1999 – pag.16 (altro…)

Messaggio del Papa Giovanni Paolo II

Osservatore Romano – 9 giugno 1999

I Movimenti e le nuove Comunità ecclesiali si impegnino “per una testimonianza comune “

«I doni del Signore si tramutino in impegno per tetimomonianza comune». E’ l’esortazione rivolta da Giovanni Paolo II nel Messaggio inviato ai partecipanti al Convegno internazionale dei Movimenti e delle nuove Comunità ecclesiali promosso a Speyer (Germania), ad un anno dallo storico incontro svoltosi in Vaticano alla Vigilia di Pentecoste 1998. Ecco il testo del Messaggio del Papa: «Carissimi Fratelli e Sorelle! I. L’amore di Dio Padre, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi! Con queste parole saluto tutti voi, che partecipate al Convegno internazionale dei movimenti e delle nuove comunità ecclesiali, che si sta svolgendo a Speyer. Un saluto particolare rivolgo a S.E. Mons. Anton Schlembach, che vi ha generosamente accolti nella sua diocesi, a Sua Eminenza il Cardinale Miloslav Vlk, ed agli altri Vescovi e sacerdoti, amici dei movimenti, che vi accompagnano in questi giorni. Un caro pensiero va ai promotori del Convegno: Chiara Lubich, Andrea Riccardi e Salvatore Martìnez. Avete voluto ritrovarvi insieme, rappresentanti di vari movimenti e nuove comunità, un anno dopo l’incontro organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici in Piazza San Pietro, alla vigilia di Pentecoste del 1998. Quell’evento è stato un dono grande per tutta la Chiesa. In un clima di fervente preghiera, abbiamo potuto sperimenta- re la presenza dello Spirito Santo. Una presenza resa tangibile dalla “testimonianza comune”, che i movimenti hanno saputo dare di intesa profonda e di unità nel rispetto della diversità di ciascuno. E stata una significativa epifania della Chiesa, ricca dei carismi e dei doni che lo Spirito non cessa di elargirle. 2. Ogni dono del Signore, voi lo sapete bene, interpella la nostra responsabilità e non può non tramutarsi in impegno per un compito da osservare fedelmente. E proprio questa, del resto, la motivazione fondamentale del Convegno di Speyer. Ascoltando ciò che lo Spirito dice alle Chiese (cfr Ap 2.7) alla vigilia del Grande Giubileo della Redenzione, voi volete assumervi direttamente ed insieme con gli altri movimenti la responsabilità del dono ricevuto quel 30 maggio 1998. Il seme, sparso in abbondanza, non può andare perduto, ma deve produrre frutto all’interno delle vostre comunità, nelle parrocchie e nelle diocesi. E bello e dà gioia vedere come i movimenti e le nuove comunità sentano l’esigenza di convergere nella comunione ecclesiale, e si sforzino con gesti concreti di comunicarsi i doni ricevuti, di sostenersi nelle difficoltà e di cooperare per affrontare insieme le sfide della nuova evangelizzazione. Sono, questi, segni eloquenti di quella maturità ecclesiale che auspico caratterizzi sempre più ogni componente ed articolazione della comunità ecclesiale. 3. Lungo questi anni ho avuto modo di constatare quanto importanti siano i frutti di conversione, di rinascita spirituale e di santità che i movimenti recano alla vita delle Chiese locali. Grazie al dinamismo di queste nuove aggregazioni ecclesiali, tanti cristiani hanno riscoperto la vocazione radicata nel Battesimo e si sono dedicati con straordinaria generosità alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Per non pochi è stata l’occasione di riscoprire il valore della preghiera, mentre la Parola di Dio è diventata il loro pane quotidiano e l’Eucaristia il centro della loro esistenza. Nell’Enciclica Redemptoris missio ricordavo, come novità emersa in non poche Chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei “movimenti ecclesiali”, dotati di dinamismo missionario: “Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle Chiese locali e sono accolti cordialmente da Vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali – scrivevo – i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria propria- mente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra ì giovani, alla vita cristiana e all’evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi” (n. 72). Auguro di cuore che il Convegno di Speyer sia per ciascun di voi e per tutti i vostri movimenti un’occasione di crescita nell’amore di Cristo e della sua Chiesa, secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che esorta ad aspirare “ai carismi più grandi” (1 Cor 12, 31). Affido i lavori del vostro incontro a Maria, Madre della Chiesa, e vi accompagno con le mie preghiere, mentre a ciascuno di voi ed alle vostre famiglie imparto una speciale Benedizione». Giovanni Paolo II Dal Vaticano, 3 Giugno 1999. (altro…)

Convegno SPEYER 1999

Convegno SPEYER 1999

Il 7 e 8 giugno 1999 si sono incontrati a Speyer in Germania fondatori e responsabili di oltre 40 Movimenti e nuove comunità da 16 Paesi d’Europa dell’Est e dell’Ovest tra cui Comunione e Liberazione, Cursillos, Comunità dell’Arche, Schoenstatt, Movimento dei Focolari, Comunità di Sant’ Egidio, Rinnovamento nello Spirito. “E’ stata un’esperienza straordinaria di comunione ecclesiale. Veramente dopo il 30 maggio dell’anno scorso è stata una ulteriore spinta da parte dello Spirito Santo per intensificare il nostro cammino insieme e soprattutto il nostro sforzo di essere veramente al servizio dell’evangelizzazione del mondo, alle soglie del Terzo Millennio”. S.E. Mons. Stanislao Rylko, segretario del Pontificio Consiglio per i Laici Questa è una delle iniziative a cui  ha fatto riferimento il Papa a Pentecoste ’99, ricordando il grande incontro in piazza S. Pietro alla vigilia di Pentecoste ’98. “E’ stato un incontro che ha prodotto frutti preziosi. Si sono moltiplicate, infatti, le iniziative miranti ad alimentare nei movimenti e nelle comunità il senso di comunione, allo scopo di far crescere la collaborazione fra loro e anche in seno alle Chiese locali e alle parrocchie”. E ancora ringraziava “il Signore per questa promettente primavera della Chiesa, ricca di speranza“. Dalla grande manifestazione dello scorso anno in piazza S. Pietro, infatti, si è intessuta una rete di rapporti tra i fondatori e responsabili di alcuni dei più grandi Movimenti ecclesiali. In apertura è stato letto il messaggio del Papa da S.E. mons. Stanislao Rylko, Segretario del Pontificio Consiglio per i Laici. Durante il convegno si è intensificata la conoscenza reciproca e sono stati trattati alcuni temi, come: i movimenti nella storia della Chiesa e la nuova Pentecoste nella Chiesa. E’ stata approfondita la nuova pagina aperta dal Papa sulla coessenzialità di carismi e istituzione. Si è parlato delle iniziative di comunione e collaborazione e dei frutti che ne sono scaturiti. Presente anche il Card. Miloslav Vlk, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali Europee. Co-promotori sono stati il Movimento dei Focolari, la Comunità di Sant’ Egidio, il Rinnovamento nello Spirito.  

RASSEGNA STAMPA

OSSERVATORE ROMANO: Messaggio del S.Padre SIR: Incontro internazionale di 41 Movimenti a Speyer SIR: Diversi ma uniti RADIO VATICANA: Comunione e nuovo impegno – Interviste al Vescovo Stanislao Rylko e Chiara Lubich

INTERVENTI

Perché ci siamo radunati qui: la comunione tra i Movimenti – dagli interventi di Chiara Lubich I Movimenti nella storia della Chiesa – Andrea Riccardi Lo Spirito Santo e la nuova Pentecoste nella Chiesa – Oreste Pesare I carismi e la coessenzialità – prof. Piero Coda I Movimenti e le nuove frontiere – Mons. Vincenzo Paglia I Movimenti nella Chiesa – P. J. Castellano Cervera Il post-Pentecoste ’98: le Giornate comuni – d. Silvano Cola Per la moratoria della pena di morte – Mathias Leinweber Movimenti ecclesiali insieme: in Portogallo vince la vita – Antonio Borges (altro…)

Giugno 1999

Leggendo questa Parola di Gesù vengono in rilievo due tipi di vita: la vita terrena che si costruisce in questo mondo, e la vita soprannaturale data da Dio, attraverso Gesù, vita che non finisce con la morte e che nessuno può togliere. Di fronte all’esistenza, allora, si possono avere due atteggiamenti: o attaccarsi alla vita terrena, considerandola come l’unico bene, e saremo portati a pensare a noi stessi, alle nostre cose, alle nostre creature; ci chiuderemo nel nostro guscio, affermando solo il proprio io, e troveremo come conclusione alla fine, inevitabilmente, solo la morte. Oppure, diversamente, credendo che abbiamo ricevuto da Dio un’esistenza ben più profonda e autentica, avremo il coraggio di vivere in modo da meritare questo dono fino al punto di saper sacrificare la nostra vita terrena per l’altra.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Quando Gesù ha detto queste parole pensava al martirio. Noi, come ogni cristiano, dobbiamo essere pronti, per seguire il Maestro e rimanere fedeli al Vangelo, a perdere la nostra vita, morendo – se necessario – anche di morte violenta, e con la grazia di Dio ci sarà data con ciò la vera vita. Gesù per primo ha “perso la sua vita” e l’ha ottenuta glorificata. Egli ci ha preavvertito di non temere “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. Oggi ci dice:

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Se leggi attentamente il Vangelo, vedrai che Gesù torna su questo concetto per ben sei volte. Ciò sta a dimostrare che importanza esso abbia e in quale considerazione Gesù lo tenga. Ma l’esortazione a perdere la propria vita non è per Gesù soltanto un invito a sostenere anche il martirio. E’ una legge fondamentale della vita cristiana. Occorre esser pronti a rinunciare a fare di se stessi l’ideale della vita, a rinunciare alla nostra indipendenza egoistica. Se vogliamo essere veri cristiani dobbiamo fare di Cristo il centro della nostra esistenza. E cosa Cristo vuole da noi? L’amore per gli altri. Se faremo nostro questo suo programma, avremo certamente perso noi stessi e trovato la vita. E questo non vivere per sé, non è certamente, come qualcuno può pensare, un atteggiamento rinunciatario e passivo. L’impegno del cristiano è sempre assai grande e il suo senso di responsabilità è totale.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Fin da questa terra si può fare l’esperienza che nel dono di se stessi, nell’amore vissuto, cresce in noi la vita. Quando avremo speso la nostra giornata al servizio degli altri, quando avremo saputo trasformare il lavoro quotidiano, magari monotono e duro, in un gesto d’amore, proveremo la gioia di sentirci più realizzati.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Seguendo i comandi di Gesù, che sono tutti imperniati sull’amore, dopo questa breve esistenza troveremo anche quella eterna. Ricordiamo quale sarà il giudizio di Gesù nell’ultimo giorno. Egli dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti… perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito…”. Per farci partecipi dell’esistenza che non passa, guarderà unicamente se avremo amato il prossimo e riterrà fatto a sé quanto abbiamo fatto ad esso. Come vivremo allora questa Parola? Come perderemo sin da oggi la nostra vita per trovarla? Preparandoci al grande e decisivo esame per il quale siamo nati. Guardiamoci attorno e riempiamo la giornata di atti di amore. Cristo si presenta a noi nei nostri figli, nella moglie, nel marito, nei compagni di lavoro, di partito, di svago, ecc. Facciamo del bene a tutti. E non dimentichiamo quelli di cui veniamo a conoscenza ogni giorno sui giornali o attraverso amici o per mezzo della televisione… Facciamo per tutti qualcosa, secondo le nostre possibilità. E quando quelle ci sembrassero esaurite, potremo ancora pregare per loro. E’ amore che vale. Chiara Lubich (altro…)

Maggio 1999

Nell’ultimo discorso di Gesù, l’amore è al centro: l’amore del Padre per il Figlio, l’amore per Gesù che è osservanza dei suoi comandamenti. Coloro che ascoltavano Gesù non facevano fatica a riconoscere nelle sue parole un’eco dei Libri sapienziali: “l’amore è osservanza delle sue leggi” e “facilmente è contemplata – la Sapienza – da chi l’ama”. E soprattutto quel manifestarsi a chi lo ama trova il suo parallelo veterotestamentario in Sap 1,2, dove si dice che il Signore si manifesterà a coloro che credono in lui. Ora il senso di questa Parola, che proponiamo, è: chi ama il Figlio è amato dal Padre, ed è riamato dal Figlio che si manifesta a lui.

«Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Tale manifestazione di Gesù chiede però di amare. Non si concepisce un cristiano che non abbia questo dinamismo, questa carica d’amore nel cuore. Un orologio non funziona, non dà l’ora – e si può dire che non è neppure un orologio – se non è carico. Così un cristiano, che non è sempre nella tensione di amare, non merita il nome di cristiano.  E questo perché tutti i comandamenti di Gesù si riassumono in uno solo: in quello dell’amore per Dio e il prossimo, nel quale vedere e amare Gesù. L’amore non è mero sentimentalismo ma si traduce in vita concreta, nel servizio ai fratelli, specie quelli che ci stanno accanto, cominciando dalle piccole cose, dai servizi più umili. Dice Charles de Foucauld: “Quando si ama qualcuno, si è molto realmente in lui, si è in lui con l’amore, si vive in lui con l’amore, non si vive più in sé, si è ‘distaccati’ da sé, ‘fuori’ di sé”. Ed è per questo amore che si fa strada in noi la sua luce, la luce di Gesù, secondo la sua promessa: “A chi mi ama … mi manifesterò a lui”. L’amore è fonte di luce: amando si comprende di più Dio che è amore. E questo fa sì che si ami ancora di più e si approfondisca il rapporto con i prossimi. Questa luce, questa conoscenza amorosa di Dio è dunque il suggello, la riprova del vero amore. E la si può sperimentare in vari modi, perché in ciascuno di noi la luce assume un colore, una sua tonalità. Ma ha delle caratteristiche comuni: ci illumina sulla volontà di Dio, ci dà pace, serenità, e una comprensione sempre nuova della Parola di Dio. E’ una luce calda che ci stimola a camminare nella via della vita in modo sempre più sicuro e spedito. Quando le ombre dell’esistenza ci rendono incerto il cammino, quando addirittura fossimo bloccati dall’oscurità, questa Parola del Vangelo ci ricorderà che la luce s’accende con l’amore e che basterà un gesto concreto d’amore anche piccolo (una preghiera, un sorriso, una parola), a darci quel barlume che ci permette di andare avanti. Quando si va in bicicletta di notte, se ci si ferma si piomba nel buio, ma se ci si rimette a pedalare la dinamo darà la corrente necessaria per vedere la strada. Così è nella vita: basta rimettere in moto l’amore, quello vero, quello che dà senza aspettarsi nulla, per riaccendere in noi la fede e la speranza. Chiara Lubich   (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 122

Editoriale FORUM: L’ABBANDONO DI GESÙ, PER UNA CULTURA DELL’UNITÀ – L’articolo presenta la tavola rotonda svoltasi all’Incontro internazionale Seminaristi e Rettori di seminario,presso il Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, il 31 dicembre 1998. Vi hanno partecipato Giuseppe Maria Zanghí, Gérard Rossé, Piero Coda, Jesús Castellano Cervera; moderatore Hubertus Blaumeiser. Nella luce dell’ideale dell’unità LAUREA IN PSICOLOGIA A CHIARA LUBICH – MALTA 26 FEBBRAIO 1999 – Presentiamo la lezione svolta dall’A. presso l’università di Malta, in occasione dell’assegnazione della Laurea che le è stata conferita. ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONOSCERE TEOLOGICO NELLA PROSPETTIVA DEL CARISMA DELL’UNITA’ – di Piero Coda – In questa conversazione l’Autore tocca essenzialmente tre punti: nel primo, s’impegna a chiarire che cos’è la teologia nella tradizione cristiana, approfondendone i contenuti e il metodo di approccio ad essi suggeriti dal carisma dell’unità; nel secondo e nel terzo si sofferma su quelli che Chiara Lubich è solita definire i due “pilastri” fondamentali della teologia che scaturisce dal carisma: l’unità e Gesù Abbandonato, vedendoli in questo caso non tanto come temi ma come “metodo” del fare teologia. Saggi e Ricerche BABELE/KOINE’: LO SPAZIO POLITICO TRA MONDIALITA’ E COMUNITA’. PARTE II: LA DIMENSIONE “INFRAMONDIALE” – di Pasquale Ferrara – Continuando il viaggio affascinante alla scoperta delle grandi direttrici del mutamento internazionale, l’Autore presenta altre due sezioni dello studio sul “nuovo mondo” emerso dalla dissoluzione dei granitici equilibri dei blocchi. Nella prima, proprio in considerazione della necessità di una “rifondazione” delle relazioni internazionali e degli strumenti analitici dopo la fine della guerra fredda, l’Autore propone, dopo un’esposizione delle riflessioni internazionalistiche sul “sistema” delle relazioni tra gli attori internazionali istituzionali e sulla “sorte”, in questo quadro, dello “stato-nazione”, l’ipotesi di un nuovo schema concettuale che consenta di “interpretare” i cambiamenti in corso, e tentare di ricondurre le trasformazioni in atto ad una plausibile chiave di lettura unificante. Nella parte conclusiva, si individua nella “sfida” del pluralismo culturale l’elemento critico, ma insieme qualificante, della riflessione politologica contemporanea, nel segno della continuità, ormai ineludibile, dell’ambito politico “interno” con quello internazionale, transnazionale e sovranazionale. Si tenterà poi di prospettare alcune ipotesi organizzative nella direzione dell’allargamento, ormai urgente, dell’angusta nozione di cittadinanza e della “mappa dei diritti” nelle società contemporanee. Per questo ripensamento dello spazio politico, sarà necessario enucleare alcuni concetti-guida, pochi iniziali (e “indiziali”) riferimenti per una “politica inframondiale” o “uniplurale”, le cui caratterizzazioni e le cui forme realizzative richiedono una mobilitazione di competenze e di saperi. LA PERSONA IN RELAZIONE: “CORNICI” E RAPPORTO FRA CULTURE – di Settimio Luciano – L’A. nell’articolo accenna al ritorno della “categoria” di persona nel linguaggio filosofico. Per esprimere la profondità e complessità dell’apertura costitutiva umana, che fonda la molteplicità di relazioni intrattenute da una persona nel confronto interno con la propria cultura e con altre culture, è arricchente servirsi della metafora della “cornice”: La considerazione sulla cornice diventa rilevante per approfondire la comunicazione se si pensa che il messaggio (il contenuto della comunicazione) viene ricevuto o donato in un determinato quadro e questo è rilevante per il messaggio stesso. Tale riflessione non permette solo di esplicare la complessità delle relazioni presentandole all’interno di una cornice, ma può diventare utile per spiegare la molteplicità delle culture e la possibilità di comunicare fra esse: aiuta, quindi, a illuminare cosa significhi rivolgersi a culture diverse dalla propria per esservi ospitati e abitarvi. Spazio letterario DIZIONARIETTO – PRIMA PARTE – di Giovanni Casoli – “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Libri UN IMPORTANTE STUDIO BIBLICO SU GESU’ CRISTO– di Gerard Rossé – Scrivere una Cristologia neotestamentaria non è un fatto banale. Un tale impegno costituisce normalmente il punto d’arrivo di tanti anni di studio, di approfondimento, una tappa importante nella vita di un biblista, segno di maturità raggiunta nel campo. L’A. presenta il saggio di Cristologia di R. Penna, uscita in due volumi (l’ultimo pubblicato nei primi mesi del 1999) che dimostra la maturità dell’esegeta.   (altro…)

Dio Bellezza e il Movimento dei Focolari

Dio Bellezza e il Movimento dei Focolari

Carissimi artisti e artiste del nostro Movimento e fuori, un abbraccio a tutti come prima cosa. L’inizio di questo nostro convegno sulla bellezza e l’arte coincide, nel giorno e nell’ora – 23 aprile 1999, ore 11 -, con la promulgazione, ad opera di sua Eminenza il card. Poupard, della lettera di Giovanni Paolo II agli artisti. Una coincidenza meravigliosa. Non è difficile scorgervi il dito di Dio, Signore della storia, e anche della piccola, ma sua, storia del nostro Movimento. Questa lettera è dedicata: “A quanti con appassionata dedizione cercano nuove ‘Epifanie’ della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica”. Quindi anche a voi. Ed ora il tema. Il febbraio scorso una settantina di Vescovi nostri, amici del Movimento dei Focolari ha visitato Loppiano. Al loro rientro, qui, al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, desiderando – come sono soliti – pormi delle domande, dissero: “Durante la nostra visita a Loppiano abbiamo sperimentato in maniera travolgente il ‘bello’, che fiorisce con grande trasparenza e purezza nel Movimento dei Focolari. Come spieghi tu questo fiorire di espressioni artistiche sempre più elevate?” La domanda non mi ha sorpreso, ma mi ha confermato che quella nostra cittadella sta a dimostrare, con le sue artiste ed i suoi artisti, che l’arte è di casa nel nostro Movimento. E’ proprio così. E ciò spiega il titolo di questa mia conversazione; titolo che concentra il mio dire unicamente su un preciso programma. Non ho intenzione, infatti, e non sono nemmeno in grado, di parlare dell’arte in generale, delle varie scuole che l’hanno espressa durante i secoli, e così via. Il mio intrattenimento con voi, ora sull’arte si limita al rapporto che essa ha con la nostra realtà ecclesiale e sociale, la quale abbraccia non solo l’aspetto religioso della vita, ma tutti gli aspetti umani, non esclusa l’arte. Non v’è dubbio che anche per noi la Bellezza assoluta è Dio, Dio che è eterno. E l’artista autentico partecipa, in qualche modo, di questa qualità di Dio. Lo fa attraverso le sue opere, che – se veramente opere d’arte – sopravvivono a lui, alla sua vita terrena, giacché portano in sé qualcosa di eterno: segno evidente che esse sono in relazione con la Bellezza suprema ed eterna, con Dio o con l’anima umana creata da lui immortale. Di conseguenza l’opera d’arte, con i suoi pennelli, con gli scalpelli, con le note, con i versi…, non può non essere vista come una sorta d’incarnazione, una rinnovata incarnazione, come scrive Simone Weil nel suo libro L’ombra e la grazia: “Nell’arte vera c’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile” . Ma, se è così, l’arte non può non elevare, non può non portare in alto, in quel cielo da cui è discesa. E di questo effetto ne parla Platone nel Convivio se, in qualche modo, bellezza ed arte hanno lo stesso destino. Egli definisce la bellezza: “un raggio che, dalla faccia di Dio, come da sole bellissimo, si tramanda e si partecipa alla natura creata; e, resa questa bella e graziosa con i suoi colori, fa ritorno al medesimo fonte da cui è uscito.” Di questa sublime capacità di elevare, propria dell’arte, ne ho fatto anch’io, recentemente, una piccola esperienza, che non penso fuori luogo narrarvi qui come atto di amore; esperienza che mi ha pure chiarito la funzione della bellezza, così avvertita oggi. Un giorno, durante un viaggio in macchina ho voluto ascoltare l’Ave Maria di Gounod. Eseguita magistralmente, ricordava un velo finissimo ricamato qua e là delicatissimamente. Quell’ascolto ha elevato il mio spirito, sì da aprirmi all’unione con Dio ed in lui con Maria, da Gounod sublimemente esaltata. Era la festa della maternità divina e io l’ammiravo bellissima oltre ogni dire. Se Dio – pensavo – l’ha immaginata madre sua in Gesù, Verbo incarnato, splendore del Padre, quale grado di bellezza può aver mai raggiunto? Non lo potevo immaginare! E le ho parlato del mio arrivo da lei, forse non lontano. Ed ho avvertito che la sua presenza faceva sparire decisamente, in me e attorno a me, tutto ciò a cui posso essere ancora legata, anche di bello e di buono, su questa terra. E’ bastato, infatti, il pensiero di lei e la sua bellezza per stampare come un sigillo nel mio cuore: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene”. Ed ho capito che quelle virtù, che ogni giorno le chiedo d’insegnarmi, necessarie perché tali parole diventino realtà, lei me le dava, non elencandomele, non spiegandomele, non infervorandomi a viverle, ma mostrandosi. Sì, è la bellezza, di cui Maria è esemplare divino, che salverà il mondo. E tutto ciò ho compreso perché una musica, ascoltata, era opera d’arte.  Ma da quando e come la bellezza ha avuto cittadinanza nel nostro Movimento? Sin dall’inizio, da subito. A ciò che si comunicava, illuminati dai primi bagliori del carisma, che cominciava a palesare un certo divino disegno sulla Chiesa e sull’umanità, la reazione di chi ascoltava non era: “Che vero!” “Che buono!” No! Era: “Che bello!” “Bello” certamente perché ciò che si diceva aveva attinenza con Dio bellezza. Era sapienza? E belle, poi, veramente più belle, ci apparivano spesso le persone che parlavano del nostro grande Ideale: era impressione comune. La bellezza ha preso sede nel nostro Movimento anche perché la parola che il nostro carisma iniziava a dire al mondo era una sola: unità, e unità significa altissima armonia. Ed è stata questa vocazione all’armonia che ha caratterizzato, fin nei dettagli concreti, la nuova cultura che stava per fiorire, effetto del carisma. Essa richiedeva, ad esempio, che bello, di buon gusto fosse anche persino il vestire delle persone; bello, armonioso, accogliente l’arredamento delle case, dei centri, delle cittadelle. Il Figlio dell’Uomo sembrava ripeterci: “Guardate i gigli del campo…” . E il bello e la nostra considerazione del bello si sono affacciati poi, di tempo in tempo, quando, ad esempio, estatici di fronte ad uno scritto, ad una pittura, ad una scultura, non si poteva non esprimere incanto e profonda ammirazione. Ecco – per dare un solo saggio – una nota pagina sulla “Madonna di Michelangelo”, che accoglie chiunque entra in San Pietro, dove, fra il resto, si sottolinea un concetto già espresso: “E’ l’anima umana, riflesso del Cielo, che l’artista trasfonde nell’opera, e in questa ‘creazione’, frutto del suo genio, l’artista trova una seconda immortalità: la prima in sé – nella sua anima -, come ogni altro uomo nato quaggiù; la seconda nelle sue opere, attraverso le quali si dona nel corso dei tempi all’umanità. L’artista è forse il più vicino al santo. Perché se il santo è tale portento che sa donare Dio al mondo, l’artista dona, in certo modo, la creatura più bella della terra: l’anima umana.” Perché conscia poi del grande valore dell’arte, concludo: “E giacché a te, Madonnina, ho parlato, a te chiedo un dono: sazia questa sete di bellezza che il mondo sente: manda grandi artisti, ma plasma con essi grandi anime, che col loro splendore avviino gli uomini verso il più bello tra i figli degli uomini: il tuo dolce Gesù”. Voi tutti conoscete più o meno la lunga storia di oltre cinquant’anni del nostro Movimento, le sue finalità, la sua spiritualità, l’universalità delle chiamate, la sua consistenza, la diffusione, i suoi dialoghi a 360 gradi, le sue opere concrete… E, fra queste ultime, ecco quelle artistiche, più o meno pregiate; fiorite qua e là da nostre artiste e artisti che, senza far strepito, in Italia, così come in altre nazioni d’Europa ed anche in Asia, in America del Sud, in Australia hanno mantenuta ben salda – pur esprimendosi in arte – la loro posizione nell’Opera, la loro particolare vocazione in essa. Di qui gli incoraggiamenti brucianti, dati di tempo in tempo: “Grazie, perché col vostro sforzo contribuite a dire al mondo che Dio è bello! Questa è sempre stata la passione, una delle passioni del nostro Movimento sin dall’inizio: gridare con la vita, con le parole, con le arti che Dio è Bellezza e non solo Verità e non solo Bontà. Anche per questo il Movimento è nato come una pacifica contestazione verso modi di pensare di allora”. Ha una lunga e ricca storia il nostro Movimento, e questa storia è segnata da tre tappe. Dio, infinità Bontà – Si sa, infatti, che Dio non è solo bello; egli è anche buono e vero. E non si dà bellezza, non si dà autentico bello, se esso non è anche verità e bontà. Nel nostro Movimento questa coincidenza è stata sempre sottolineata e ci è stato dato di approfondirla in modo originale. In un primo tempo, durato decenni, lo Spirito Santo ci ha spinto ad imitare Dio nel suo essere buono, amore. In Dio Amore era concentrato, infatti, sin dall’inizio, il nostro Ideale. Dio, infinita bontà, che siamo stati chiamati, in certo modo, a rivivere, divenendo così un minuscolo sole accanto al Sole. Dio Verità – In un secondo tempo, dopo che tale stile della nostra vita si era precisato e ben stagliato, lo Spirito ci ha chiamato ad un altro compito: cercare di ricavare dal nostro vivere, dalla nostra spiritualità, personale e comunitaria insieme, la dottrina che vi soggiace: la sua verità. Era – parlando francescanamente – “Parigi”, città degli studi, che s’aggiungeva ad “Assisi”, città della vita. Una realtà, Parigi, però che non si è mai temuto distruggesse Assisi, secondo il noto detto. Anzi l’esperienza quasi decennale della nostra Scuola Abbà, che vi si dedica, conferma come la luce della verità aiuti sommamente la vita, la vita d’amore. Dio Bellezza – In un terzo tempo, quello in cui viviamo, avvertiamo che lo Spirito Santo ci spinge a manifestare non solo la bontà di Dio nella nostra vita, non solo la verità, ma anche la bellezza. E abbiamo chiamato quest’epoca col nome di un’altra città: “Hollywood”. E’ un Hollywood che non annienta Assisi e Parigi, ma che le suppone, che non è se stessa, se non essendo anche le altre due. Gesù in noi, infatti, vuol essere Vita (Assisi), Verità (Parigi), Via (Hollywood). E molti segni annunciano quest’ultimo tempo ed il congresso che celebriamo in questi giorni ne è una delle prove. Esso non poteva svolgersi prima. I nostri artisti, infatti, non sono tali se non hanno già maturato in sé le esperienze della bontà e della verità. Un altro sintomo, fra i molti, che non è fuori luogo menzionare qui, è questo. Ultimamente, ma non è la prima volta, una settantina fra attori, registi, produttori, scrittori, tecnici della città di Hollywood, quella vera, si sono radunati con alcune persone del nostro Movimento in una villa di Los Angeles, in un clima di entusiasmo e di festa, desiderosi di apprendere il nostro spirito e di portarlo ad Hollywood. Uno scrittore cinematografico ebreo presente, così ha concluso l’incontro: “Facciamoci coraggio e viviamo quello che abbiamo sentito oggi qui: diamo il primo posto a Dio ad Hollywood, sul nostro set, nei nostri lavori”. Ora attendono di ritornare fra noi. Lì dunque, artisti che arrivano a Dio; qui persone che amano e conoscono Dio e ambiscono essere veri artisti. Non c’è differenza in fondo: nell’una e nell’altra maniera il nostro terzo tempo cammina. Ma… chi è l’artista? Esagera Salvatore Fiume – pittore contemporaneo – quando, confondendo l’ispirazione artistica con lo Spirito Santo, afferma che l’artista è come uno che scrive sotto dettatura: Dio detta e lui dipinge, scolpisce, fa musiche, poesie, architetture, romanze e concetti filosofici. Quando l’opera è completa – dice -, con ingenua improntitudine la firma . Ma non è nemmeno troppo lontano dalla verità, se lo stesso Concilio Vaticano II invitava gli artisti così: “Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo”  . Senz’altro non si è artisti se non muniti d’un autentico talento. Non si è artisti se non si conosce l’ispirazione artistica. Ma anche lo Spirito Santo non è lontano da essi. Giovanni Paolo II lo ha affermato: “Quando scorriamo certe stupende pagine di letteratura e di filosofia o gustiamo ammirati qualche capolavoro d’arte o ascoltiamo brani di musica che hanno del sublime, ci è spontaneo riconoscere in queste manifestazioni del genio umano un qualche luminoso riflesso dello Spirito di Dio” . E come sono i nostri artisti? Com’è la nostra arte? Com’è l’arte secondo la cultura del nostro popolo? Sappiamo che il Vaticano II afferma: “Siano riconosciute dalla Chiesa anche le nuove tendenze artistiche adatte ai nostri tempi” . E’ un imperativo valido anche per noi, ed è ciò a cui i nostri artisti cercano di adeguarsi. Ora – si sa – abbiamo un’arte moderna; essa ha le sue esigenze, nuove e interessanti, le sue ragioni che non mancano di fascino. Spero se ne parli in questi giorni. Pur tuttavia, come è avvenuto per tutti i generi d’arte nei secoli, c’è chi non la interpreta sempre bene e con l’arte può fare anche del male. Noi abbiamo detto: è bello Dio, ma è anche buono e vero. Il vero artista non può considerare il bello staccato dal buono e dal vero. Il bello, infatti, che non contiene in sé… (applausi). Il bello infatti che non contiene in sé il vero e il buono, è un nulla, è un vuoto. Afferma Vladimir Soloviev: “La bellezza senza la verità e il bene è solo idolo” . Ma, se il bello contiene il bene, nulla di peccaminoso, di scandaloso, di ciò che è male può essere appannaggio dell’arte, nemmeno di passaggio, nemmeno con l’intenzione di farvi trionfare il bello. Il fine, anche qui, non giustifica i mezzi. Senz’altro l’arte potrà presentare il brutto, il dolore, l’angoscia, il dramma, la tragedia. Tutto ciò può essere espresso in un’opera d’arte e lo ha sempre potuto. Anzi, afferma un gruppo di artisti espressionisti: “Le gioie, i dolori degli uomini, dei popoli stanno dietro alle iscrizioni, ai quadri, ai templi, dietro alle cattedrali e alle maschere, dietro alle opere musicali, agli spettacoli e alle danze. Dove questi non formano il fondamento, dove forme vengono fatte vuote, senza ragione, lì non c’è nemmeno l’arte” . Gesù in croce abbandonato non era certamente bello. Egli, infatti, Verbo di Dio, artista sommo, incarnandosi, ha assunto tutto della nostra natura umana, sino a farsi peccato, ma mai peccatore. Per cui “non ha apparenza né bellezza – dice Isaia – per attirare i nostri sguardi, né splendore per provare in lui diletto” . Eppure in Lui – ce lo dice la fede – era già presente la gloria della risurrezione. E’ Gesù crocifisso e abbandonato il modello degli artisti e soprattutto dei nostri artisti, che, come lui, sapranno sempre offrire, anche nelle situazioni più tristi, un raggio di speranza. Il Santo Padre agli artisti ha detto: “Tutti i grandi artisti si sono imbattuti, talvolta per tutta la vita, nel problema della sofferenza e della disperazione. Ciononostante molti hanno lasciato trasparire dalla loro arte qualcosa della speranza che è più grande della sofferenza e della decadenza. Esprimendosi nella letteratura o nella musica, plasmando la materia, dipingendo, essi hanno evocato il mistero di una nuova salvezza, di un mondo rinnovato. Anche nella nostra epoca questo deve essere il messaggio di artisti autentici, che vivono sinceramente tutto ciò che è umano e persino il tragico dell’uomo, ma che sanno con precisione svelare nel tragico stesso la speranza che ci è data” . I nostri artisti poi dovranno ricordare che l’arte, perché novella incarnazione, è misteriosa; non può non essere tale. Per questo è pudica, non svela tutto. Vedendo certe deviazioni in arte vien da ritornare con nostalgia ai grandi artisti di ieri, scomparsi magari da anni, ma le cui opere sopravvivono ancora adesso. E’ il caso del dramma della monaca di Monza ne I Promessi Sposi per la quale Manzoni ha speso due sole parole: “La sventurata rispose” . Il Movimento – come si è detto – porta una nuova cultura. Essa è caratterizzata nei suoi più vari ambiti da nuovi paradigmi che derivano dalla visione trinitaria dell’uomo e del mondo. Lo si sta costatando, in questi ultimi anni, nel campo della teologia, della filosofia, della sociologia, dell’economia, della politica; ultimamente della psicologia. Non può quindi mancare nel regno dell’arte. Questa nuova concezione del vivere umano nelle sue diverse espressioni è possibile perché gli uomini e le donne del Movimento si sforzano di assumere sempre uno stile di vita personale e comunitario insieme, come esige la nostra spiritualità collettiva. Vale perciò anche per chi si dedica all’arte: “Prima di tutto il mutuo amore fra voi”. E, come per ogni cultura apparsa sulla terra, anche per la nostra, l’arte svelerà sue peculiari caratteristiche. Noi dobbiamo attenderci un’arte nuova. E quali saranno queste sue qualità? Esse non potranno non essere espressione del suo aspetto personale e di quello collettivo. E’ vero perciò, e lo ribadisco ora, quanto ho affermato l’estate scorsa: non è sempre necessario, per fare una nuova opera d’arte, che essa sia frutto d’un collettivo con la presenza di Gesù  in mezzo agli artisti. E’ necessario che egli sia posto fra i singoli una volta, per divenire così un’anima sola, perché poi, distinti, il tutto sia in ciascuno. Ma è possibile anche quanto affermo ora. Dice Camus: “Chi ha scelto il destino di essere artista perché si sente diverso, ben presto impara che non fruirà della propria arte e della diversità stessa se non cerca la similitudine con gli altri. L’artista si forgia in questo perpetuo andirivieni fra se stesso e gli altri, a mezza strada tra la bellezza – dalla quale non può astrarsi – e la società – dalla quale non può strapparsi -” . E allora, giacché la vicinanza con gli uomini non toglie nulla all’artista, anzi lo arricchisce, si può pensare anche ad un’arte frutto d’un gruppo di artisti dediti alla medesima espressione artistica, uniti nel nome di Gesù, espressa poi nelle opere dall’uno o dall’altro. Perché occorre chiedersi: se questo modo di agire è possibile in altri campi, perché non si può usare in quello dell’arte? E non potrà, questo modo di agire, essere foriero di impensate e nuove opere d’arte? Noi lo vediamo nella Scuola Abbà: quale vantaggio per ogni scienza una tale maniera di porsi al suo servizio! Come il soffio dello Spirito Santo già presente nel singolo può ingigantire! Nella Scuola Abbà, infatti, c’è un “di più”: un “di più” di umano e di divino. L’atmosfera lì è sacra. Senza esagerare, sembra spesso di essere in Paradiso. Ma chiede un prezzo: la morte totale di ogni io perché un altro Io, e questo maiuscolo, trionfi in tutti ed in ciascuno. E’ ciò che abbiamo imparato nel ’49 quando una luce sfolgorante ci ha abbagliato. C’è, a queste intuizioni o ispirazioni, un commento a più voci di persone presenti alla Scuola Abbà. Una dice: “A chi ama Gesù abbandonato è richiesto il distacco dal modo di pensare, dal pensare stesso: è questo il non-essere della mente. Ma ciò vale anche per la volontà, la memoria e la fantasia – sinonimo ora di ispirazione artistica -. Noi raggiungiamo queste morti ‘perdendo’ – sapendo spostare anche quella che si pensa la propria ispirazione -“. Un’altra voce della Scuola Abbà si esprime così: “Parliamo anche della fantasia perché, forse, a differenza di altre spiritualità, noi sottolineiamo ‘il bello’. La fantasia però va perduta nell’unità, ma per avere poi una sorta di nuova ‘ispirazione’, e poter vedere, con essa, in certo modo, il Cielo, e anche – in maniera nuova – tutte le cose della terra”. Una terza voce assicura: “Uno degli effetti della nostra spiritualità sarà un’arte nuova. A proposito di questa arte nuova, noi tante volte abbiamo lasciato che le persone dedite all’arte, presenti nel Movimento, fossero libere di lavorare ciascuna per conto suo, dato che, in genere, è molto difficile che gli artisti possano intendersi fra loro. Invece, se ci fosse fra loro l’unità, vedremmo apparire opere d’arte mai viste”. E un’ultima voce aggiunge: “E’ classico, proprio della vita spirituale, questo perdere tutto e ritrovare tutto…, ma non si trova facilmente negli autori spirituali che bisogna perdere persino la fantasia per avere una fantasia nuova; si dice in genere solo che bisogna perdere la fantasia. Qui, invece, si trova poi una fantasia nuova. Questo si può capire meglio oggi, dopo il Vaticano II, quando si afferma che tutto l’umano è reso cristiano. La fantasia non è più una cosa che allontanerebbe dalla vita ascetica richiesta per la santità. Noi abbiamo precorso queste posizioni del Vaticano II”. E si aggiunge: “C’è qui anche la radice di una rinnovata e grande arte cristiana”. Sta nascendo quindi fra noi un’arte nuova. O forse è già nata. Lo potrete costatare voi dalle esperienze che gli artisti narreranno. E qui viene da ricordare la “Risurrezione di Roma”: “Bisogna far rinascere Dio in noi, tenerlo vivo e traboccarlo sugli altri con fiotti di Vita e risuscitare i morti. E – poi – tenerlo vivo fra noi, amandoci (…). Allora tutto si rivoluziona: politica ed arte, scuola e religione, vita privata e divertimento. Tutto” . Il Movimento dei Focolari ha a che fare con la bellezza anche perché deve rispecchiare, in certo qual modo, nei singoli e nel suo insieme, Maria. Maria è la tota pulchra, la tutta bella. Maria è, infatti, l’espressione compiuta della redenzione operata dal Cristo. E’ la creatura nella quale l’immagine del Creatore risplende in maniera unica. Per questo è oggetto dell’attenzione e dell’ammirazione degli artisti, particolarmente sensibili alla bellezza e al richiamo del soprannaturale; è oggetto quindi di ispirazione per la pittura e la scultura, per la musica e la letteratura… . Dante nel suo Paradiso dirà di lei: “La faccia che a Cristo più s’assomiglia” ; Boccaccio le canta: “Adorni il ciel con tuoi lieti sembianti” . E Petrarca: “Di sol vestita, coronata di stelle, al sommo sole piacesti sì che ‘n te sua luce ascose” . Tasso la vede: “Stella onde nacque la serena luce, luce di non creato e sommo Sole” . Maria, la bellissima, avvolga col suo splendore i nostri artisti! Concludiamo. Ogni Movimento a fondamento religioso, come il nostro, che ha segnato la storia, è fiorito in arti religiose nuove. Speriamo veramente che così sia anche del nostro, se è vero che è opera di Dio. Ma è vero: tempo fa me lo scolpì nel cuore il Papa quando disse: “Opera di Maria? Opera di Dio”. A voi artisti e artiste l’onore e l’onere d’esserne la sua espressione artistica. Chiara Lubich Castel Gandolfo, 23 aprile 1999 (altro…)

Aprile 1999

Per coloro che ascoltavano Gesù l’immagine della porta era familiare, dal sogno di Giacobbe, alla Gerusalemme dalle porte antiche che Dio ama in modo particolare. Ma sono le parole del Salmo 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” che Gesù fa sue, dando ad esse una nuova pienezza di significato. Egli è la porta della salvezza, che introduce ai pascoli dove i beni divini sono liberamente offerti. Egli è l’unico mediatore e per mezzo suo gli uomini hanno accesso al Padre. “Egli è la porta del Padre – dice Ignazio d’Antiochia – attraverso la quale entrano Abramo e Isacco e Giacobbe e i profeti e gli apostoli e la Chiesa”.

«Io sono la porta…».

Sì, l’immagine della porta doveva far breccia nel cuore degli ebrei che, varcando quella della Città Santa e quella del Tempio, avevano la sensazione dell’unità e della pace, mentre i profeti facevano sognare una Gerusalemme nuova dalle porte aperte a tutte le nazioni. E Gesù si presenta come colui che realizza le promesse divine, e le aspettative di un popolo la cui storia è tutta segnata dall’alleanza, mai revocata, con il suo Dio. L’idea della porta assomiglia e si spiega bene con l’altra immagine usata da Gesù: “Io sono la via, nessuno va al Padre se non attraverso di me”. Dunque lui è veramente una strada e una porta aperta sul Padre, su Dio stesso.

«Io sono la porta…».

Cosa significa concretamente nella nostra vita questa Parola? Sono tante le implicazioni che si deducono da altri passi del Vangelo che hanno attinenza con il brano di Giovanni, ma fra tutte scegliamo quella della “porta stretta” attraverso la quale sforzarsi di entrare per entrare nella vita. Perché questa scelta? Perché ci sembra quella che forse più ci avvicina alla verità che Gesù dice su se stesso e più ci illumina sul come viverla. Quando diventa, egli, la porta spalancata, pienamente aperta sulla Trinità? Là dove la porta del Cielo sembra chiudersi per lui, egli diviene la porta del Cielo per tutti noi. Gesù abbandonato è la porta attraverso la quale avviene lo scambio perfetto tra Dio e l’umanità: fattosi nulla, unisce i figli al Padre. E’ quel vuoto (il vano della porta) per cui l’uomo viene in contatto con Dio e Dio con l’uomo. Dunque lui è la porta stretta e la porta spalancata nello stesso tempo, e di questo possiamo farne esperienza.

«Io sono la porta…».

Gesù nell’abbandono si è fatto per noi accesso al Padre. La parte sua è fatta. Ma per usufruire di tanta grazia anche ognuno di noi deve fare la sua piccola parte, che consiste nell’accostarsi a quella porta e nel passare al di là. Come? Quando ci sorprende la delusione o siamo feriti da un trauma o da una disgrazia imprevista o da una malattia assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù che tutte queste prove, e mille altre ancora, ha impersonato. Sì, egli è presente in tutto ciò che ha sapore di dolore. Ogni nostro dolore è un suo nome. Proviamo, dunque, a riconoscere Gesù in tutte le angustie, le strettoie della vita, in tutte le oscurità, le tragedie personali e altrui, le sofferenze dell’umanità che ci circonda. Sono lui, perché egli le ha fatte sue. Basterà dirgli, con fede: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene”, basterà fare qualcosa di concreto per alleviare le “sue” sofferenze nei poveri e negli infelici, per andare al di là della porta, e trovare al di là una gioia mai provata, una nuova pienezza di vita. Chiara Lubich (altro…)

Marzo 1999

Gesù pronunciò queste parole in occasione della morte di Lazzaro di Betania, che poi Egli al quarto giorno risuscitò. Lazzaro aveva due sorelle: Marta e Maria. Marta, appena seppe che arrivava Gesù, gli corse incontro e gli disse: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Gesù le rispose: “Tuo fratello risusciterà”. Marta replicò: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. E Gesù dichiara: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Gesù vuol fare intendere chi egli è per l’uomo. Gesù possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la Vita, quella Vita che non muore. Se hai letto il Vangelo di Giovanni, avrai trovato che Gesù ha pure detto: “Come il Padre ha la Vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la Vita in se stesso” (cf 5,26). E poiché Gesù ha la Vita, la può comunicare.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Anche Marta crede alla risurrezione finale: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”.  Ma Gesù, con la sua affermazione meravigliosa: “Io sono la risurrezione e la vita”, le fa capire che non deve attendere il futuro per sperare nella risurrezione dei morti. Già adesso, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella Vita divina, ineffabile, eterna, che non morirà mai. Se Gesù è in loro, se egli è in te, non morirai. Questa Vita nel credente è della stessa natura di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova. E questa straordinaria Vita, che già esiste anche in te, si manifesterà pienamente nell’ultimo giorno, quando parteciperai, con tutto il tuo essere, alla risurrezione futura.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resterà per te, come per tutti, un’esperienza unica, fortissima e forse temuta. Ma non significherà più il non senso di un’esistenza, non sarà più l’assurdo, il fallimento della vita, la tua fine. La morte, per te, non sarà più realmente una morte.

«Io sono la risurrezione e la vita».

E quando è nata in te questa Vita che non muore? Nel battesimo. Lì, pur nella tua condizione di persona che deve morire, hai avuto da Cristo la Vita immortale. Nel battesimo, infatti, hai ricevuto lo Spirito Santo che è colui che ha risuscitato Gesù. E condizione per ricevere questo sacramento è la tua fede, che hai dichiarato attraverso i tuoi padrini. Gesù, infatti, nell’episodio della risurrezione di Lazzaro, parlando a Marta, ha precisato: “Chi crede in me, anche se muore vivrà” (…) “Credi tu questo?” (Gv 11,26). “Credere”, qui, è un fatto molto serio, molto importante: non implica solo accettare le verità annunciate da Gesù, ma aderirvi con tutto l’essere. Per avere questa vita, devi dunque dire il tuo sì a Cristo. E ciò significa adesione alle sue parole, ai suoi comandi: viverli. Gesù lo ha confermato: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). E gli insegnamenti di Gesù sono riassunti nell’amore. Non puoi, quindi, non essere felice: in te è la Vita!

«Io sono la risurrezione e la vita».

In questo periodo in cui ci si prepara alla celebrazione della Pasqua, aiutiamoci a fare quella sterzata, che occorre sempre rinnovare, verso la morte del nostro io perché Cristo, il Risorto, viva sin d’ora in noi. Chiara Lubich   (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 121

Editoriale LA PASSIONE PER LA VERITA’ – di Piero Coda – La sfiducia nella verità è, alla fine, sfiducia nella persona umana, nella sua capacità di ricercare con l’intelligenza e di aderire con la libertà a quella verità che la fa diventare pienamente ciò ch’è chiamata ad essere secondo il disegno di Dio. Dietro l’ultima enciclica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio, c’è la stessa passione per l’uomo che, sin dalla Redemptor hominis, ha animato tutto il suo pontificato. Si tratta di una difesa del significato umanistico della filosofia e insieme dell’invito ad aprirsi con fiducia e gratitudine all’orizzonte nuovo, e pieno, di verità donato dalla rivelazione e, di conseguenza, a un rapporto d’amicizia e di cooperazione – pur nella distinzione dei ruoli e nell’autonomia dei metodi – con la teologia. Di fronte alla tentazione della frammentazione e allo smarrimento del senso, il Papa stimola dunque a intraprendere con coraggio la via d’una visione unitaria e organica del sapere che abbia al suo centro la persona umana gratuitamente e liberamente orientata al ritrovamento di sé nel mistero del Verbo incarnato. Nella luce dell’ideale dell’unità Lezione tenuta per la consegna del dottorato honoris causa in “ECONOMIA e commercio” – di Chiara Lubich – Il 29 gennaio 1999 l’Università Cattolica del “Sacro Cuore”, ha consegnato, presso la Sede della Facoltà di Ecomia e Commercio di Piacenza, la Laurea Honoris Causa a Chiara Lubich. ASPETTI DELLA MARIOLOGIA NELLA LUCE DELL’INSEGNAMENTO DI CHIARA LUBICH – di Marisa Cerini – Marisa Cerini, già nota ai lettori della Rivista di cui era membro di Redazione, è recentemente scomparsa. L’articolo propone l’ultimo suo studio-conversazione su alcuni aspetti della mariologia che emergono dal pensiero di Chiara. Già pubblicato nel n. 110 di questa Rivista, tale studio era stato da lei recentemente rielaborato all’interno di una prospettiva teologica che vuole assumere il mistero dell’Uni-Trinità di Dio quale sua fonte e suo modello. Saggi e Ricerche L’EDUCAZIONE ALLA PROSOCIALITA’ – di Roberto Roche – La prosocialità sta emergendo all’interno della psicologia evolutiva e sociale per le positive conseguenze e i benefici che produce a vantaggio di tutti i componenti di un sistema sociale. I benefici per i recettori delle azioni prosociali sono stati abbondantemente investigati, mentre è meno conosciuta la loro incidenza sugli autori, che, in una definizione rigorosa, non possono ricevere ricompense esterne, estrinseche o materiali. In quest’articolo l’A., Professore presso l’Università catalana di Barcellona, desidera analizzare i possibili benefici relazionali e intrapsichici che può supporre l’azione prosociale, sia per i recettori sia, specialmente, per gli autori, nell’ambito della salute mentale e, a livello più generale nell’ambito della convivenza collettiva. BABELE/KOINE’. LO SPAZIO POLITICO TRA MONDIALITA’ E COMUNITA’ – PARTE PRIMA: DOPO IL MURO – di Pasquale Ferrara – A circa un decennio dalla caduta del Muro di Berlino, la ricerca di un introvabile “nuovo ordine mondiale” rimane uno dei temi centrali del dibattito sull’assetto delle relazioni internazionali in questo scorcio di secolo. L’Autore, prendendo le mosse dalle riflessioni condotte da studiosi ed esperti svolte in diversi ambiti disciplinari (storiografia, relazioni internazionali, antropologia culturale, economia internazionale), si propone di disegnare un percorso tra le .”strutture di pensiero” che caratterizzano questa ricerca, giungendo alla formulazione di alcune indicazioni interpretative centrate sul rapporto tra pluralismo culturale e forme politiche. Lo studio si articola in tre sezioni. Nella prima – qui presentata – si tenta una panoramica, necessariamente lacunosa, ma abbastanza indicativa, della riflessione internazionalistica e “culturale” sul cambiamento di civiltà innescatosi dal 1989. Si tratta, in realtà, di una riflessione che talvolta ha assunto la portata di un’ermeneutica del Novecento, tesa a identificare il “senso” del XX secolo e a prospettare le linee evolutive del III millennio. IN CERCA DEL TESTO – di Piero Capelli – Nel suo articolo Il Pentateuco, il Deuteronomista e Spinoza (“Nuova Umanità” XIX [1997/5] 113, pp. 571-589) P. Sacchi ha osservato che il lavoro critico su un testo letterario (biblico, nella fattispecie) deve avere come presupposto appunto l’esistenza di un oggetto che chiamiamo “testo” : il che implica l’esistenza di un autore seppur implicito (secondo la definizione di W.C. Booth). Malgrado le difficoltà di una definizione del “testo” su questi piani (cf gli studi di P. Schäfer sulla letteratura rabbinica), va definito anche nel suo esistere all’interno di un sistema (la letteratura) come inizio di un processo di storia degli effetti, spesso di straordinaria complessità. Spazio letterario GOCCE D’ANIMA – di Claudio Guerrieri “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Per il dialogo IL DIALOGO POSSIBILE. INTERVISTA A MONS. ANTONIO PETEIRO FREIRE, ARCIVESCOVO DI TANGERI – a cura di Luce Mauro Pesce – In un paese come il Marocco, l’Islam si incontra dappertutto, a tutti i livelli della vita sociale, politica, morale, economica, familiare e naturalmente religiosa: è un mondo coi suoi valori, con il suo Libro, coi suoi profeti. Nell’articolo, Mons Antonio Peteiro, sollecitato dalle domande dell’intervistatore, ci dona l’esperienza di quindici anni di vita a contatto col mondo islamico nord-africano. Libri VISIONE DI DIO E VISIONE DEL MONDO NELLA SOFIOLOGIA DI S. BULGAKOV. ALCUNE RIFLESSIONI SU “L’ALTRO DI DIO” DI P. CODA – di L’ubomír Zák – La recente pubblicazione de “L’altro di Dio2. Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov (Città Nuova, Roma 1997) di P. Coda è un importante evento che conferma il sempre crescente interesse della teologia italiana, ma non solo, per il patrimonio teologico e filosofico di S.N. Bulgakov, uno dei pensatori ortodossi più originali di questo secolo. Proseguendo nel suo cammino di ricerca teologica scandita dai volumi Evento pasquale. Trinità e storia (1984) e Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel (1987), Coda mostra come nella teologia bulgakoviana, illuminata dal simbolo della Sofia, la kenosi del Cristo e il suo abbandono sulla croce possono diventare centrale chiave ermeneutica per penetrare nel mistero trinitario dell’Amore di Dio e nel destino di divinizzazione dell’uomo creato a sua immagine. Caratterizzato da un’interpretazione attenta e penetrante di Bulgakov e da una profonda sensibilità ecumenica, L’altro di Dio si presenta come uno stimolante contributo alla ricerca dei nuovi percorsi necessari per un ripensamento della teologia in generale e dell’ontologia trinitaria in particolare.   (altro…)

“Una silenziosa rivoluzione antropologica”; “Una psicologia aperta al Trascendente”

“Chiara Lubich e i suoi seguaci hanno acceso una rivoluzione silenziosa che non esiterei a definire ‘antropologica’, viste le conseguenze personali e sociali che ha operato.” Così il prof. Mark Borg relatore della laudatio alla cerimonia di conferimento della laurea h.c. in Lettere e Psicologia a Chiara Lubich, all’Università di Malta. Affollata l’Aula Magna, sale ed esterno collegati via video. Tra le 1500 persone, numerose personalità civili e religiose: 6 ministri, 17 parlamentari delle due diverse formazioni politiche, il Presidente della Corte, giudici, il Segretario del partito nazionalista, gli ambasciatori d’Italia, Cina e Tunisia, il Vescovo e il Nunzio. Stampa, radio e TV dell’isola. La motivazione riconosce “il contributo significativo di Chiara Lubich nel campo del pensiero umano” per due motivi: “ha tradotto in prassi e metodo di ricerca il nucleo del messaggio cristiano e ha offerto alle discipline umanistiche, in particolare, una chiave ermeneutica originale dell’uomo. E ciò avendo proposto un modello di vita spirituale che rispetta l’individualità della persona e la reciprocità dei rapporti , con una valutazione positiva del dolore e di ciò che è negativo nella storia personale e collettiva. In questo modo ha aiutato a coltivare una visione integrale della persona umana nel campo della psicologia”. “La via dello sviluppo psicologico alla piena umanità” è stata definita dal Prof. Peter Serracino Inglott, già Rettore dell’Università, la lezione di Chiara Lubich che per la prima volta ha trattato del contributo alla psicologia della spiritualità dell’unità. Ne aveva tracciato gli inizi da “quella prima scintilla scoccata in piena guerra: la scoperta di Dio Amore” poi punto per punto l’accostamento alla psicologia. Un solo esempio: dopo aver rilevato che “in psicologia si sa che il bisogno fondamentale di una persona è di essere riconosciuta nella propria identità unica e irripetibile”, la neo-laureata ha parlato dell’esperienza della scoperta che Dio ci ama: “La scoperta e il raggiungere la certezza che Dio la ama, che Dio l’ha voluta, che non è abbandonata al caso o a un destino cieco, è la base perché abbia la sicurezza psicologica che dà senso alla sua vita… Solo la certezza che Dio è Amore, amore-anche-per-lei, le dà la forza di continuare a uscire da sé, a vivere, ad amare ed a creare comunione sociale” “Una grande svolta: una psicologia aperta al Trascendente”. Così in un messaggio a Chiara Lubich i 70 professionisti nel campo delle scienze psicologiche provenienti da vari Paesi d’Europa. E per avviare lo sviluppo dei nuovi semi gettati in questo difficile campo delle scienze psicologiche, i 70 professionisti si sono riuniti il giorno seguente per il 1^ Convegno. Erano psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, di numerose scuole (freudiana, junghiana, adleriana, cognitiva-comportamentale, sistemica…). Scambiando le riflessioni suscitate dalla lezione di Chiara L. ed esperienze vissute sul campo si intravvedono spunti per una nuova psicologia. Una sola impressione: Herman Schweers, psichiatra e psicoterapeuta, Germania: “Vedo qui un approccio psico-antropologico che può non solo fruttare nelle diverse scuole psicologiche, ma anche arricchirle nel senso che si sviluppino pienamente al servizio delle esigenze dell’uomo di oggi: vivere un’unità interiore con gli altri, con la società e con quel Divino che porta in sé”. (altro…)

Febbraio 1999

Se tu sei credente hai una funzione da svolgere nei confronti degli altri, di coloro che non conoscono Dio. Il cristiano, infatti, non può sfuggire il mondo, nascondersi, o considerare la religione un affare privato. Egli vive nel mondo perché ha una responsabilità, una missione di fronte a tutti: essere la luce che illumina. Anche tu hai questo compito, e, se così non farai, la tua inutilità è come quella del sale che ha perso il suo sapore o come quella della luce che è divenuta ombra.

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

La luce si manifesta nelle “opere buone”. Essa risplende attraverso le opere buone che compiono i cristiani. Mi dirai: ma non solo i cristiani compiono opere buone. Altri collaborano al progresso, costruiscono case, promuovono la giustizia… Hai ragione. Il cristiano certamente fa e deve fare anche lui tutto questo, ma non è questa la sua funzione specifica. Egli deve compiere le opere buone con uno spirito nuovo, quello spirito che fa sì che non sia più lui a vivere in se stesso, ma Cristo in lui. L’evangelista, infatti, non pensa solo a degli atti di carità isolati (come visitare i prigionieri, vestire gli ignudi o come tutte le opere di misericordia attualizzate alle esigenze di oggi), ma pensa all’adesione totale della vita del cristiano alla volontà di Dio, così da fare di tutta la propria vita un’opera buona. Se il cristiano fa così, egli è “trasparente” e la lode che si darà per quanto compie non arriverà a lui, ma a Cristo in lui, e Dio, attraverso di lui, sarà presente nel mondo. Il compito del cristiano è dunque lasciar trasparire questa luce che lo abita, essere il “segno” di questa presenza di Dio fra gli uomini.

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

Se l’opera buona del singolo credente ha questa caratteristica, anche la comunità cristiana in mezzo al mondo deve avere la medesima specifica funzione: rivelare attraverso la sua vita la presenza di Dio, che si manifesta là dove due o tre sono uniti nel suo nome, presenza promessa alla Chiesa fino alla fine dei tempi. La Chiesa primitiva dava grande rilievo a queste parole di Gesù. Soprattutto nei momenti difficili, quando i cristiani venivano calunniati, allora li esortava a non reagire con la violenza. Il loro comportamento doveva essere la migliore confutazione del male che si diceva contro di loro. Si legge nella lettera a Tito: “Esorta i più giovani ad essere assennati, offrendo te stesso come esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro” (2, 6-8).

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

E’ la vita cristiana vissuta che è luce anche al giorno d’oggi per testimoniare Dio. Ti narro un fatterello. Antonietta è sarda, ma per lavoro s’è portata in Francia. E’ impiegata in un ufficio dove molti non hanno voglia di lavorare. Poiché è cristiana e vede in ciascuno Gesù da servire, aiuta tutti ed è sempre calma e sorridente. Spesso qualcuno si arrabbia, alza la voce e si sfoga con lei, prendendola in giro: “Giacché hai voglia di lavorare, prendi, fa’ anche il mio lavoro!” Lei tace e sgobba. Sa che non sono cattivi. Probabilmente ognuno ha i suoi crucci. Un giorno il capufficio va da lei mentre gli altri sono assenti e le chiede: “Ora mi deve dire come fa a non perdere mai la pazienza, a sorridere sempre”. Lei si schermisce dicendo: “Cerco di stare calma, di prendere le cose dal verso buono”. Il capufficio batte un pugno sulla scrivania ed esclama: “No, qui c’entra Dio sicuramente, altrimenti è impossibile! E pensare che a Dio io non ci credevo!” Qualche giorno dopo Antonietta è chiamata in direzione, dove le dicono che sarà trasferita in un altro ufficio “affinché – continua il direttore – lo trasformi come ha fatto con quello dov’è ora”. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”. Chiara Lubich   (altro…)

Settanta volte sette

La  vicenda di una giovane ivoriana, attraverso il racconto degli anni dell’adolescenza, e di come è risucita a non cedere alla via del rancore e dell’odio Sono nata a Man, una cittadina appoggiata su verdi colline, nella zona geograficamente più interessante della Costa d’Avorio. Dalla mia casa si vede chiaramente il monte Toukoui, la cima più alta del mio paese, e qui sono cresciuta serenamente, insieme a nove fratelli e con i miei genitori, fino a quando mio padre ha iniziato a frequentare una donna e a trascurare la famiglia. Da quel momento, l’atmosfera in casa è diventata insopportabile, carica di tensioni e di malumori che sfociavano a volte in liti furiose. La mamma piangeva spesso. Noi figli eravamo disorientati di fronte a questa situazione, inaspettata e per noi inaccettabile. Vivevamo tutti oppressi da un malessere che si accresceva di giorno in giorno. In questo periodo travagliato avevo circa tredici anni e iniziavo a frequentare delle ragazze come me che cercavano con semplicità, più con i fatti che con le parole, di vivere il vangelo e di guardare gli avvenimenti e le persone che incontravano ogni giorno alla luce dell’amore di Dio. Frequentandole, mi sentivo a mio agio, valorizzata, amata, e il carico di amarezze che mi pesava sul cuore mi sembrava più facile da portare. La situazione è però precipitata, perché la mamma, esasperata dal difficile rapporto con mio padre, ha deciso, ad un certo punto, di lasciare la nostra casa. Per me è stato un momento terribile: mi sono sentita sola e stavo male, mi chiedevo come fare a vedere l’amore di Dio in quello che stava accadendo, come fare ad amare ancora mio padre e come aiutare mia madre. Sapevo che Gesù mi ama e mi è vicino, ma non riuscivo più a formulare un solo pensiero che non finisse con un gigantesco punto interrogativo. Dentro di me si era rotto qualcosa e l’unica parola che mi martellava nella testa e nel cuore era: perché? La nuova moglie del papà è venuta ad abitare con noi, ma né io né i miei fratelli riuscivamo a legare con lei e ad accettarla. Soprattutto il più grande di noi la rifiutava e litigava costantemente con lei e con nostro padre. In questa situazione conflittuale, anche papà era sempre più infelice: ha iniziato a bere, a smettere progressivamente di prendersi cura di se stesso e di tutta la famiglia, a vivere solo e afflitto. Ci sembrava, a volte, di vivere in un incubo. Per risollevare un po’ la nostra famiglia e permetterci di frequentare regolarmente la scuola, alcuni zii hanno iniziato ad ospitarci a turno nelle loro case. Col passare degli anni si sono formati due clan all’interno della mia famiglia: da una parte mio padre con sua moglie e i loro bambini, dall’altra i miei fratelli. Io mi sforzavo di non parteggiare per nessuno dei due gruppi e di non farmi coinvolgere nelle loro dispute. L’unica cosa che avrei voluto era riavere una famiglia vera e un clima di affetto sincero, invece mi ritrovavo sempre da sola, impotente, a chiedermi: perché? Nei momenti bui è stato il rapporto con le mie amiche – con cui cerchiamo di vivere il vangelo – a darmi la forza per continuare ad amare tutti e due i clan. Ogni volta che ci incontriamo e ci raccontiamo i nostri reciproci passi nel vivere le parole del vangelo, si ristabilisce tra noi un clima di unità che dà nuova luce e vigore a tutte. Una sera in cui mi sentivo a terra, bloccata dentro il dolore del mio problema familiare, ho riscoperto, con il loro aiuto, Gesù vicino proprio nei momenti per lui più dolorosi, quando sulla croce ha gridato al Padre: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”  Così, acquistava un senso molto più profondo ogni “perché?” lacerante che anch’io mi sentivo dentro. Unito a quello di Gesù, il mio “perché?” si rivelava sempre di più una perla preziosa da trasformare in un amore per tutti più grande e concreto. Durante l’anno abitavo con gli zii e mi impegnavo il più possibile a scuola. Ad ogni vacanza tornavo a casa e cercavo di darmi da fare, iniziando dalle piccole faccende domestiche. Molte volte, la sera, trovavo mio padre, ubriaco, addormentato fuori della porta di casa nostra. Mi si stringeva il cuore a vederlo in quello stato. Allora, lo portavo nella sua stanza, lo mettevo a letto e facevo per lui il possibile affinché si sentisse amato anche nei momenti in cui lui per primo non si amava. Finita la scuola, ho iniziato a frequentare l’università ad Abidjan, la capitale, situata sulla costa, una città moderna a quasi cinquecento chilometri da Man. Il rapporto con mio padre diventava sempre più difficile: non riuscivo a trovare in lui una breccia che mi permettesse di parlargli e di ricostruire il colloquio e l’affetto. Imputavo a lui e a sua moglie tutte le sofferenze della mia adolescenza. Mi sentivo offesa e tradita, usurpata dell’affetto di una famiglia, costretta a crescere da sola proprio negli anni in cui maggiormente avrei avuto bisogno dell’appoggio dei miei genitori. Ho deciso, ad un certo punto, che non volevo più vedere mio padre. Ad un incontro con le mie amiche non sono riuscita più a trattenermi e ho sfogato la mia rabbia: “Voglio vendicarmi del male che lui e sua moglie mi hanno fatto. Andrò a casa loro e distruggerò tutti i beni di lei perché è lei quella che ha smantellato la mia famiglia e ha preso a forza il posto di mia madre”. Ero fuori di me dal dolore per tanto tempo sopportato in silenzio. Avevo perduto la parte più vera di me, il rapporto con Gesù, che in tante occasioni mi aveva dato la gioia e la forza di reagire con l’amore alle difficoltà e alle incomprensioni. Le altre hanno ascoltano il mio sfogo fino in fondo: partecipi, non mi hanno però giudicata per quello che dicevo. È stato un momento molto forte. Quel peso, prima insostenibile, ora lo portavamo insieme. Il fuoco dell’amore che si era spento, si è riacceso in me più forte di prima. Ho ripensato alla frase di Gesù: “Perdona settanta volte sette”. Era più difficile che vendicarsi, ma volevo con tutte le forze impegnarmi a perdonare veramente mio padre. Farlo non è stato semplice: ho avuto tanti slanci e cadute, ma tutto serve. Quando mi sono laureata non riuscivo a dirlo a mio padre: mi mancava ancora il coraggio di riavvicinarlo. Ho trovato un impiego in un’azienda. A quel punto, mia madre, con la quale ho un bel rapporto, mi ha spinta a chiamare papà per informarlo. Ho esitato, poi ho capito che era venuto il momento di fare un passo concreto verso di lui. L’ho chiamato al telefono. Lui era felice di sentirmi e orgoglioso dei risultati che avevo ottenuto. Mi ha mandato del miele e ha iniziato, da allora, a darmi regolarmente, ogni settimana, notizie di sé e della sua vita. Ero commossa nel raccogliere i frutti inaspettati del mio sofferto, piccolo gesto di perdono vero. Posato finalmente il giogo del rancore, mi sembrava che tutto, anche le minime cose fossero più luminose, più belle e più facili. Capivo che quando Gesù entra nella nostra vita la trasforma e non ci lascia più soli. Poi, mio padre è venuto a trovarmi: abbiamo parlato a lungo e lui mi ha confidato i suoi problemi e i suoi sforzi per liberarsi dalla schiavitù dell’alcool. Mi ha lasciato in consegna una somma di denaro per sostenere negli studi i miei fratelli. Quando è ripartito non saprei dire chi dei due fosse più sollevato, se lui o io, per questo rapporto tra noi che è ricominciato daccapo dando calore ad entrambi. Con la scusa dei soldi da amministrare, ho riunito i miei fratelli e tutti insieme abbiamo deciso di mettere una pietra su quello che è stato. Abbiamo progettato di fare una sorpresa a nostro padre e di andarlo a trovare a casa sua. Da quel momento abbiamo iniziato tutti a guardarlo con occhi nuovi, perché trovi in noi la forza e l’affetto che gli mancano. Ora sono veramente serena e ho ritrovato la voglia di vivere. (S. F. – Costa d’Avorio) (altro…)

Gennaio 1999

A gennaio, in molte parti del mondo, i cristiani celebrano insieme la loro comune fede con preghiere e incontri speciali. Il tema scelto per la Settimana, a ciò specialmente dedicata, è tratto dall’Apocalisse. Leggiamolo per intero: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il ‘Dio-con-loro’. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,3). La Parola di Dio di questo mese ci interpella. Se vogliamo essere parte del suo popolo dovremo lasciarlo vivere fra noi. Ma come è possibile questo, e come fare per pregustare un po’, fin da questa terra, quella gioia senza fine che verrà dalla visione di Dio? E’ proprio questo che Gesù ci ha rivelato, è proprio questo il senso della sua venuta: comunicarci la sua vita d’amore col Padre, perché anche noi la viviamo. Già da ora noi cristiani potremo vivere questa frase ed avere Dio fra noi. Averlo fra noi richiede, come affermano i Padri della Chiesa, certe condizioni. Per Basilio è vivere secondo la volontà di Dio, per Giovanni Crisostomo è l’amare come Gesù ha amato, per Teodoro Studita è l’amore reciproco, e per Origene è l’accordo di pensiero e di sentimenti per giungere alla concordia che “unisce e contiene il Figlio di Dio”. Nell’insegnamento di Gesù c’è la chiave per far sì che Dio abiti fra noi: “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi” (cf Gv 13,34). E’ l’amore reciproco la chiave della presenza di Dio. “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi” (1Gv 4,12) perché: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20), dice Gesù.

«Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo».

Non è dunque così lontano e irraggiungibile quel giorno che segnerà il compimento di tutte le promesse dell’Antica Alleanza: “In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”(Ez 37,27). Tutto si avvera già in Gesù che continua, al di là della sua esistenza storica, ad essere presente fra coloro che vivono secondo la nuova legge dell’amore scambievole, quella norma cioè che li costituisce popolo, il popolo di Dio. Questa Parola di vita è dunque un richiamo pressante, specie per noi cristiani, a testimoniare con l’amore la presenza di Dio. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Il comandamento nuovo così vissuto pone le premesse perché si attui la presenza di Gesù fra gli uomini. Nulla possiamo fare se questa presenza non è garantita, presenza che dà senso alla fraternità soprannaturale che Gesù ha portato sulla terra per tutta l’umanità.

«Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo».

Ma spetta soprattutto a noi, cristiani, pur appartenendo a diverse comunità ecclesiali, di dare al mondo spettacolo di un solo popolo fatto di ogni etnia, razza e cultura, di grandi e di piccoli, di malati e di sani. Un unico popolo del quale si possa dire, come dei primi cristiani: “Guarda come si amano e sono pronti a dare la vita l’uno per l’altro”. E’ questo il “miracolo” che l’umanità attende per poter sperare ancora e un contributo necessario al progresso ecumenico, al cammino verso l’unità piena e visibile dei cristiani. E’ un “miracolo” alla nostra portata, o meglio, di Colui che, abitando fra i suoi uniti dall’amore, può cambiare le sorti del mondo, portando l’umanità intera verso l’unità. Chiara Lubich   (altro…)

Siamo entrati come Chiese diverse. Dovremmo uscire come unico popolo cristiano

Al centro di Berlino – come in un’isola – si trova la Chiesa luterana “della memoria”, della quale è rimasta la vecchia torre, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Accanto, la nuova chiesa moderna, a forma di ottagono, senza finestre ma con i muri quasi interamente di vetro di colore azzurro/indaco. All’interno un’atmosfera di profonda pace e raccoglimento. La zona dell’altare è dominata da un grandioso Cristo Risorto colore oro con le braccia aperte che danno alla figura la forma del crocifisso. Quando inizia la cerimonia la chiesa è gremita da oltre 1.000 persone, appartenenti a 26 chiese. Nell’indirizzo di benvenuto il Cardinale Sterzinsky sin dalle prime battute parla della missione di Chiara e del Movimento in cui vede l’aspetto carismatico della Chiesa, aspetto però – aggiunge – che “si è sempre sottomesso al ministero ecclesiale per essere verificato e approvato”. Poi mette in rilievo quanto lo spirito del Movimento sia genuinamente evangelico. Esprime la sua speranza in questa spiritualità ecumenica, speranza che è stata il motivo dell’invito a Chiara da parte dell’intero Consiglio Ecumenico della città. Dopo la preghiera della Sig.ra Sylvia von Kekulé, pastore della chiesa, la lettura di parte della I lettera di Giovanni. Poi prende la parola Martin Kruse, vescovo evangelico emerito di Berlino, da anni amico dei Focolari. Parla del suo primo incontro col Movimento attraverso Klaus Hemmerle, già vescovo di Aquisgrana, dell’impressione per l’ immediatezza con cui si accoglie la Parola di Dio, la si mette in vita e se ne sperimentano i frutti. E continua: “Oggi, tutte le Chiese hanno bisogno di riimparare l’alfabeto del Vangelo.” Poi parla Chiara, sotto il grande Crocifisso-Risorto. Dipinge con alcuni tocchi il quadro della nostra società: materialista, edonista, sempre più priva di valori. E mentre aumenta la necessità di un dialogo con persone di altre religioni, spesso ormai nostre concittadine, sembra ancora lontana la piena comunione tra i cristiani. Il rimedio? C’è. Chiara non lascia nessun dubbio: i cristiani, sia come singoli che come Chiese, devono riscoprire Dio come Amore e mettere Lui al primo posto. Come ad Aachen e a Muenster, anche a Berlino Chiara parla dell’”arte di amare“. Con forza e convinzione si rivolge ad ognuno personalmente. Ma, a differenza delle altre volte, qui si rivolge anche alle Chiese. Anche per intere comunità vale l’amare tutti, l’amare per primi, vedere in Gesù, che sulla croce per noi sperimenta persino l’abbandono del Padre, la misura dell’amore. Più volte incoraggia i presenti: “Provatelo! Provatelo subito, adesso, qui!” Non si accontenta di un discorso, vuole suscitare una risposta che coinvolge la vita. Parla del dialogo del popolo, di un unico popolo di Dio, dell’esperienza vissuta a Londra nel novembre ’96: la presenza del Risorto tra cattolici, anglicani e membri della altre chiese uniti dall’amore scambievole, le aveva dato l’impressione che niente e nessuno potrà mai dividerci se Lui è in mezzo a noi. Poi mette da parte le carte e fa una domanda a tutti: “Perché non anche qui e adesso?”. “Stasera – continua – siamo entrati come Chiese diverse. Dovremmo uscire come un unico popolo cristiano”. E’ questo il momento culmine, che tocca i cuori, che commuove, che fa scoppiare l’applauso. In una grande sala accanto segue un ricevimento. Chiara parla della sua predilezione per la Germania segnata da una doppia croce: la divisione politica e quella religiosa, di cui quella politica ormai è abbastanza risolta. Poi comunica un desiderio: “Quando verrò la prossima volta in Germania vorrei vedere anche un bel passo in avanti per quanto riguarda la seconda croce, la divisione tra le Chiese”. Un epilogo che sembrava superare il discorso tenuto in chiesa. Segue però un’altra finale, perché prima di accomiatarsi Chiara torna al microfono: “Perché non chiediamo ai due vescovi presenti (Sterzinsky e Kruse) di mostrare qui, adesso, davanti a tutti questo impegno?” La risposta è un fragoroso applauso. Con una stretta di mano viene espresso l’impegno di costruire quest’unico popolo di Dio. Ad essi si aggiunge anche il pastore battista Dietmar Luetz. Una nuova pagina si apre. (altro…)

Preghiera ecumenica di inizio Avvento nella chiesa evangelico-luterana di S. Anna di Augsburg

“Abbiamo sperimentato uno spostamento d’accento nella nostra visione dell’ecumenismo”. Così l’Oberkirchenrat emerito Johannes Merz, evangelico luterano, ha espresso in estrema sintesi le intense giornate vissute a fine novembre nella cittadella ecumenica di Ottmaring da 34 vescovi amici del Movimento dei Focolari di 7 Chiese, ortodossa, siro-ortodossa, anglicana, evangelico-luterana, vetero-cattolica, cattolica e Chiesa del Sud-India, provenienti da 12 Paesi. Tema-guida del Convegno è stato ‘L’amore cristiano come stile di vita ecumenico’. Con lo sguardo rivolto non a ciò che ci divide, ma alla grande ricchezza che i cristiani possono condividere e vivere insieme sin d’ora, si è aperto il convegno di quest’anno, il 17°, anche perché l’incontro era immerso nella vita pulsante della cittadella, in cui da più di 30 anni vivono sia cattolici del Movimento dei Focolari che la fraternità evangelico-luterana della Bruderschaft vom gemeinsamen Leben (Comunità di vita comune). Un “dialogo di popolo” quello che si è respirato sin dal primo momento, quando il convegno si è aperto con i vespri evangelici nella cappella gremita del Centro di incontri, e ogni volta che i vescovi si ritrovavano con gli abitanti della cittadella per assistere insieme alla liturgia di una delle Chiese presenti: momenti di profonda preghiera che hanno fatto assaporare le ricchezze delle Chiese d’Oriente e di quelle d’Occidente. Lo si è avvertito fortemente pure quando, in apertura di ogni giornata, dopo una meditazione biblica sul tema dell’amore cristiano proposta di giorno in giorno da un vescovo di una Chiesa diversa, giovani e famiglie di varie Chiese hanno raccontato esperienze di Vangelo vissuto e si è potuta cogliere in tutti una stessa vita ed una profonda comunione: la realtà di un unico popolo, quello di Cristo. E ancora quando si sono approfonditi gli effetti della spiritualità dell’unità nella Chiesa evangelico-luterana, anglicana e nelle Chiese d’Oriente: presentazioni incisive che hanno messo in luce come questa spiritualità non cancelli affatto i tesori che custodiscono le diverse tradizioni cristiane, ma anzi li illumini e li metta in rilievo. Ma il momento culmine è stato segnato dalla Preghiera ecumenica di inizio d’Avvento nella chiesa evangelico-luterana di Sant’Anna ad Augsburg. Nell’attiguo convento carmelitano Lutero aveva soggiornato nel 1518 durante i suoi colloqui con il cardinale Cajetano, ritenuti determinanti per i rapporti fra Lutero e Roma. In quel luogo carico di storia 900 persone sono convenute con i vescovi. Pezzi eseguiti con gli Ottoni e inni dei due cori della chiesa, il Madrigalchor ed il Posaunenchor, ben esprimevano la tradizione evangelica. Dopo alcune parole introduttive del decano dott. Rudolf Freudenberger e la lettura della preghiera di Gesù per l’unità – “Che siano uno, Padre, come io e te” – è intervenuta Chiara Lubich. In questo momento in cui persistono ostacoli sul cammino ecumenico, le sue parole sono scese in profondità. Non ha taciuto le difficoltà, ma ha dato loro un volto e un nome, quello di Gesù che sulla croce giunge a gridare l’abbandono del Padre “per riportare così gli uomini in seno al Padre e nel reciproco abbraccio”. “Non sarà difficile – ha detto – vedere proprio in Gesù abbandonato la stella più luminosa che deve illuminare il cammino ecumenico. In Lui la luce e la forza per non fermarsi nel trauma, nello spacco della divisione, ma per andare sempre al di là e trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile”. “L’amore reciproco con questa misura – ha ancora spiegato – porta ad attuare l’unità. Ed effetto dell’unità è la presenza viva di Gesù fra più persone nella comunità, come da lui promesso a due o più uniti nel suo nome. Gesù fra un cattolico e un evangelico che si amano, fra anglicani e ortodossi, fra un’armena e una riformata… Quanta pace sin d’ora, quanta luce per un retto cammino ecumenico. Avvertiremo di formare sin d’ora in certo modo, un solo popolo cristiano che potrà essere un lievito per la piena comunione tra le Chiese”. Parole che non solo hanno suscitato immediata adesione tra i presenti, ma che in quella chiesa erano un’esperienza viva, visibile. Piena la sintonia con il messaggio del card. Cassidy, Presidente del Pontifico Consiglio per l’unità dei cristiani, il quale, nella sua lettera ai vescovi, ha definito il Convegno “realtà e simbolo di koinonia (comunione)” ed ha invitato tutti a non dimenticare mai, tra le luci e ombre del cammino ecumenico “l’aiuto potente dello Spirito e la sua saggezza che ci infonde coraggio, determinazione, speranza”. E significativa la coincidenza con quanto il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I aveva espresso nel messaggio inviato ai vescovi, sottolineando l’urgenza di mostrare al mondo “in un modo tangibile e significativo che apparteniamo ad un’unica famiglia nella quale tutti i membri sono tra loro profondamente legati”. Se rimaniamo lontani gli uni dagli altri – aveva ribadito -“rafforziamo il senso di alienazione che investe la società umana contemporanea”. Il dialogo di popolo dunque, come via che apre nuove speranze, sigillata dal patto di amore vicendevole che i vescovi hanno stretto nella cappella del Centro di Ottmaring, rinnovando insieme le loro promesse battesimali. Ben esprimono l’esperienza e la speranza vissuta in quei giorni le parole del Patriarca Athenagoras citate dal metropolita rumeno-ortodosso Serafim nel suo intervento al Convegno: “Se uno si disarma, se si espropria, se si apre al Dio Uomo che fa nuove tutte le cose, allora, Lui cancella il passato e ci dona un tempo nuovo in cui tutto è possibile”. (altro…)

Ecumenismo di popolo per accelerare il cammino verso la piena unità delle Chiese

Si sono aperte nuove speranze per l’ecumenismo: la tappa più significativa è stata segnata durante la preghiera ecumenica di inizio d’Avvento ad Augsburg nella chiesa evangelico-luterana di sant’Anna, luogo dolorosamente carico di storia. Nel 1518 avviene l’incontro tra Lutero e il legato del Papa, cardinale Cajetano, ritenuto determinante per la rottura con la Chiesa di Roma. E proprio in questa chiesa si sono mostrati nuovi segni di unità. Sono presenti 34 vescovi, evangelico-luterani, ortodossi, anglicani, siro-ortodossi, cattolici, vecchio-cattolici, provenienti da 12 paesi, dall’India al Brasile, dalla Siria alla Germania, Gran Bretagna, Italia. Sono i vescovi amici dei Focolari che in quei giorni erano riuniti per il loro convegno annuale, il 17°, nella cittadella ecumenica dei Focolari ad Ottmaring nei pressi di Augsburg. La chiesa è gremita da evangelico-luterani, cattolici, e appartenenti alle Chiese libere. E’ un’esperienza viva, visibile, del dialogo della vita, di una vita sostanziata dall’amore del Vangelo, capace così di fare di molti cristiani un unico popolo costituito dall’unico battesimo, dal comune patrimonio delle Scritture, dai padri della Chiesa, dai primi Concilî , e dalla spiritualità ecumenica. Ed è questo ecumenismo di popolo – che non si contrappone a quello dei vertici, anzi lo sostiene – che Chiara Lubich rilancia in Germania: “Potrà essere lievito – ha detto – per la piena comunione visibile tra le Chiese”. Lo aveva detto anche a Berlino, nella chiesa evangelico-luterana della Memoria, invitata dal Consiglio Ecumenico di 26 Chiese, presieduto dal card. Sterzinsky, arcivescovo della città. Chiara parla del dialogo del popolo, di un unico popolo di Dio, dell’esperienza vissuta a Londra nel novembre ’96, quando la presenza del Risorto tra cattolici, anglicani e membri delle altre chiese uniti dall’amore scambievole, le aveva dato l’impressione che niente e nessuno potrà mai dividerci se Lui è in mezzo a noi. “Perché non anche qui e adesso?”. “Stasera – continua – siamo entrati come chiese diverse. Dovremmo uscire come un unico popolo cristiano”. Tra le altre tappe dell’intenso viaggio di Chiara Lubich in Germania: Aquisgrana, dove Chiara interviene, su invito del vescovo H. Mussinghoff, nel duomo di Carlo Magno sulla sua esperienza del dialogo tra le religioni, di estrema attualità in un’Europa dove musulmani e buddisti sono nostri concittadini. “Stiamo lavorando con la Chiesa – ha detto – affinché il pluralismo religioso dell’umanità non sia più causa di divisioni e di violenza, ma acquisti il sapore di una sfida: quella di ricomporre l’unità della famiglia umana al di là delle differenze”. E ancora Münster dove, nel duomo gremito dai giovani, su invito del vescovo Lettman, Chiara parla loro della sua vocazione, ma anche della chiamata, rivolta a ciascuno, a mettere Dio al primo posto: “Puntate in alto – chiede ai giovani – abbiamo una vita sola. Conviene spenderla bene”. (altro…)

Dicembre 1998

Ecco la grande novità annunciata e donata da Gesù all’umanità: la figliolanza di Dio, diventare figli di Dio per grazia. Ma come e a chi viene donata questa grazia? “A quanti lo accolsero” e a quanti lo accoglieranno nel corso dei secoli. Occorre accoglierlo nella fede e nell’amore, credendo in Gesù come nostro Salvatore. Ma cerchiamo di capire più in profondità cosa significhi essere figli di Dio. Basta guardare a Gesù, il Figlio di Dio, e al suo rapporto con il Padre: Gesù pregava il Padre suo come nel “Padre nostro”. Per lui il Padre era “Abbà”, cioè il babbo, il papà, cui egli si rivolgeva con accenti di infinita confidenza e di sterminato amore. Ma, giacché era venuto in terra per noi, non gli è bastato essere lui in questa condizione privilegiata. Morendo per noi, redimendoci, ci ha fatti figli di Dio, sorelle e fratelli suoi, e ha dato anche a noi, tramite lo Spirito Santo, la possibilità di essere introdotti nel seno della Trinità. Cosicché anche a noi è stata resa possibile quella sua divina invocazione: “Abbà, Padre!” (Mc 14,36 – Rm 8,15): “papà, babbo mio”, nostro, con tutto ciò che essa comporta: certezza della sua protezione, sicurezza, abbandono al suo amore, consolazioni divine, forza, ardore; ardore che nasce in cuore a chi è certo di essere amato.

«A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».

Ciò che ci fa uno con Cristo e con lui figli nel Figlio è il battesimo e la vita di grazia che ci viene da esso. In questo passo del Vangelo c’è, inoltre, una parola che svela pure il dinamismo profondo di questa “figliolanza” da realizzare giorno dopo giorno. Occorre, infatti, “diventare figli di Dio”. Si diventa, si cresce come figli di Dio, con la nostra corrispondenza al suo dono, vivendo la sua volontà che è tutta concentrata nel comandamento dell’amore: amore verso Dio e amore verso i prossimi. Accogliere Gesù significa, infatti, riconoscerlo in tutti i nostri prossimi. E anch’essi potranno avere la possibilità di riconoscere Gesù e credere in lui se nel nostro amore per loro scorgeranno un tratto, una scintilla dell’amore sconfinato del Padre.

«A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».

In questo mese, in cui ricordiamo specialmente la nascita di Gesù su questa terra, cerchiamo di accoglierci reciprocamente, vedendo e servendo Cristo stesso gli uni negli altri. E allora una reciprocità di amore, di conoscenza di vita come quella che lega il Figlio al Padre nello Spirito, si instaurerà anche fra noi e il Padre, e sentiremo affiorare sempre di nuovo sulle nostre labbra l’invocazione di Gesù: Abbà, Padre. Chiara Lubich (altro…)

Intervento di Chiara Lubich alla preghiera ecumenica di inizio Avvento

Un supplemento d’amore perché le Chiese siano ognuna dono per le altre

Come vediamo la situazione delle nostre Chiese ora, alle soglie del Terzo Millennio? Se noi cristiani diamo uno sguardo alla nostra storia di 2000 anni ed in particolare a quella del secondo millennio, non possiamo non rimanere ancora addolorati nel costatare come essa è stata spesso un susseguirsi di incomprensioni, di liti, di lotte. Colpa certamente di circostanze storiche, culturali, politiche, geografiche, sociali… Ma anche del venir meno fra i cristiani di quell’elemento unificatore loro tipico: l’amore. Proprio così. E allora, per poter tentare oggi di rimediare a così grave male, dobbiamo tener presente il principio della nostra comune fede: Dio. Egli, perché Amore, chiama pure noi ad amare. Non si può, infatti, pensare di poter amare gli altri se non ci si sente profondamente amati, se non è viva in tutti noi, cristiani, la certezza che Dio ci ama. In questi tempi mi sembra che è proprio Lui, Dio Amore, che, in certo modo, deve nuovamente tornare a rivelarsi non solo a noi singoli cristiani, ma anche alle Chiese che componiamo. Ed Egli ama la Chiesa per quanto si è comportata nella storia secondo il disegno che Dio aveva su di essa. Ma anche – e qui è la meraviglia della misericordia di Dio – la ama pure se non vi ha corrisposto, permettendo la divisione, solo nel caso però che ora ricerchi la piena comunione con le altre Chiese. E questa consolantissima convinzione emerge da un testo di Giovanni Paolo II, che ha fiducia in Colui che trae il bene dal male. Alla domanda: “Perché lo Spirito Santo ha permesso tutte queste divisioni?”, pur ammettendo che può essere stato per i nostri peccati, ha aggiunto: “Non potrebbe essere (…) che le divisioni siano state (…) una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente…” (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 1994, p.167) Dobbiamo dunque credere che Dio è Amore anche per le Chiese. Ma, se Dio ci ama, noi non possiamo certo rimanere inerti di fronte a tanta divina benevolenza. Da veri figli e figlie dobbiamo contraccambiare il suo amore anche come Chiesa. Ogni Chiesa nei secoli si è, in certo modo, pietrificata in se stessa per le ondate di indifferenza, di incomprensione, se non di odio reciproco. Occorre perciò in ognuna un supplemento d’amore. Amore verso le altre Chiese, dunque, e amore reciproco fra le Chiese, quell’amore che porta ad essere ognuna dono alle altre, poiché si può prevedere che nella Chiesa del futuro una ed una sola sarà la verità, ma espressa in varie maniere, osservata da varie angolazioni, abbellita da molte interpretazioni. Amore reciproco però che è veramente evangelico, e quindi valido, se praticato nella misura voluta da Gesù: amatevi gli uni gli altri – Egli ha detto -, come io vi ho amato. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15,13).

Gesù in croce nel culmine del dolore: chiave, luce e forza per ricomporre l’unità

E Lui l’ha data per noi, nella sua passione e morte, dove ha sofferto con l’agonia nell’orto, con la flagellazione, l’incoronazione di spine, la crocifissione, ma anche con quel culmine del suo dolore, che ha espresso nel grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Teologi e mistici affermano che questo patire fu la sua prova più alta, la sua tenebra più nera. Ora, sembra che, allo scopo di edificare pienamente la comunione nell’amore vicendevole, sia necessario oggi contemplare e riconoscersi particolarmente in quel dolore estremo. E si capisce. Se Gesù si era offerto a porre rimedio al peccato del mondo e quindi alla divisione degli uomini staccati da Dio e, di conseguenza, disuniti fra loro, non poteva compiere questa sua missione se non sperimentando in sé un’abissale separazione: quella di Lui, Dio, da Dio, sentendosi abbandonato dal Padre. Gesù però, riabbandonandosi al Padre (“Nelle tue mani consegno il mio spirito” – Lc 23,46), ha superato quell’infinito dolore e ha riportato così gli uomini in seno al Padre e nel reciproco abbraccio. Ma, se le cose stanno così, non sarà difficile vedere in Lui, proprio in Lui, Gesù abbandonato, la stella più luminosa che deve illuminare il cammino ecumenico. Sembra che un lavoro ecumenico sarà veramente fecondo in proporzione di quanto, chi vi si dedica, vedrà in Gesù crocifisso e abbandonato, che si riabbandona al Padre, la chiave per capire ogni disunità e per ricomporre l’unità. Questi trova in Lui la luce e la forza per non fermarsi nel trauma, nello spacco della divisione, ma per andare sempre al di là e trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile.

Effetto dell’unità vissuta: la presenza del Risorto nella comunità….

L’amore reciproco con questa misura porta così ad attuare l’unità. E l’unità vissuta ha un effetto, che è pure esso, per così dire, un pezzo forte per un ecumenismo vivo. Si tratta della presenza di Gesù fra più persone, nella comunità. “Dove due o tre – ha detto Gesù – sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.” (Mt 18,20). Gesù fra un cattolico ed un evangelico che si amano, fra anglicani e ortodossi, fra un’armena e una riformata… Quanta pace sin d’ora, quanta luce per un retto cammino ecumenico. Gesù in mezzo a noi è un dono, fra il resto, che rende meno penosa l’attesa del tempo in cui sarà condiviso da tutti noi sotto le specie eucaristiche. E necessita ancora un grande amore per lo Spirito Santo, Amore fatto Persona. Egli lega in unità le Persone della Santissima Trinità, ed è il vincolo fra le membra del Corpo di Cristo. Un solo popolo cristiano si compone, in certo modo, sin d’ora, lievito per la piena comunione tra le Chiese. So, anche per esperienza, che, se noi tutti vivremo così, ci saranno frutti eccezionali. Si avrà soprattutto un particolare effetto: vivendo assieme questi diversi aspetti del nostro cristianesimo, avvertiremo di formare, sin d’ora, in certo modo, un solo popolo cristiano che potrà essere un lievito per la piena comunione tra le Chiese. Sarà quasi l’attuarsi di un altro dialogo, dopo quello della carità, quello teologico e della preghiera: un dialogo della vita, il dialogo del popolo di Dio. Dialogo più che urgente ed opportuno se è vero, come la storia insegna, che vi è poco di garantito in campo ecumenico, quando non vi è coinvolto il popolo. Dialogo che farà scoprire con maggior evidenza e valorizzare tutto il grande patrimonio già comune fra noi cristiani, costituito dal battesimo, dalla Sacra Scrittura, dai primi Concili, dai Padri della Chiesa, eccetera. Attendiamo di vedere realizzarsi questo popolo, popolo che già qua e là sta apparendo. Sarà senz’altro utile, anche in questo momento, rinnovare l’impegno di vivere così come Gesù vuole. In verità niente è più urgente nel mondo di una potente corrente d’amore, se vogliamo sperare in quella civiltà dell’amore, che il Terzo Millennio sembra si aspetti da noi.   (altro…)

Novembre 1998

“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Come forse ricorderai, un giorno, Gesù, nel discorso della montagna, rivoluzionando il modo di pensare umano, ha chiamato “beate” persone che, a prima vista, sembrano tutt’altro che felici: i poveri, i perseguitati, i miti, quelli che si dedicano a rappacificare gli animi… Con la parola, poi, che egli propone oggi alla tua attenzione, sembra addirittura affermare l’assurdo: sono beati quelli che proprio non lo sono: gli afflitti, i desolati, quelli che piangono. Ti chiederai: come si può spiegare questa affermazione?

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

Il Messia è venuto per realizzare la profezia di Isaia, che annuncia l’ora in cui avranno consolazione coloro che sono nel dolore: “Tutti gli afflitti saranno consolati” (cf Is 61, 2-3). Egli infatti sa che chi soffre è fortunato, è beato perché è più pronto ad accogliere la sua parola e quindi ad entrare nel suo Regno, e sa come lo stato di afflizione, in cui si trova il mondo, può trasformarsi per lui in vita di gioia. Rivolgendosi agli afflitti, Gesù non ha in mente una categoria particolare di sofferenti, ma pensa a chiunque pena, sia adulto o bambino, uomo o donna, di qualsiasi razza o latitudine, per qualsiasi causa: una disgrazia, una calamità, una malattia, la perdita di una persona cara o di beni materiali o della stima; pensa a delusioni, ad angosce mute del cuore… Gesù pensa a tutti questi ed anche a te, se in questo momento soffri.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

“Saranno consolati”. Certamente, usando il verbo al futuro, Gesù allude a quel tempo in cui a coloro che hanno sofferto, e sofferto bene, Dio stesso “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21,4). Tutto questo, che avverrà quando il suo Regno sarà instaurato, suscita già nel cuore la speranza che dimezza il dolore. Ma Gesù, con queste sue parole, non vuole portare chi è infelice alla semplice rassegnazione promettendo una compensazione futura. Egli pensa anche al presente. Il suo Regno infatti, anche se in maniera non definitiva, è già qui. Esso è presente in Gesù che, risorgendo da una morte sofferta nella più grande afflizione, ha vinto la morte. Ed è presente anche in noi, nel nostro cuore di cristiani: Dio è in noi. La Trinità vi ha preso dimora. E allora la beatitudine annunziata da Gesù può verificarsi sin d’ora.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

Nel Regno portato da Gesù, la consolazione può essere quindi una tua esperienza quotidiana. Naturalmente, occorre una condizione! Che tu viva da figlio di questo Regno e imposti la tua vita secondo le sue leggi, secondo le esigenze di Gesù. Egli ha detto che le sofferenze che ci sovrastano vanno accettate così come le ha accolte lui. Vuole che tu “prenda” la tua croce, non che la odi, non che la ripudi, non vuole che tu la respinga, che la trascini. Occorre che tu l’ami. Vuole che la sistemi bene sulle tue spalle, anzi: che la brandisca come una fiaccola, come una bandiera. Allora, ecco il miracolo del Regno: Dio te la rende leggera; senti che la puoi portare ed arrivi, persino, a sorridere in mezzo alle lacrime. C’è una forza in te che non è da te: viene da lui. E comprendi perché egli parli di “giogo leggero e soave”. Le sofferenze possono permanere, ma c’è un nuovo vigore che ci aiuta a portare le prove della vita e ad aiutare gli altri nelle loro pene, a superarle, a vederle, come Lui le ha viste, e accoglierle, quale mezzo di redenzione. Chiara Lubich (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 119

Editoriale PER UNA CULTURA RINNOVATA. ALCUNE PISTE DI RIFLESSIONE – di Giuseppe Maria Zanghí – La grande crisi dei nostri tempi nel mondo di cultura occidentale, come già aveva osservato Paolo VI, è la frattura tra Evangelo e cultura. Attualmente la Conferenza episcopale italiana sta lavorando per l’elaborazione di un progetto culturale. L’A. avvia alcune piste di riflessione su questa sfida per la realtà cristiana attuale. Egli cerca così di tratteggiare, in alcuni breve paragrafi, una risposta a questo problema. Nella luce dell’ideale dell’unità IL MOVIMENTO DEI FOCOLARI NEI SUOI ASPETTI POLITICO E SOCIALE – di Chiara Lubich – AL CONSIGLIO D’EUROPA PER IL PREMIO EUROPEO DEI DIRITTI DELL’UOMO – di Chiara Lubich – Il 15 settembre 1998 Chiara Lubich ha presentato a un gruppo di deputati del Parlamento Europeo, il Movimento dei Focolari e in particolare il suo impegno per una economia di comunione e una politica rinnovata. Il 22 settembre ha ricevuto, sempre a Strasburgo, assieme alla Fondation des droits de l’homme della Turchia e al Committee on the Administration of Justice dell’Irlanda del Nord, il “Premio Europeo dei Diritti dell’uomo 1998”. Riportiamo i testi dI entrambi i discorsi. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL NIRVANA NEL BUDDISMO THERAVADA ALLA LUCE DELLA SPIRITUALITÀ DELL’UNITÀ – di Enzo Maria Fondi – L’A. compie una rivisitazione della dottrina sul Nirvana in cui si condensa l’insegnamento buddista e raggiunge l’apice di una spiritualità che non si finisce di scoprire e approfondire, solo che si accantonino metri di valutazione legati a categorie di pensiero occidentali. Nell’attuale “dialogo delle spiritualità” acquista rilevanza l’esperienza e la dottrina di Chiara Lubich, quale strumento di incontro e di reciproca comprensione. La “kenosi” di Gesù nel suo abbandono e a trasparenza di Maria sono motivi di vita e di riflessione che aprono nuove frontiere al dialogo con i buddisti più impegnati nella via della perfezione. Saggi e Ricerche L’ESCATOLOGIA FISICA DI TIPLER – 2. – CONGETTURE METASCIENTIFICHE TRA MITO ED IDEOLOGIA – di Sergio Rondinara – A partire dalle argomentazioni antropiche il fisico Frank Tipler delinea mediante il sapere scientifico ed una sua ipotetica trasposizione tecnologica la possibilità che in un lontano futuro una intelligente elaborazione di tutte le informazioni realizzi il controllo totale sull’intera evoluzione cosmica dischiudendo così il telos dell’intero processo cosmico: l’escathon, il Punto Omega (un Dio-che-si-evolve). Secondo le aspettative di Tipler un tale modello di “dio” dovrebbe dare risposta alla domanda sul senso dell’intera evoluzione cosmica; ma a causa di una visione riduzionista e immanentista della realtà che permea tutto il suo pensiero, insieme al carattere intrinsecamente ipotetico della teoria del Punto Omega, tale modello oscilla tra una posizione mitica ed una ideologica. TRE ECLISSI – di Giovanni Casoli – “Verità, bene, bellezza sono le nostre vie dall’essere, sono i suoi aspetti inseparabili”. Partendo da questa considerazione l’A. riflette sull’oblio del bello, del bene e del vero nella nostra società attuale, per giungere alla conclusione che “si può fare autentica esperienza dell’essere solo se si fa esperienza dell’uno” come pienezza sinfonica della bellezza, bontà e verità del Creatore. Il RUOLO DELLA RELAZIONE EDUCATIVA NELLA PROGETTAZIONE DELLA SCUOLA. Riflessioni a partire dalla PROPOSTA per il RIORDINO DEI CICLI SCOLASTICI DEL MINISTRO BERLINGUER – di Claudio Guerrieri – Nella direzione d’una pedagogia “centrata sulla relazione interpersonale”, si rilegge la proposta Berlinguer per il riordino dei cicli scolastici evidenziando che in essa non si sottolinea quanto sarebbe auspicabile il ruolo della relazione educativa, entro cui ogni formazione assume significato se non vuole ridursi ad un mero esercizio d’addestramento rispetto alle procedure scientifiche e si indica come orizzonte valoriale quello definito da libertà e responsabilità. Perché le generazioni seguenti non cadano nell’asimbolia e nella rassegnazione vanno qualificate la relazione educativa ed i docenti, chiamati a svolgere il ruolo di persona – criterio. La scuola può e deve divenire un ambiente in cui abbia spazio anche la conoscenza affettiva. Conoscere se stessi non è operazione aliena dalla costruzione di un percorso cognitivamente, esistenzialmente e socialmente significativo e coincide con una conoscenza degli altri che comporta l’incontro con le alterità educanti nonché con i sistemi di significato prodotti dall’interazione umana. Spazio letterario LIRICHE – di Michele Genisio – “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Per il dialogo SPIRITUALITÀ’ DEL DIALOGO – di Marcello Zago – Il dialogo è la grande novità promossa dal Concilio Vaticano II ed esso aiuta a capire e ad esercitare la missione nel mondo moderno. Le potenzialità di questa visione conciliare non si sono pienamente sviluppate e l’A. ci presenta qui un documento, destinato alla preparazione della Plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. Esso è diviso in cinque parti, che richiamano gli aspetti generali del dialogo e l’importanza della spiritualità cristiana come fondante il dialogo stesso. Libri LA PAROLA EBREO – di Pasquale Lubrano – “La parola ebreo” di Rosetta Loy, uno degli ultimi libri che ha riacceso in Italia il dibattito sulla posizione della Chiesa cattolica durante la Shoah. La scrittrice riassapora antiche atmosfere, ricerca fatti e documenti, ma è una ricerca che muove dal proprio movimento interiore. Ne vien fuori un libro originale che non è un romanzo, né una testimonianza storica, ma neanche un saggio sull’antisemitismo italiano, pur possedendo di tutti questi generi letterari elementi caratteristici; un libro che ci spinge a lavorare molto di più affinché gli uomini imparino ad amare le razze altrui, la religione altrui, come la propria. (altro…)

Per il contributo ad un’economia al servizio dell’uomo, il Governo brasiliano ammette Chiara Lubich nell’Ordine Nazionale della Croce del Sud

Ha motivato il riconoscimento in particolare il progetto di Economia di Comunione lanciato da Chiara Lubich durante la sua visita in Brasile nel 1991, progetto che propone un nuovo paradigma economico, ora attuato da centinaia di aziende nei 5 continenti, proiettando il nome del Brasile nel mondo intero. La Croce del Sud è la più alta onorificenza assegnata dal Governo Brasiliano a stranieri che hanno contribuito al progresso del Paese. Lo scorso anno è stato assegnato al Presidente francese Chirac. Il progetto dell’Economia di Comunione ha interessato recentemente anche deputati brasiliani, ed economisti. L’Università cattolica del Pernambuco (UNICAP) ha assegnato a Chiara Lubich, in occasione di un’altra sua visita nel maggio scorso, il dottorato h.c. in Economia, ed ha avviato anche una collaborazione nel campo della ricerca per l’elaborazione di una nuova teoria economica. Il Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich nel 1943  si è diffuso in Brasile dal 1959. Conta oltre 15.000 membri. Circa 300.000 gli aderenti dal nord al sud del Paese. Fin dagli inizi il Movimento è profondamente coinvolto nel concorrere alla soluzione delle problematiche sociali. 120 le opere sociali: dai campesinos, a Magnificat nel Maranhão, ai mocambos alla periferia di Recife, alla Favela da Pedreira, San Paolo, e al Bairro do Carmo di São Roque, comunità dei discendenti degli schiavi neri. Le azioni promosse dai Focolari hanno come obiettivo la promozione della persona, il miglioramento della qualità di vita, rendendola così atta a svolgere un ruolo attivo e responsabile nella società. Il Movimento, diffuso in oltre 180 Paesi, è impegnato a concorrere all’unità della famiglia umana, contribuendo a sanare disparità e conflitti sociali, razziali, religiosi. E’ aperto anche in Brasile al dialogo con persone di convinzioni non religiose, fedeli di diverse religioni e cristiani di varie Chiese. Impegno riconosciuto nel maggio scorso dalle università di S. Paolo USP (Università Statale) dove è intervenuto l’on. Montoro e PUC (Pontificia). (altro…)

Ottobre 1998

Quante volte nella vita senti il bisogno che qualcuno ti dia una mano e nello stesso tempo avverti che nessuno può risolvere la tua situazione! E’ allora che ti rivolgi inavvertitamente a qualcuno che sa rendere le cose impossibili possibili. Questo qualcuno ha un nome: è Gesù. Ascolta quanto ti dice: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”. E’ ovvio che l’immagine non va presa alla lettera. Gesù non ha promesso ai discepoli un potere di fare miracoli spettacolari per stupire la folla. Sradicare e trapiantare nel mare è un’iperbole, cioè un modo di dire volutamente esagerato, per inculcare nella mente dei discepoli il concetto che alla fede nulla è impossibile. Ogni miracolo infatti che Gesù ha operato, direttamente o attraverso i suoi, è sempre stato fatto in funzione del Regno di Dio o del Vangelo o della salvezza degli uomini. Sradicare un gelso non servirebbe a questo. Il paragone col “granellino di senapa” sta a indicare che Gesù non ti domanda una fede più o meno grande, ma una fede autentica. E la caratteristica della fede autentica è quella di poggiare unicamente su Dio e non sulle tue capacità. Se ti assale il dubbio o l’esitazione nella fede significa che la tua fiducia in Dio non è ancora piena: hai una fede debole e poco efficace, che fa ancora leva sulle tue forze e sulla logica umana. Chi invece si fida interamente di Dio, lascia che lui stesso agisca e… a Dio niente è impossibile. La fede che Gesù vuole dai discepoli è proprio quell’atteggiamento pieno di fiducia che permette a Dio stesso di manifestare la sua potenza. E questa fede non è riservata a qualche persona eccezionale. Essa è possibile e doverosa per tutti i credenti.

«Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe».

Si pensa che Gesù abbia detto queste parole ai suoi discepoli quando stava per inviarli in missione. E’ facile scoraggiarsi e spaventarsi quando si sa di essere un piccolo gregge impreparato, senza talenti particolari, di fronte a folle innumerevoli alle quali bisogna portare la verità del Vangelo. E’ facile perdersi d’animo di fronte a gente che ha tutt’altri interessi che il Regno di Dio. Sembra un compito impossibile. E’ allora che Gesù assicura i suoi che con la fede “sradicheranno” l’indifferenza e il disinteresse del mondo. Se avranno fede nulla sarà loro impossibile. Questa frase può essere inoltre applicata a tutte le altre circostanze della vita, purché siano in ordine al progresso del Vangelo e alla salvezza delle persone. Alle volte, di fronte a difficoltà insormontabili può nascere la tentazione di non rivolgersi nemmeno a Dio. La logica umana suggerisce: basta, tanto non serve. Ecco allora che Gesù esorta a non scoraggiarsi e a rivolgersi a Dio con fiducia. Egli, in un modo o nell’altro, esaudirà. Così è successo a Lea. Erano trascorsi alcuni mesi dal giorno in cui aveva affrontato, piena di speranza, il nuovo lavoro in un paese straniero. Ma ora un senso di sgomento e di solitudine le attanagliava l’anima. Sembrava che tra lei e le altre ragazze con cui lavorava e viveva si fosse eretta una barriera insormontabile. Si sentiva isolata, straniera tra la gente che avrebbe voluto soltanto servire con amore. Tutto dipendeva dal dover parlare una lingua che non era né sua, né di chi l’ascoltava. Le avevano detto che tutti parlavano il francese e se l’era imparato, ma, venuta a contatto diretto con quel popolo s’era accorta che studiava il francese soltanto a scuola e in genere lo parlava malvolentieri. Tante volte aveva tentato di “sradicare” l’emarginazione che la teneva lontana dalle altre, ma invano. Che poteva fare per loro? Vedeva ancora davanti a sé il volto della sua compagna Marie pieno di tristezza. Quella sera si era ritirata nella sua stanza senza toccar cibo. Lea aveva tentato di seguirla, ma si era arrestata davanti alla porta della sua camera, timida e titubante. Avrebbe voluto bussare… ma quali parole usare per farsi intendere? Era rimasta lì per qualche secondo, poi si era arresa ancora una volta. La mattina dopo entrò in chiesa e si mise in fondo, fra le ultime sedie, col viso tra le mani per non far scorgere ad alcuno le lacrime. Era quello l’unico posto dove non occorreva parlare un’altra lingua, dove non era neppure necessario spiegarsi, perché c’era Qualcuno che capiva al di là delle parole. Fu la certezza di quella comprensione che la fece ardita, e chiese a Gesù: “Perché non posso dividere con le altre ragazze la loro croce e dire quelle parole che tu stesso mi hai fatto capire quando ti ho trovato: che ogni dolore è amore?” E stava lì quasi ad attendere una risposta da chi nella vita le aveva illuminato ogni buio. Abbassò gli occhi sul Vangelo di quel giorno e lesse: “Confidate – abbiate fede – ho vinto il mondo” (cf Gv 16,33). Quelle parole scesero come olio nell’anima di Lea, ed ebbe una grande pace. Rientrando per la colazione si imbatté subito in Agnés, la ragazza che badava all’ordine della casa. La salutò e la seguì fino alla dispensa; poi, senza parlare, cominciò ad aiutarla nel preparare la colazione. La prima a scendere dalle stanze fu Marie. Veniva in cucina a cercarsi il caffè, in fretta per non veder nessuno. Ma lì si arrestò: la pace di Lea aveva toccato il suo animo in modo più forte di qualunque parola.  Quella sera, sulla strada del ritorno verso casa, Marie raggiunse Lea con la bicicletta e, sforzandosi di parlare in modo a lei comprensibile, le sussurrò: “Non sono necessarie le tue parole; oggi la tua vita mi ha detto: ‘Ama anche tu!'” La fede aveva vinto.

«Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe».

Chiara Lubich (altro…)

PREMIO EUROPEO DEI DIRITTI DELL’UOMO 1998 assegnato dal Consiglio d’Europa a CHIARA LUBICH

Il premio è assegnato ogni tre anni ad una personalità o organizzazione che si è distinta nella promozione o difesa dei diritti dell’uomo in conformità ai principi di libertà individuale, di libertà politica e di rispetto del diritto. Istituito nel 1980, il premio, onorifico, è stato assegnato tra gli altri, alla sezione medica di Amnesty International (1983), agli ex presidenti argentino Raul Alfonsin (1986), polacco Lech Walesa e alla International Helsinki Federation of Human Rights (1989), ai “Médecins sans frontières” (1992). Dal comunicato ufficiale del Consiglio d’Europa: Nata il 22 gennaio 1920 a Trento, nell’Italia del Nord, Chiara Lubich ha dato vita nel 1943 al Movimento dei Focolari. Operando per l’unità tra i popoli col dialogo e l’azione concreta in favore della pace senza frontiere, il movimento è attualmente presente in 180 Paesi e ispira l’azione e la vita di milioni di uomini e donne di diverse religioni e convinzioni. La difesa dei diritti individuali e sociali è al cuore della sua azione in Europa e nelle numerose altre zone del mondo. Giovani, adultj, alti dirigenti civili e religiosi sono coinvolti nell’azione condotta da Chiara Lubich per far progredire la causa dei diritti dell’uomo, la pace e l’unità fra i singoli e tra i popoli. Hanno inviato messaggi di congratulazione: il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Daniel Tarschys, l’inviato speciale della s. Sede mons. Courtney, il Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e il presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi. Dal comunicato del Consiglio d’Europa: La Fondation des droits de l’homme de Turquie, organizzazione non governativa creata nel 1990, ha avuto un ruolo eccezionale nella difesa dei diritti dell’uomo in Turchia lungo gli ultimi sette anni. La sua ragion d’essere ed il suo scopo sono mettere in pratica nel Paese i valori universali riconosciuti dalle convenzioni internazionali e contribuire alla lotta per l’ eliminazione della tortura e delle altre violazioni dei diritti dell’ uomo. Le sue attività sono orientate verso due obiettivi principali: il progetto di un Centro di documentazione e di centri di trattamento e di riadattamento. E’ recente la realizzazione di attività nel campo dell’educazione ai diritti dell’uomo. Creato nel 1981, il Committee on the Administration of Justice (CAJ) è un gruppo intercomunitario che si dedica a difendere le più alte norme giudiziarie in Irlanda del Nord, vigilando che il Governo rispetti i suoi obblighi di diritto internazionale. Dalla sua fondazione, il CAJ non ha smesso di operare imparzialmente per la difesa dei diritti dell’uomo in tutta l’Irlanda del Nord. Secondo il Comitato, al cuore del conflitto vi sono problemi di giustizia e di equità; inoltre, nello stesso tempo ritiene intrinsecamente importante ed essenziale risolvere questo conflitto operando contro le violazioni dei diritti dell’uomo in vista di mettervi fine. Organizzazione politica fondata nel 1949, il Consiglio d’Europa opera per il rafforzamento della democrazia e dei diritti dell’uomo su scala continentale. Elabora risposte comuni alle sfide sociali, culturali e giuridiche che esistono nei suoi 40 Stati membri. I giornalisti che desiderano essere presenti a Strasburgo sono pregati di presentare le proprie credenziali direttamente al Servizio Stampa del Consiglio d’Europa – (Tel. 0388412000) (altro…)

Settembre 1998

Hai mai sentito nel tuo cuore il desiderio di compiere grandi azioni? Penso di sì. Hai mai avvertito un’attrattiva verso persone che hanno saputo emergere dalla normalità perché hanno compiuto opere di rilievo, nobili, degne di ammirazione, come gli eroi o i grandi testimoni del Vangelo? Credo di sì. È un’aspirazione comune all’uomo e alla donna perché il destino loro è grande. Purtroppo però il più delle volte si è incapaci di realizzarlo, perché non si trova la via per poter essere all’altezza nei momenti particolarmente impegnativi e difficili della vita. Se non ti dispiace, ti suggerisco un modo. Senti Gesù: «Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» Queste parole esistevano prima di Cristo ed erano probabilmente un proverbio. Gesù le ha assunte nel suo insegnamento, dando loro un’importanza nuova. Le troviamo nel Vangelo di Luca, in un brano in cui Gesù parla del denaro. Hanno quindi anzitutto significato sul piano dell’amministrazione, ma si possono applicare alle molteplici situazioni della vita. Gesù sottolinea con esse che l’essere fedeli nelle piccole cose è un test efficace per sapere che si sarà altrettanto fedeli nelle cose grandi. Inoltre se Gesù richiede la fedeltà nel poco vuol dire che niente è piccolo di ciò che la vita domanda. Niente è piccolo di ciò che si fa per compiere la sua volontà. Niente è piccolo di quello che si fa per amore.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

Quante piccole cose nelle tue giornate! C’è la tavola da sparecchiare, quella risposta da dare, quel lavoro noioso e sempre uguale da compiere, quella macchina da guidare, quello studio da terminare, quel pasto da preparare, quell’attività da organizzare, quello strumento da suonare, quell’indumento da riporre, quella carta da raccogliere, quel sorriso da offrire, quell’articolo da scrivere, quell’avvenimento lieto da condividere. Come devi compiere queste piccole azioni? Non lasciandoti mai prendere dalla fretta. Compiendo tutto con perfezione. Essendo proiettato con tutto il tuo essere in quella cosa da fare. La fedeltà nelle piccole cose si identifica col vivere bene il momento presente della vita.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

Il molto? Sì, gli avvenimenti inconsueti della vita: un grave incidente, una calamità naturale che ti tocca, la morte d’una persona cara, un successo che può darti alla testa, un’eredità impensata, un grosso dispiacere che non immaginavi, una responsabilità che ti piomba addosso… E, in certe nazioni, tutti gli imprevisti della guerra. Come il caso di quel giovane libanese ventunenne. Il suo nome è Fuad. Aveva imparato a vivere bene nell’amore, le circostanze comuni della vita, le piccole cose. Ritornato, dopo un convegno a Roma, nel Libano, dove ancora infuriava la guerra civile, viene fermato da alcuni uomini armati a tre chilometri dall’aeroporto sulla strada per Beirut. Il momento è difficile. Sulla carta di identità gli uomini leggono: cristiano-maronita. «Sì, sono cristiano-maronita – ammette Fuad – e sto tornando a casa». «Tu vieni con noi» gli rispondono. Interrogatorio. Alla fine: «Tu sai quello che ti aspetta?» Il ragazzo capisce che per lui è tutto finito. Uno dei miliziani lo preleva e lo porta verso un ponte dove erano stati uccisi parecchi cristiani. Mentre cammina cerca di calmare l’agitazione interiore e pensa che cosa Dio può voler da lui in quel momento. Amare questo prossimo, gli viene in mente. Cerca dunque di far sentire a quell’uomo tutto l’amore. Parla: «Deve essere difficile, brutto, questo mestiere… fare la guerra…». Arrivato in vista del ponte, il miliziano si ferma, lo guarda ed esclama: «Torniamo indietro». Al commando poi parla con altri. Uno di questi si avvicina al giovane e gli dice: «Sei stato fortunato, perché a quello hanno ammazzato il fratello pochi giorni fa». Come per dire: se c’era uno che ti poteva ammazzare volentieri, era proprio lui. Così Fuad, che era stato in Dio nei piccoli avvenimenti della vita, lo è stato anche in questo.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

E Dio lo ha salvato. Chiara Lubich   (altro…)

Parola di vita agosto 1998

Sei giovane e reclami una vita ideale, totalitaria, radicale? Senti Gesù. Nessuno al mondo ti chiede tanto. Sei nell'occasione di dimostrare la tua fede e la tua generosità, il tuo eroismo. Sei maturo e brami un'esistenza seria, impegnata, ma sicura? O anziano e desideri vivere i tuoi ultimi anni abbandonato a chi non inganna, senza preoccupazioni che ti logorano? Vale anche per te questa parola di Gesù. Essa conclude, infatti, una serie di esortazioni nelle quali Gesù ti invita a non preoccuparti di ciò che mangerai e vestirai, esattamente come fanno gli uccelli dell'aria che non seminano e i gigli del campo che non filano. Devi bandire perciò dal tuo cuore ogni ansia per le cose della terra, perché il Padre ti ama assai più degli uccelli e dei fiori e pensa lui stesso a te. Per questo ci dice:

«Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fateci borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma»

Il Vangelo è, nel suo insieme ed in ogni sua parola, una richiesta totale agli uomini e alle donne di ciò che sono e di ciò che hanno. Come Gesù ricorda nella questione sul «più grande comandamento», tale richiesta è già esplicita, seppur non così specifica, nell'Antico Testamento, nel quale la ricchezza terrena è spesso considerata un bene, una benedizione di Dio, ma comporta sempre l'obbligo di condividerla con chi è nel bisogno e ciò sia per misericordia e giustizia sociale, sia per ottenere benevolenza dall'Onnipotente. Solo più tardi, nel giudaismo, il pensiero dell'Aldilà e di una ricompensa in esso divenne più comune. Secondo una tradizione rabbinica, un re rispondeva a chi gli rimproverava di sperperare i suoi beni: «I miei avi accumularono tesori per quaggiù, io invece ho accumulato tesori per lassù». L'originalità della parola di Gesù sta nel fatto che lui ti chiede il dono totale, ti domanda tutto. Vuole che tu sia un figlio spensierato, una figlia spensierata, senza preoccupazioni per il mondo, una personale che si appoggia soltanto su di lui. Egli sa che la ricchezza è un enorme ostacolo per te, perché essa occupa il tuo cuore, mentre gli vuole avere tutto lo spazio per sé. Ecco quindi la raccomandazione:

«Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fateci borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma»

E se non puoi disfarti dei beni materialmente, perché sei legato ad altre persone, o perché la tua posizione ti obbliga ad un contorno dignitoso ed adeguato, certamente devi staccarti dai beni spiritualmente ed essere nei loro confronti un semplice amministratore. Così, mentre tratti con la ricchezza ami gli altri e, amministrandola per loro, ti fai un tesoro che il tarlo non corrode e il ladro non porta via.
Ma sei certo che devi tenere tutto? Ascolta la voce di Dio dentro di te; consigliati, se non sai decidere. Vedrai quante cose superflue troverai fra ciò che hai. Non tenerle. Da', da' a chi non ha. Metti in pratica la parola di Gesù: «Vendi… e da'». Così riempirai le borse che non invecchiano.
È logico che per vivere nel mondo occorra interessarsi anche di denaro, anche di roba. Ma Dio vuole che ti occupi, non che ti preoccupi. Occupati di quel minimo che è indispensabile per vivere secondo il tuo stato, secondo le tue condizioni. Per il resto: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fateci borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma».
Paolo VI era veramente povero. Lo hanno testimoniato il modo con il quale ha voluto essere sepolto: in una povera bara, nella nuda terra. Poco prima di morire aveva detto a suo fratello: «Da tempo ho preparato le valigie per quell'impegnativo viaggio».
Ecco, questo devi fare: preparare le valigie.
Ai tempi di Gesù si chiamavano forse borse. Preparale giorno per giorno. Riempile più che puoi di ciò che può essere utile agli altri. Hai veramente ciò che dai. Pensa a quanta fame c'è nel mondo. A quanta sofferenza. A quanti bisogni…
Riponivi anche ogni atto d'amore, ogni opera in favore dei fratelli e delle sorelle.
Compi queste azioni per Lui. Diglielo nel tuo cuore: per Te. Ed adempile bene, con perfezione. Sono destinate al Cielo, rimarranno per l'eternità.

Chiara Lubich

 

Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II alla vigilia di Pentecoste ’98

“Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo” (At 2, 2-3).    Carissimi Fratelli e Sorelle!    1. Con queste parole gli Atti degli Apostoli ci introducono nel cuore dell’evento della Pentecoste; ci presentano i discepoli che, riuniti con Maria nel Cenacolo, ricevono il dono dello Spirito. Si realizza così la promessa di Gesù ed inizia il tempo della Chiesa. Da quel momento il vento dello Spirito porterà i discepoli di Cristo sino agli estremi confini della terra. Li porterà fino al martirio per l’intrepida testimonianza del Vangelo. Quel che accadde a Gerusalemme duemila anni or sono, è come se questa sera si rinnovasse in questa Piazza, centro del mondo cristiano. Come allora gli Apostoli, anche noi ci troviamo raccolti in un grande cenacolo di Pentecoste, anelando all’effusione dello Spirito. Qui noi vogliamo professare con tutta la Chiesa che “uno solo è lo Spirito…, uno solo il Signore, uno solo è Dio che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4-6). Questo è il clima che intendiamo rivivere, implorando i doni dello Spirito Santo per ciascuno di noi e per l’intero popolo dei battezzati.    2. Saluto e ringrazio il Cardinale James Francis Stafford, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, per le parole che ha voluto rivolgermi, anche a nome vostro, all’inizio di questo Incontro. Con lui saluto i Signori Cardinali e i Vescovi presenti. Rivolgo un pensiero di particolare gratitudine a Chiara Lubich, Kiko Arguello, Jean Vanier, Mons. Luigi Giussani per le loro commoventi testimonianze. Insieme a loro, saluto i fondatori e i responsabili delle nuove comunità e dei movimenti qui rappresentati. Mi è caro, infine, rivolgermi a ciascuno di voi, Fratelli e Sorelle appartenenti ai singoli movimenti ecclesiali. Voi avete accolto con prontezza ed entusiasmo l’invito che vi ho rivolto nella Pentecoste del 1996 e vi siete preparati accuratamente, sotto la guida del Pontificio Consiglio per i Laici, per questo straordinario incontro, che ci proietta verso il Grande Giubileo del Duemila. Quello di oggi è davvero un evento inedito: per la prima volta i movimenti e le nuove comunità ecclesiali si ritrovano, tutti insieme, con il Papa. E’ la grande “testimonianza comune” da me auspicata per l’anno che, nel cammino della Chiesa verso il Grande Giubileo, è dedicato allo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è qui con noi! E’ Lui l’anima di questo mirabile avvenimento di comunione ecclesiale. “Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 117, 24).    3. A Gerusalemme, quasi duemila anni fa, il giorno di Pentecoste, davanti ad una folla, stupita ed irridente, a motivo del cambiamento inspiegabile notato negli Apostoli, Pietro proclama con coraggio: “Gesù di Nazaret, uomo accreditato da Dio presso di voi…, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato” (At 2, 22-24). Nelle parole di Pietro si manifesta l’autocoscienza della Chiesa, fondata sulla certezza che Gesù Cristo è vivo, opera nel presente e cambia la vita. Lo Spirito Santo, già operante nella creazione e nell’Antica Alleanza, si rivela nell’Incarnazione e nella Pasqua del Figlio di Dio, e quasi “esplode” nella Pentecoste per prolungare nel tempo e nello spazio la missione di Cristo Signore. Lo Spirito costituisce così la Chiesa come flusso di vita nuova, che scorre entro la storia degli uomini.    4. Alla Chiesa che, secondo i Padri, è il luogo “dove fiorisce lo Spirito” (CCC 749), il Consolatore ha donato di recente con il Concilio Ecumenico Vaticano II una rinnovata Pentecoste, suscitando un dinamismo nuovo ed imprevisto. Sempre, quando interviene, lo Spirito lascia stupefatti. Suscita eventi la cui novità sbalordisce; cambia radicalmente le persone e la storia. Questa è stata l’esperienza indimenticabile del Concilio Ecumenico Vaticano II, durante il quale, sotto la guida del medesimo Spirito, la Chiesa ha riscoperto come costitutiva di se stessa la dimensione carismatica: “Lo Spirito Santo non si limita a santificare e a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad adornarlo di virtù, ma “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui” (1 Cor 12, 11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali… utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa” (Lumen gentium, 12). L’aspetto istituzionale e quello carismatico sono quasi co-essenziali alla costituzione della Chiesa e concorrono, anche se in modo diverso, alla sua vita, al suo rinnovamento ed alla santificazione del Popolo di Dio. E’ da questa provvidenziale riscoperta della dimensione carismatica della Chiesa che, prima e dopo il Concilio, si è affermata una singolare linea di sviluppo dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità.    5. Oggi la Chiesa gioisce nel constatare il rinnovato avverarsi delle parole del profeta Gioele, che poc’anzi abbiamo ascoltato: “Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona… ” (At 2, 17). Voi siete la prova tangibile di questa “effusione” dello Spirito. Ogni movimento differisce dall’altro, ma tutti sono uniti nella stessa comunione e per la stessa missione. Alcuni carismi suscitati dallo Spirito irrompono come vento impetuoso, che afferra e trascina le persone verso nuovi cammini di impegno missionario al servizio radicale del Vangelo, proclamando senza pausa le verità della fede, accogliendo come dono il flusso vivo della tradizione e suscitando in ciascuno l’ardente desiderio della santità. Oggi, a tutti voi riuniti qui in Piazza San Pietro e a tutti i cristiani, voglio gridare: Apritevi con docilità ai doni dello Spirito! Accogliete con gratitudine e obbedienza i carismi che lo Spirito non cessa di elargire! Non dimenticate che ogni carisma è dato per il bene comune, cioè a beneficio di tutta la Chiesa!    6. Per loro natura, i carismi sono comunicativi e fanno nascere quell’ “affinità spirituale tra le persone” (cfr Chistifideles laici, 24) e quell’amicizia in Cristo che dà origine ai “movimenti”. Il passaggio dal carisma originario al movimento avviene per la misteriosa attrattiva esercitata dal Fondatore su quanti si lasciano coinvolgere nella sua esperienza spirituale. In tal modo i movimenti riconosciuti ufficialmente dall’autorità ecclesiastica si propongono come forme di auto-realizzazione e riflessi dell’unica Chiesa. La loro nascita e diffusione ha recato nella vita della Chiesa una novità inattesa, e talora persino dirompente. Ciò non ha mancato di suscitare interrogativi, disagi e tensioni; talora ha comportato presunzioni ed intemperanze da un lato, e non pochi pregiudizi e riserve dall’altro. E’ stato un periodo di prova per la loro fedeltà, un’occasione importante per verificare la genuinità dei loro carismi. Oggi dinanzi a voi si apre una tappa nuova: quella della maturità ecclesiale. Ciò non vuol dire che tutti i problemi siano stati risolti. E’, piuttosto, una sfida. Una via da percorrere. La Chiesa si aspetta da voi frutti “maturi” di comunione e di impegno.    7. Nel nostro mondo, spesso dominato da una cultura secolarizzata che fomenta e reclamizza modelli di vita senza Dio, la fede di tanti viene messa a dura prova e non di rado soffocata e spenta. Si avverte, quindi, con urgenza la necessità di un annuncio forte e di una solida ed approfondita formazione cristiana. Quale bisogno vi è oggi di personalità cristiane mature, consapevoli della propria identità battesimale, della propria vocazione e missione nella Chiesa e nel mondo! Quale bisogno di comunità cristiane vive! Ed ecco, allora, i movimenti e le nuove comunità ecclesiali: essi sono una risposta, suscitata dallo Spirito Santo, a questa drammatica sfida di fine millennio. I veri carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei Sacramenti. Le realtà ecclesiali cui aderite vi hanno aiutato a riscoprire la vocazione battesimale, a valorizzare i doni dello Spirito ricevuti nella Cresima, ad affidarvi alla misericordia di Dio nel Sacramento della Riconciliazione ed a riconoscere nell’Eucaristia la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana. Come pure, grazie a tale forte esperienza ecclesiale, sono nate splendide famiglie cristiane aperte alla vita, vere “chiese domestiche”, sono sbocciate molte vocazioni al sacerdozio ministeriale ed alla vita religiosa, nonché nuove forme di vita laicale ispirate ai consigli evangelici. Nei movimenti e nelle nuove comunità avete appreso che la fede non è discorso astratto, né vago sentimento religioso, ma vita nuova in Cristo suscitata dallo Spirito Santo.    8. Come custodire e garantire l’autenticità del carisma? E’ fondamentale, al riguardo, che ogni movimento si sottoponga al discernimento dell’Autorità ecclesiastica competente. Per questo nessun carisma dispensa dal riferimento e dalla sottomissione ai Pastori della Chiesa. Con chiare parole il Concilio scrive: “Il giudizio sulla loro (dei carismi) genuinità e sul loro esercizio ordinato appartiene a quelli che presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr 1 Ts 5,12; 19-21)” (Lumen gentium, 12). Questa è la necessaria garanzia che la strada che percorrete è quella giusta! Nella confusione che regna nel mondo d’oggi è così facile sbagliare, cedere alle illusioni. Nella formazione cristiana curata dai movimenti non manchi mai l’elemento di questa fiduciosa obbedienza ai Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Successore di Pietro! Conoscete i criteri di ecclesialità delle aggregazioni laicali, presenti nell’Esortazione apostolica Christifideles laici (cfr n. 30). Vi chiedo di aderirvi sempre con generosità e umiltà inserendo le vostre esperienze nelle Chiese locali e nelle parrocchie, e sempre rimanendo in comunione con i Pastori ed attenti alle loro indicazioni.    9. Gesù ha detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12, 49), mentre la Chiesa si prepara a varcare la soglia del terzo millennio, accogliamo l’invito del Signore, perché il suo fuoco divampi nel nostro cuore ed in quello dei fratelli. Oggi, da questo cenacolo di Piazza San Pietro, s’innalza una grande preghiera: Vieni Spirito Santo, vieni e rinnova la faccia della terra! Vieni con i tuoi sette doni! Vieni Spirito di vita, Spirito di verità, Spirito di comunione e di amore! La Chiesa e il mondo hanno bisogno di Te. Vieni Spirito Santo e rendi sempre più fecondi i carismi che hai elargito. Dona nuova forza e slancio missionario a questi tuoi figli e figlie qui radunati. Dilata il loro cuore, ravviva il loro impegno cristiano nel mondo. Rendili coraggiosi messaggeri del Vangelo, testimoni di Gesù Cristo risorto, Redentore e Salvatore dell’uomo. Rafforza il loro amore e la loro fedeltà alla Chiesa.    A Maria, prima discepola di Cristo, Sposa dello Spirito Santo e Madre della Chiesa, che ha accompagnato gli Apostoli nella prima Pentecoste, rivolgiamo il nostro sguardo perché ci aiuti ad imparare dal suo Fiat la docilità alla voce dello Spirito. Oggi, da questa Piazza, Cristo ripete a ciascuno di voi: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Egli conta su ciascuno di voi, la Chiesa conta su di voi. “Ecco – assicura il Signore – io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Amen! (altro…)

“I Movimenti ecclesiali, speranza per la Chiesa e per gli uomini”

Intervento del Cardinal Joseph Ratzinger in apertura del Convegno mondiale

“I Movimenti ecclesiali, speranza per la Chiesa e per gli uomini” 27 maggio 1998    Nella grande enciclica missionaria Redemptoris Missio il Santo Padre scrive: “All’interno della Chiesa si presentano vari tipi di servizi, funzioni, ministeri e forme di animazione della vita cristiana. Ricordo, quale novità emersa in non poche chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei “movimenti ecclesiali”, dotati di forte dinamismo missionario. Quando s’inseriscono con umiltà nella vita delle chiese locali e sono accolti cordialmente da vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali, i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria propriamente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridar vigore, soprattutto fra i giovani, alla vita cristiana e all’evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi”.    Per me personalmente fu un evento meraviglioso la prima volta che venni più strettamente a contatto – agli inizi degli anni settanta – con movimenti quali i Neocatecumenali, Comunione e Liberazione, i Focolarini, sperimentando lo slancio e l’entusiasmo con cui essi vivevano la fede e dalla gioia di questa fede si sentivano necessitati a partecipare ad altri ciò che avevano ricevuto in dono. a quei tempi, Karl Rahner ed altri usavano parlare di “inverno” nella Chiesa; in realtà parve che, dopo la grande fioritura del Concilio, fossero subentrati gelo in luogo di primavera, affaticamento in luogo di nuovo dinamismo. allora sembrava esser in tutt’altra parte il dinamismo; là dove – con le proprie forze e senza scomodare Dio – ci si dava da fare per dar vita al migliore dei mondi futuri. Che un mondo senza Dio non possa essere buono, men che meno il migliore, era evidente per chiunque non fosse cieco. Ma Dio dov’era? E la Chiesa, dopo tante discussioni e fatiche nella ricerca di nuove strutture, non era di fatto stremata e appiattita? L’espressione rahneriana era pienamente comprensibile; rendeva un’esperienza che facevamo tutti. Ma ecco, all’improvviso, qualcosa che nessuno aveva progettato. Ecco che lo Spirito Santo, per così dire, aveva chiesto di nuovo la parola. E in giovani uomini e in giovani donne risbocciava la fede, senza “se” né “ma”, senza sotterfugi né scappatoie, vissuta nella sua integralità come dono, come un regalo prezioso che fa vivere. Non mancarono certo di quelli che si sentirono infastiditi nei loro dibattiti intellettualistici, nei loro modelli di Chiesa del tutto diversa costruita a tavolino secondo la propria immagine. E come poteva essere altrimenti? Dove irrompe, lo Spirito Santo scombina sempre i progetti degli uomini. Ma vi erano e vi sono anche più serie difficoltà. Quei movimenti, infatti, palesavano – per così dire – malattie della prima età. Vi era dato cogliere la forza dello Spirito, il quale però opera per mezzo di uomini e non li libera d’incanto dalle loro debolezze. Vi erano propensioni all’esclusivismo, ad accentuazioni unilaterali, donde l’inattitudine all’inserimento nelle chiese locali. Dal loro slancio giovanile, quei ragazzi e ragazze traevano la convinzione che la chiesa locale dovesse elevarsi, per così dire, al loro modello e livello e non, viceversa, che toccasse a loro lasciarsi incastonare in una compagine che talvolta era davvero piena d’incrostazioni. Si ebbero frizioni, di cui, in vari modi, furono responsabili ambe le parti. Si rese necessario riflettere sul come le due realtà – la nuova fioritura ecclesiale originatasi da situazioni nuove e le preesistenti strutture della vita ecclesiale, cioè parrocchia e diocesi – potessero porsi nel giusto rapporto. In larga misura si tratta, qui, di questioni prettamente pratiche, che non vanno spinte troppo in alto nei cieli del teorico. Ma d’altro canto è in gioco un fenomeno che si ripresenta periodicamente, in forme disparate, nella storia della Chiesa. Esiste la permanente forma basilare della vita ecclesiale in cui si esprime la continuità degli ordinamenti storici della Chiesa. E si hanno sempre nuove irruzioni dello Spirito Santo, che rendono sempre viva e nuova la struttura della Chiesa. Ma quasi mai questo rinnovamento è del tutto immune da sofferenze e frizioni. Ecco quindi che non ci si può certo esimere dalla questione di principio del come si possa individuare correttamente la collocazione teologica dei detti “movimenti” nella continuità degli ordinamenti ecclesiali.

I. Tentativi di chiarificazione tramite una dialettica dei principi

1. Istituzione e Carisma

   Per la soluzione del problema si offre anzitutto, come schema fondamentale, la duplicità di Istituzione ed evento, Istituzione e Carisma. Ma allorché si tenta di lumeggiare più a fondo le due nozioni al fine di addivenire a regole in base a cui precisare validamente il loro rapporto vicendevole, si profila qualcosa d’inatteso. Il concetto di “Istituzione” si sbriciola fra le mani di chi provi a definirlo con rigore teologico. Che cosa sono, infatti, gli elementi istituzionali portanti che improntano la Chiesa come stabile ordinamento della sua vita? Certo, ovviamente, il ministero sacramentale nei suoi vari gradi, episcopato, presbiterato, diaconato. Il sacramento, che – significativamente – reca il nome di “Ordine”, è in definitiva l’unica struttura permanente e vincolante che, diremmo, dà alla Chiesa il suo stabile ordinamento originario e la costituisce come “Istituzione”. Ma solo nel nostro secolo, certo per ragioni di convenienza ecumenica, è diventato d’uso comune designare il sacramento dell’Ordine semplicemente come “ministero”, onde esso appare dall’unico punto di vista dell’Istituzione, della realtà istituzionale. Senonché questo “ministero” è un “sacramento” e pertanto è evidente che viene infranta la comune concezione sociologica di “Istituzione”. Che l’unico elemento strutturale permanente della Chiesa sia un “sacramento”, significa, al contempo, che esso deve essere continuamente ricreato da Dio. La Chiesa non ne dispone autonomamente, non si tratta di qualcosa che esista semplicemente e da determinare secondo le proprie decisioni. Solo secondariamente si realizza per una chiamata della Chiesa; primariamente, invece, si attua per una chiamata di Dio rivolta a quegli uomini, vale a dire in modo carismatico-pneumatologico. Ne consegue che può esser accolto e vissuto, incessantemente, solo in forza della novità della vocazione, dell’indisponibilità dello Spirito. Poiché le cose così stanno, poiché la Chiesa non può istituire essa stessa semplicemente dei “funzionari”, ma deve attendere la chiamata di Dio, è per questa stessa ragione – e, in definitiva, solo per questa – che può aversi penuria di preti. Pertanto fin dagli esordi è stato chiaro che questo ministero non può essere prodotto dall’Istituzione, ma va impetrato da Dio. Fin dagli esordi è vera la parola di Gesù : “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (Mt 9, 37s). Si capisce altresì, pertanto, che la chiamata dei Dodici sia stata frutto d’una notte di preghiera di Gesù (Lc 6, 12ss). La Chiesa latina ha esplicitamente sottolineato tale carattere rigorosamente carismatico del ministero presbiterale, e l’ha fatto – coerentemente ad antichissime tradizioni ecclesiali – vincolando la condizione presbiterale al celibato, che con tutta evidenza può essere inteso solo come carisma personale, e non semplicemente come peculiarità di un ufficio.    La pretesa di separare l’una dall’altro poggia, in definitiva, sull’idea che lo stato presbiterale possa essere considerato non carismatico, bensì – per la sicurezza dell’Istituzione e delle sue esigenze – come puro e semplice ministero che spetta all’Istituzione medesima conferire. Se si vuole così totalmente inserire lo stato presbiterale nella propria realtà amministrativa, con le sue sicurezze istituzionali, ecco che il vincolo carismatico, che si trova nella esigenza del celibato, è uno scandalo da eliminare il più presto possibile. Ma allora anche la Chiesa nel suo insieme viene intesa come un ordinamento puramente umano, e la sicurezza, cui si mira in tal modo, non restituisce più affatto ciò che dovrebbe conseguire. Che la Chiesa sia non una nostra Istituzione bensì l’irrompere di qualcos’altro, onde è per natura sua “iuris divini”, è un fatto dal quale consegue che noi non possiamo mai crearcela da noi. Vale a dire che non ci è lecito mai applicarle un criterio puramente istituzionale; vale a dire che la Chiesa è interamente se stessa solo laddove sono trascesi i criteri e le modalità delle istituzioni umane.    Naturalmente, accanto a questo ordinamento fondamentale vero e proprio – il sacramento – nella Chiesa esistono anche istituzioni di diritto meramente umano, in ordine a molteplici forme di amministrazione, organizzazione, coordinamento, che possono e debbono svilupparsi secondo le esigenze dei tempi. Va, però, subito detto che la Chiesa ha, sì, bisogno di siffatte istituzioni, ma se queste si fanno troppo numerose e preponderanti, mettono in pericolo l’ordinamento e la vitalità della sua natura spirituale. La Chiesa deve continuamente verificare la sua propria compagine istituzionale, perché non si appesantisca d’indebita importanza, non s’irrigidisca in un’armatura che soffochi quella vita spirituale che le è propria e peculiare. È naturalmente comprensibile che, qualora le facciano a lungo difetto le vocazioni sacerdotali, la Chiesa sia tentata di procurarsi, per così dire, un clero sostitutivo di diritto puramente umano.    Essa può realmente trovarsi nella necessità d’istituire ordinamenti d’emergenza, e se n’è avvalsa spesso e volentieri nelle missioni e in situazioni analoghe. Non si può essere che grati a quanti in siffatte situazioni ecclesiali d’emergenza hanno servito e servono come animatori della preghiera e primi annunciatori del Vangelo. Ma se in tutto questo si trascurasse la preghiera per le vocazioni al Sacramento, se qua o là la Chiesa cominciasse a bastare in tal modo a se stessa e diremmo quasi a rendersi autonoma dal dono di Dio, essa si comporterebbe come Saul, che nella gran tribolazione filistea aspettò bensì a lungo Samuele, ma allorché questi non si fece vedere e il popolo cominciò a disperdersi, perse la pazienza e offrì lui stesso l’olocausto. a lui, che aveva pensato di non poter proprio agire altrimenti in stato d’emergenza e di potersi, anzi doversi permettere di prendere in mano egli stesso la causa di Dio, fu detto che proprio per questo si era giocato tutto: “Obbedienza io voglio, non sacrificio” (cfr 1 Sam 13, 8-14; 15, 22).    Torniamo al nostro interrogativo: come è il rapporto vicendevole fra stabili ordinamenti ecclesiali e sempre nuove insorgenze carismatiche? Non ci dà una soddisfacente risposta lo schema Istituzione-Carisma, giacché la contrapposizione dualistica di questi due aspetti descrive insufficientemente la realtà della Chiesa. Ciò non toglie che da quanto si è detto finora possa desumersi qualche primo principio orientativo: a) È importante che il ministero sacro, il sacerdozio, sia inteso e vissuto anch’esso carismaticamente. Il prete ha anche lui il dovere d’essere uno “pneumatico”, un homo spiritualis, un uomo suscitato, stimolato, ispirato dallo Spirito Santo. È compito della Chiesa far sì che questo carattere del sacramento sia considerato e accettato. Nella preoccupazione per la sopravvivenza dei suoi ordinamenti, non le è consentito mettere in primo piano il numero riducendo le esigenze spirituali. Se lo facesse, renderebbe irriconoscibile il senso stesso del sacerdozio: un servizio mal compiuto danneggia piuttosto che giovare. Blocca la via al sacerdozio e alla fede. La Chiesa deve esser fedele e riconoscere il Signore come colui che crea e sostiene la Chiesa. E deve aiutare in ogni modo il chiamato a restar fedele ben oltre i suoi esordi, a non affogare lentamente nella routine, ma piuttosto a diventare ogni giorno di più un vero uomo dello Spirito. b) Là dove il ministero sacro sia vissuto così, pneumaticamente e carismaticamente, non si dà nessun irrigidimento istituzionale: sussiste, invece, un’interiore apertura al Carisma, una specie di “fiuto” per lo Spirito Santo e il suo agire. E allora anche il Carisma può nuovamente riconoscere la sua propria origine nell’uomo del ministero, e si troveranno vie di feconda collaborazione nel discernimento degli spiriti. c) In situazioni d’emergenza la Chiesa deve istituire ordinamenti d’emergenza. Ma questi ultimi devono intendere se stessi in interiore apertura al sacramento, ad esso dirigersi, non allontanarsene. In linea generale la Chiesa dovrà mantenere il più possibile esili le istituzioni amministrative. Lungi dall’iperistituzionalizzarsi, dovrà restare sempre aperta alle impreviste, improgrammabili chiamate del Signore.

2. Cristologia e pneumatologia

   Ma ora si pone l’interrogativo: se Istituzione e Carisma sono solo parzialmente considerabili come realtà che si fronteggiano e quindi il binomio non fornisce che risposte parziali alla nostra questione, si danno forse altri punti di vista teologici che meglio ad essa si attagliano? Nell’attuale teologia è sempre più evidente che emerge in primo piano la contrapposizione fra l’aspetto cristologico e pneumatologico della Chiesa. Donde si asserisce che il sacramento è correlato alla linea cristologico-incarnazionale, a cui poi dovrebbe affiancarsi la linea pneumatologico-carismatica. È al riguardo giusto dire che si deve far distinzione fra Cristo e Pneuma. Per contro, come non è consentito trattare le tre persone nella Trinità come una comunione di tre dèi, ma le si deve intendere come un unico Dio nella relativa triade delle Persone, così anche la distinzione fra Cristo e Spirito è corretta solo se grazie alla loro diversità riusciamo a meglio intendere la loro unità. Non è possibile comprendere rettamente lo Spirito senza Cristo, ma nemmeno Cristo senza lo Spirito Santo. “Il Signore è lo Spirito”, ci dice Paolo in 2 Cor 3, 17. Ciò non vuol dire che i due siano sic et simpliciter la stessa realtà o la medesima persona. Vuol dire, invece, che Cristo, in quanto è il Signore, può esserci, fra noi e per noi, solo in quanto l’incarnazione non è stata la sua ultima parola. L’incarnazione ha compimento nella morte in Croce e nella Resurrezione. È come dire che Cristo può venire solo in quanto ci ha preceduti nell’ordine vitale dello Spirito Santo e si comunica tramite lui e in lui. La cristologia pneumatologica di san Paolo e dei discorsi di addio del Vangelo di Giovanni non sono ancora penetrati a sufficienza nella nostra visione della cristologia e della pneumatologia. Eppure la nuova presenza di Cristo nello Spirito è il presupposto essenziale perché vi siano sacramento e presenza sacramentale del Signore.    Ecco quindi che ancora una volta si avvivano di luce il ministero “spirituale” nella Chiesa e la sua collocazione teologica, che la tradizione ha fissato nella nozione di successio apostolica. “Successione apostolica” non significa affatto – come potrebbe sembrare – che diventiamo, per così dire, indipendenti dallo Spirito grazie all’ininterrotto concatenarsi della successione. Esattamente al contrario, il vincolo con la linea della successio significa che il ministero sacramentale non è mai a nostra disposizione, ma deve esser dato sempre e di continuo dallo Spirito, essendo per l’appunto quel Sacramento-Spirito che non possiamo farci da noi, porre in atto da noi. a tanto non è sufficiente la competenza funzionale in quanto tale: è necessario il dono del Signore. Nel sacramento, nel vicario operare della Chiesa per mezzo di segni, Egli ha riservato a se stesso la permanente e continua istituzione del ministero sacerdotale. Il legame quanto mai peculiare fra “una volta” e “sempre”, che vale per il mistero di Cristo, qui si fa oltremodo visibile. Il “sempre” del sacramento, il farsi pneumaticamente presente dell’origine storica in tutte le epoche della Chiesa, presuppone il collegamento all’ , all’irripetibile evento originario. Il legame con l’origine, con quel paletto saldamente piantato nella terra che è l’evento unico e non ripetibile, è imprescindibile. Mai potremo evadere in una pneumatologia sospesa in aria, mai lasciarci alle spalle il solido terreno dell’incarnazione, dell’operare storico di Dio. Viceversa, però, questo irripetibile si fa partecipabile nel dono dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo risorto. L’irripetibile non sprofonda nel già stato, nella non ripetibilità di ciò che è passato per sempre, ma reca in sé la forza del rendersi presente, giacché Cristo ha attraversato il “velo della carne” (Eb 10, 20) e pertanto nell’evento l’irripetibile ha reso accessibile ciò che sempre permane. L’incarnazione non si ferma al Gesù storico, alla sua sarx (cfr. 2 Cor 5, 16)! Il “Gesù storico” diviene importante per sempre proprio perché la sua carne viene trasformata con la Resurrezione, sì che ora egli può, nella forza dello Spirito Santo, farsi presente in tutti i luoghi e in tutti i tempi, come mirabilmente mostrano i discorsi di commiato di Gesù nel vangelo di Giovanni (cfr particolarmente Gv 14, 28: “Vado e tornerò a voi”). Da questa sintesi cristologico-pneumatologica è dato attendersi che per la soluzione del nostro problema ci sia di reale aiuto un approfondimento della nozione di “successione apostolica”.

3. Gerarchia e profezia

   Prima d’approfondire queste idee, va brevemente menzionata una terza proposta interpretativa del rapporto fra stabili ordinamenti ecclesiali e nuove fioriture pneumatiche: oggi vi è chi, rifacendosi all’interpretazione scritturistica di Lutero nella dialettica fra Legge e Vangelo, contrappone volentieri la linea cultico-sacerdotale a quella profetica nella storia della salvezza. Alla seconda sarebbero da ascrivere i movimenti. Anche questo, come tutto quello su cui abbiamo riflettuto finora, non è del tutto erroneo, ma, ancora una volta, è oltremodo impreciso e perciò inutilizzabile, in questa forma. Il problema è troppo vasto per esser trattato a fondo in questa sede. Anzitutto andrebbe ricordato che la legge stessa ha carattere di promessa. Solo perché tale, Cristo ha potuto adempierla e, adempiendola, al tempo stesso “abolirla”. Nemmeno i profeti biblici, in verità, hanno mai messo fuori corso la Torà, anzi, al contrario, hanno inteso valorizzarne il vero senso, polemizzando contro gli abusi che se ne facevano. È rilevante, infine, che la missione profetica sia sempre conferita a persone singole e mai sia fissata in un “ceto” o status peculiare. Tutte le volte che (come di fatto è avvenuto) la profezia si presenta come uno status, i profeti biblici la criticano con durezza non minore di quella che usano con il “ceto” dei sacerdoti veterotestamentari.    Dividere la Chiesa in una “sinistra” e una “destra”, nello status profetico degli ordini religiosi o dei movimenti da una parte e nella gerarchia dall’altra, è un’operazione a cui nulla nella Scrittura ci autorizza. al contrario è qualcosa d’artefatto e di assolutamente antitetico alla Scrittura. La Chiesa è edificata non dialetticamente, bensì organicamente. Di vero, quindi, c’è solo che si danno in essa funzioni diverse e che Dio suscita incessantemente uomini profetici – siano essi laici, religiosi o, perché no, vescovi e preti – i quali le lanciano quell’appello che nel corso normale dell’”istituzione” non attingerebbe la forza necessaria. Personalmente, ritengo che non sia possibile intendere a partire da questa schematizzazione natura e compiti dei movimenti. E questi stessi sono ben lontani dall’intendersi in tal modo.    Il frutto delle riflessioni esposte finora è quindi piuttosto scarso ai fini della nostra problematica, ma non per ciò privo d’importanza. Non si arriva alla meta se come punto di partenza verso una soluzione si sceglie una dialettica dei principi. Invece di tentare per questa via, a mio avviso conviene adottare un’impostazione storica, che è coerente con la natura storica della fede e della Chiesa.

II. Le prospettive della storia: successione apostolica e movimenti apostolici

1. Ministeri universali e locali

   Chiediamoci dunque: come appare l’esordio della Chiesa? Anche chi dispone d’una modesta conoscenza dei dibattiti sulla Chiesa nascente, in base alla cui configurazione tutte le chiese e comunità cristiane cercano di convalidarsi, sa bene che sembra un’impresa disperata poter arrivare a un qualche risultato muovendo da un simile interrogativo di natura storiografica. Se ciononostante mi azzardo a prenderne le mosse per cercare a tastoni una soluzione, ciò avviene col presupposto d’una visione cattolica della Chiesa e delle sue origini, che per un verso ci offre una solida cornice, ma per l’altro ci lascia aperti degli spazi d’ulteriore riflessione, che sono ancora ben lungi dall’essere esauriti. Non sussiste alcun dubbio che gli immediati destinatari della missione di Cristo siano, dalla Pentecoste in poi, i Dodici, che ben presto troviamo denominati anche “apostoli”. Ad essi è affidato il compito di recare il messaggio di Cristo “fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8), di andare a tutte le genti e di fare di tutti gli uomini dei discepoli di Gesù (cf Mt 28, 19). L’area loro assegnata è il mondo. Senza delimitazioni locali essi servono alla creazione dell’unico corpo di Cristo, dell’unico popolo di Dio, dell’unica Chiesa di Cristo. Gli apostoli erano non vescovi di determinate chiese locali, bensì, appunto, “apostoli” e, in quanto tali, destinati al mondo intero e all’intera Chiesa da costruirvi: la Chiesa universale precede le chiese locali, che sorgono come sue attuazioni concrete. Per dirla ancor più chiaramente e senza ombra d’equivoci, Paolo non è mai stato vescovo di una determinata località, né ha mai voluto esserlo. L’unica spartizione che si sia avuta agli inizi, Paolo la delinea in Gal 2, 9: Noi – Barnaba ed io – per i pagani; essi – Pietro, Giacomo e Giovanni – per gli ebrei. Senonché di questa bipartizione iniziale si perde ben presto ogni traccia: anche Pietro e Giovanni si sanno inviati ai pagani e immediatamente varcano i confini d’Israele. Giacomo, il fratello del Signore, che dopo l’anno 42 divenne una sorta di primate della Chiesa ebraica, non era un apostolo.    Anche senza ulteriori considerazioni di dettaglio, possiamo affermare che quello apostolico è un ministero universale, rivolto all’umanità intera, e pertanto all’intera unica Chiesa. Dall’attività missionaria degli apostoli nascono le chiese locali, le quali hanno bisogno di responsabili che le guidino. a costoro incombe l’obbligo di garantire l’unità di fede con la Chiesa intera, di plasmare la vita interna delle chiese locali e di mantenere aperte le comunità, al fine di consentir loro di crescere numericamente e di recare il dono del Vangelo ai concittadini non ancora credenti. Questo ministero ecclesiale locale, che agli inizi compare sotto molteplici denominazioni, acquisisce a poco a poco una configurazione stabile e unitaria. Nella Chiesa nascente, quindi, esistono con tutta evidenza, l’uno accanto all’altro, due ordinamenti che, pur avvenendo indubbiamente passaggi dall’uno all’altro, sono nettamente distinguibili: da una parte, i servizi delle chiese locali, che a poco a poco vanno assumendo forme stabili; dall’altra, il ministero apostolico, che ben presto non è più riservato unicamente ai Dodici (cf Ef 4, 10). In Paolo si possono distinguere nettamente due concezioni di “apostolo”: da un lato, egli dà forte risalto alla unicità specifica del suo apostolato, che poggia su di un incontro col Risorto e che pertanto pone lui sullo stesso piano dei Dodici. Dall’altro, Paolo prevede – per esempio in 1 Cor 12, 28 – un ministero di “apostolo” che trascende di molto la cerchia dei Dodici: anche quando in Rm 16, 7 egli designa Andronico e Giunia come “apostoli”, soggiace questa concezione più ampia. Una terminologia analoga troviamo in Ef 2, 20, laddove, parlandoci di apostoli e profeti quale fondamento della Chiesa, certamente non ci si riferisce solo ai Dodici. I Profeti di cui parla la Didaché, all’inizio del secondo secolo, sono intesi con tutta evidenza come un tale ministero missionario sovralocale. Tanto più interessante è che di essi si dice: “Sono i vostri sommi sacerdoti” (13, 3).    Possiamo dunque muovere dall’idea che la compresenza dei due tipi di ministero – l’universale e il locale – perduri fino al secondo secolo inoltrato, cioè fino all’epoca in cui ci si chiede già seriamente chi sia ora detentore della successione apostolica. Vari testi ci fanno render conto che la compresenza dei due ordinamenti fu ben lontana dal procedere senza conflitti. La Terza lettera di Giovanni ci palesa con evidenza una situazione conflittuale del genere. Ma quanto più venivano raggiunti – così come erano accessibili allora – gli “estremi confini della terra”, tanto più diveniva difficile continuare ad attribuire agli “itineranti” una posizione che avesse un senso; può darsi che abusi del loro ministero abbiano concorso a favorirne la graduale sparizione. Ormai spettava alle comunità locali e ai loro responsabili – che nel frattempo avevano assunto un profilo ben netto nella triade di vescovo, presbitero, diacono – il compito di propagare la fede nelle aree delle rispettive chiese locali. Che al tempo dell’imperatore Costantino i cristiani assommassero a circa l’otto per cento della popolazione di tutto l’impero e che alla fine del quarto secolo fossero ancora una minoranza, è un fatto che palesa quanto grave fosse quel compito. In tale situazione i capi delle chiese locali, i vescovi, dovettero rendersi conto che ormai erano diventati loro i successori degli apostoli e che il mandato apostolico pesava tutto sulle loro spalle. La consapevolezza che i vescovi, i capi responsabili delle chiese locali sono i successori degli apostoli, nella seconda metà del secondo secolo trova configurazione perspicua in Ireneo di Lione. La determinazione che egli dà dell’essenza del ministero episcopale include due elementi fondamentali: a) “Successione apostolica” significa anzitutto qualcosa che per noi è ovvio: garantire la continuità e l’unità della fede, e ciò in una continuità che noi definiamo “sacramentale”. b) Ma a tutto questo è legata anche un’incombenza concreta, che trascende l’amministrazione delle chiese locali: i vescovi ora devono curare che si continui ad attuare il mandato di Gesù, quello di far di tutti i popoli dei discepoli suoi e di recare il Vangelo sino ai confini della terra. a loro – e Ireneo lo evidenzia vigorosamente – incombe di far sì che la Chiesa non diventi una sorta di federazione di chiese locali giustapposte le une alle altre, ma mantenga invece la sua universalità e unità. Essi devono continuare il dinamismo universale dell’apostolicità.    Mentre all’inizio abbiamo accennato al pericolo che il ministero presbiterale possa finire con l’essere inteso in senso meramente istituzionale e burocratico e che se ne dimentichi la dimensione carismatica, ora si profila un secondo pericolo: il ministero della successione apostolica può intristirsi nell’espletare servizi al mero livello di chiesa locale, perdendo di vista e dal cuore l’universalità del mandato di Cristo; l’inquietudine, che ci spinge a portare agli altri il dono di Cristo, può estinguersi nella stasi d’una Chiesa saldamente sistemata. Per dirla in termini più drastici: nel concetto di successione apostolica è insito un qualcosa che trascende il ministero ecclesiastico puramente locale. La successione apostolica non può mai esaurirsi in questo. L’elemento universale, che va oltre i servizi da rendere alle chiese locali, resta una necessità imprescindibile.

2. Movimenti apostolici nella storia della Chiesa

   Questa tesi, che anticipa il risultato finale del mio discorso, dobbiamo ora approfondirla un poco e concretizzarla ulteriormente sul piano storiografico. Essa, infatti, ci conduce direttamente verso la collocazione ecclesiale dei movimenti. Ho detto che, per ragioni disparatissime, nel secondo secolo i servizi ministeriali propri della Chiesa universale a poco a poco scompaiono e il ministero episcopale li assume tutti in sé. Per molti aspetti fu uno sviluppo non solo storicamente inevitabile, ma pure teologicamente indispensabile; grazie ad esso emersero l’unità del sacramento e l’intrinseca unità del servizio apostolico. Ma – come si è detto – fu anche uno sviluppo che comportava dei pericoli. Fu perciò del tutto logico che già nel terzo secolo apparisse, nella vita della Chiesa, un elemento nuovo che si può tranquillamente definire come un “movimento”: il monachesimo. Si potrà obiettare che il primo monachesimo non ebbe alcun carattere apostolico né missionario, e che al contrario sia stato fuga dal mondo in isole di santità. Agli inizi è indubbiamente accertabile la mancanza della tensione missionaria, direttamente orientata alla propagazione della fede in tutto il mondo. In Antonio, che ai nostri occhi si staglia come figura storica nettamente individuabile agli esordi del monachesimo, l’impulso determinante è la volontà di perseguire la vita evangelica, la volontà di vivere radicalmente il Vangelo nella sua interezza. La storia della sua conversione ha una sorprendente analogia con quella di san Francesco d’Assisi. Sono identici gli impulsi che riscontriamo in quello e in quest’ultimo: a prender seriamente e rigorosamente alla lettera il Vangelo, a seguire Cristo in povertà totale e conformare tutta la vita alla sua. L’andar nel deserto è un evadere dalla struttura fortemente compaginata della chiesa locale, l’evadere da una cristianità che a poco a poco si è sempre più adattata ai bisogni della vita mondana, per entrare in una sequela senza “se” né “ma”. Ma insorge allora una nuova paternità spirituale, che non ha, certo, alcun carattere direttamente missionario, ma che integra quella dei vescovi e dei presbiteri con la forza d’una vita vissuta in tutto e per tutto pneumaticamente.    In Basilio, che conferì un’impronta definitiva al monachesimo orientale, vediamo poi, nei suoi contorni più netti, la problematica con la quale si sanno confrontati oggi parecchi movimenti. Egli non intese affatto creare una sua propria istituzione da affiancare alla Chiesa istituzionale. La prima e vera e propria regola che egli abbia scritto, voleva essere – per dirla con Balthasar – non una regola di religiosi, bensì una regola ecclesiale, l’”Enchiridion del cristiano risoluto”.    È quanto avviene all’originarsi di quasi tutti i movimenti, anche e soprattutto nel nostro secolo: si ricerca non una particolare comunità, bensì il cristianesimo integrale, la Chiesa che, obbediente al Vangelo, viva del Vangelo. Basilio, che in un primo tempo era stato monaco, accettò l’episcopato, sottolineandone vigorosamente la carismaticità, l’unità interiore della Chiesa vissuta dal vescovo nella sua vita personale. La vicenda di Basilio è analoga a quella dei movimenti odierni: egli dové ammettere che il movimento della sequela radicale non si lasciava fondere totalmente nella realtà della chiesa locale. Nel secondo tentativo d’una regola, quella che il Gribomont denomina “il piccolo Asketikon”, sembra che secondo lui il movimento sia una “forma intermedia tra un gruppo di cristiani risoluti, aperto alla totalità della Chiesa, e un ordine monastico che si va organizzando e istituzionalizzando”. Lo stesso Gribomont vede nella comunità monastica fondata da Basilio un “piccolo gruppo per la vitalizzazione del tutto” ecclesiale, e non esita a considerare Basilio “patrono non solo degli ordini impegnati nell’insegnamento e nell’assistenza, ma anche delle nuove comunità senza voti”.    È chiaro dunque che il movimento monastico crea un nuovo centro di vita, che non scalza le strutture della chiesa locale sub-apostolica, ma neppure coincide sic et simpliciter con essa, poiché vi opera come forza vivificante, e costituisce al tempo stesso una riserva da cui la chiesa locale può attingere per procurarsi ecclesiastici veramente spirituali, nei quali si fondono sempre di nuovo Istituzione e Carisma. Significativo in proposito è che la Chiesa orientale tragga i suoi vescovi dal mondo monastico e in tal modo definisca l’episcopato carismaticamente come un ministero che si rinnova incessantemente a partire dall’apostolicità.    Se si guarda ora alla storia della Chiesa nel suo insieme, vi appare evidente che per un verso il modello ecclesiale locale, decisamente improntato dal ministero episcopale, è la struttura portante e permanente attraverso i secoli. Ma esso è altresì percorso incessantemente dalle ondate di movimenti, che rivalorizzano di continuo l’aspetto universalistico della missione apostolica e la radicalità del Vangelo, e proprio per questo servono ad assicurare vitalità e verità spirituali alle chiese locali. Di queste ondate, successive al monachesimo della Chiesa primitiva, vorrei tratteggiarne brevemente cinque, dalle quali emerge sempre più nettamente l’essenza spirituale di ciò che possiamo denominare “movimento”, chiarendone così progressivamente la collocazione ecclesiologica.    1) La prima ondata, la scorgo in quel monachesimo missionario che ebbe la sua massima fioritura da Gregorio Magno (590-604) fino a Gregorio II (715-731) e Gregorio III (731-741). Papa Gregorio Magno intuì il potenziale missionario insito nel monachesimo e lo attivò inviando agli angli pagani Agostino (che fu poi arcivescovo di Canterbury) e compagni nelle isole britanniche. In precedenza si era già avuta la missione irlandese di san Patrizio, che spiritualmente affondava anch’essa le sue radici nella realtà monastica. Ecco quindi che il monachesimo diventa il gran movimento missionario che porta alla Chiesa cattolica le popolazioni germaniche, edificando così la nuova Europa, l’Europa cristiana. Armonizzando Oriente e Occidente, nel nono secolo Cirillo e Metodio, fratelli carnali e monaci, recano la fede cristiana al mondo slavo. Da tutto questo emergono nettamente due degli elementi costitutivi di quella realtà che è un “movimento”: a) Il papato non ha creato i movimenti, ma è stato il loro essenziale sostegno nella struttura della Chiesa, il loro pilastro ecclesiale. In questo si fa forse visibile come non mai il senso più profondo e la vera essenza del ministero petrino: il vescovo di Roma non è solo vescovo d’una chiesa locale; il suo ministero investe sempre la Chiesa universale. In quanto tale, ha carattere apostolico in un senso del tutto specifico. Deve mantener vivo il dinamismo della missione ad extra e ad intra. Nella Chiesa orientale era stato l’imperatore a pretendere in un primo tempo una sorta di ministero dell’unità e dell’universalità; non a caso si volle insignire Costantino del titolo di “vescovo ad extra” e di “quasi apostolo”. Ma la sua poté essere tutt’al più una funzione suppletiva a termine, la cui pericolosità è di evidenza palmare. Non è un caso che fin dalla metà del secondo secolo, con l’estinguersi degli antichi ministeri universali, i papi manifestino sempre più chiaramente la volontà di tutelare in particolar modo le già menzionate componenti della missione apostolica. Movimenti, che travalicano l’ambito e la struttura della Chiesa locale, e papato vanno sempre, e non per caso, fianco a fianco. b) Il motivo della vita evangelica, che si riscontra già in Antonio l’Egiziano, agli esordi del movimento monastico, resta decisiva. Ma ora si fa palese che la vita evangelica include il servizio d’evangelizzazione: la povertà e la libertà del vivere secondo il Vangelo sono presupposti di quel servizio al Vangelo che travalica il proprio paese e la propria comunità, e che – come tra poco vedremo più precisamente – è a sua volta la meta e l’intima motivazione della vita evangelica.    2) Solo sommariamente voglio accennare al movimento di riforma monastica di Cluny, che, determinante nel decimo secolo, si appoggiò anch’esso al papato per ottenere l’emancipazione della vita religiosa dal feudalesimo e dal predominio dei feudatari episcopali. Grazie al confederarsi dei singoli monasteri in una congregazione, il cluniacense fu il gran movimento devozionale e rinnovativo in cui prese forma l’idea di Europa. Dal dinamismo riformistico di Cluny germinò poi nell’undicesimo secolo la riforma gregoriana, che salvò il papato dal gorgo delle contese fra i nobili romani e dalla mondanizzazione, intraprendendo la grande battaglia per la libertà della Chiesa e la salvaguardia della sua peculiare natura spirituale, anche se poi l’impresa degenerò spesso in lotta di potere fra papa e imperatore.    3) Fin nel vivo dei nostri giorni è vitalmente attiva la forza spirituale di quel movimento evangelico che nel Duecento esplose con Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman. Quanto a Francesco, è del tutto evidente che egli non intendeva fondare un nuovo ordine, una comunità separata. Voleva semplicemente richiamare la Chiesa al Vangelo intero, raccogliere il “popolo nuovo”, rinnovare la Chiesa in base al Vangelo. I due significati dell’espressione “vita evangelica” s’intrecciano inseparabilmente: chi vive il Vangelo nella povertà della rinuncia all’avere e alla discendenza, deve per ciò stesso annunciare il Vangelo. a quei tempi vi era penuria e bisogno di Vangelo, e Francesco considera compito essenziale suo e dei suoi fratelli annunciare agli uomini il nudo nucleo del messaggio di Cristo. Egli e i suoi volevano essere evangelisti. E di qui risulta poi automaticamente l’esigenza di valicare i confini della cristianità, di portare il Vangelo sino ai confini della terra.    Nella sua polemica coi preti secolari che all’Università di Parigi si battevano, quali campioni d’una struttura ecclesiale localistica grettamente chiusa, contro il movimento d’evangelizzazione, Tommaso d’Aquino sintetizzò il nuovo e, insieme ciò che aveva antica radice dei due movimenti (il francescano e il domenicano) e il modello di vita religiosa che vi aveva preso forma. I preti secolari pretendevano che vigesse solo il tipo monastico cluniacense, nel suo tardivo e irrigidito assetto: monasteri separati dalla chiesa locale, rigorosamente chiusi nella vita claustrale e dediti unicamente alla contemplazione. Comunità del genere non potevano perturbare l’ordine della chiesa locale, mentre con i nuovi predicatori era inevitabile che si addivenisse ovunque a situazioni di conflittualità. In questo contesto, Tommaso d’Aquino evidenzia come modello Cristo stesso e, muovendo da lui, sostiene la superiorità della vita apostolica rispetto a un tipo di vita puramente contemplativo. “La vita attiva, che inculca agli altri le verità attinte con la predicazione e la contemplazione, è più perfetta della vita esclusivamente contemplativa”. Tommaso sa d’essere erede delle ripetute rifioriture della vita monastica, che si richiamano tutte alla vita apostolica. Ma, nell’interpretare quest’ultima in base alla esperienza degli ordini mendicanti, da cui proveniva, egli compie un notevole passo in avanti, proponendo qualcosa che era stato, sì, attivamente presente nella tradizione monastica, ma su cui s’era riflettuto scarsamente fino allora. Tutti, a proposito della vita apostolica, s’erano richiamati alla Chiesa delle origini; Agostino, per esempio, abbozzò tutta la sua regola muovendo, in definitiva, da At 4, 32: erano “un cuore solo e un’anima sola”. Ma a questo modello essenziale ora Tommaso d’Aquino aggiunge il discorso d’invio che Gesù tiene agli apostoli in Mt 10, 5-15: la genuina vita apostolica è quella che segue gli insegnamenti di At 4 e Mt 10: “La vita apostolica sta in questo: dopo aver abbandonato ogni cosa, gli apostoli percorsero il mondo annunciando il Vangelo e predicando, come risulta da Mt 10, dove viene imposta loro una regola”. Ecco quindi che Mt 10 appare addirittura come regola di ordine religioso, o, per meglio dire: la regola di vita e missione, che il Signore ha dato agli apostoli, è in se stessa la regola permanente della vita apostolica, una regola di cui la Chiesa ha perpetuo bisogno. È in base ad essa che si giustifica e convalida il nuovo movimento d’evangelizzazione.    La polemica parigina tra il clero secolare e i rappresentanti dei movimenti nuovi, nel cui ambito si originarono i testi citati, è di permanente importanza. Un’idea angusta e impoverita della Chiesa, per cui si assolutizza la struttura della chiesa locale, non può tollerare il nuovo ceto di annunciatori, che dal canto loro, però, trovano necessariamente il loro sostegno nel detentore d’un ministero ecclesiale universale, nel papa, quale garante dell’invio missionario e dell’istituzione d’una chiesa. Ne consegue logicamente il nuovo impulso allo sviluppo della dottrina del primato, che nonostante tutto – di là di ogni coloritura legata ai tempi – fu ripensata e ricompresa nelle sue radici apostoliche.    4) Giacché qui si tratta non della storia della Chiesa, ma di una presentazione delle forme di vita della Chiesa, posso limitarmi a menzionare solo brevemente i movimenti d’evangelizzazione del Cinquecento. Fra di essi emergono i Gesuiti, che intraprendono la missione mondiale nell’America appena scoperta, in africa e in asia; e ad essi non sono certo secondi i Domenicani né i Francescani, grazie al perdurare del loro impulso missionario.    5) Per finire, è a tutti noi ben nota la nuova ondata di movimenti, che si origina nell’Ottocento. Nascono congregazioni specificamente missionarie che in partenza mirano, più che a un rinnovamento ecclesiale interno, alla missione nei continenti poco o punto raggiunti dal cristianesimo. Questa volta viene per lo più evitato lo scontro con gli ordinamenti delle chiese locali, e anzi s’instatura una feconda collaborazione, dalla quale ricevono nuova forza anche le chiese locali già esistenti, giacché i nuovi missionari sono posseduti dall’impulso alla diffusione del Vangelo e al servizio di carità. Emerge ora con grande rilievo un elemento che, pur non essendo affatto mancato nei movimenti precedenti, può tuttavia sfuggire facilmente all’attenzione dei più: il movimento apostolico del diciannovesimo secolo è stato anche e soprattutto un movimento femminile, nel quale, in primo luogo, si pone un fortissimo accento sulla carità, sull’assistenza ai sofferenti e ai poveri; sappiamo tutti che cosa le nuove comunità femminili abbiano significato e significhino tuttora per gli ospedali e per l’assistenza ai bisognosi. Ma un’importanza notevolissima hanno anche scuola ed educazione, tanto che nell’armonica combinazione di insegnamento, educazione, carità si fa presente, in tutta la sua gamma, il servizio evangelico. Se dall’Ottocento si getta uno sguardo retrospettivo sui secoli precedenti, si scopre che le donne sono sempre state un elemento essenzialmente condeterminante dei movimenti apostolici. Si pensi a certe audaci donne del Cinquecento, quali Maria Ward o, per altro verso, Teresa d’Avila, a certe figure femminili del Medioevo, quali Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, alle donne della cerchia di san Bonifacio, alle sorelle di certi padri della Chiesa e infine alle donne menzionate nell’epistolario paolino e a quelle della cerchia di Gesù. Pur non essendo mai né vescovi né preti, le donne hanno sempre condiviso la vita apostolica e l’espletamento del mandato universale che vi è insito.

3. L’ampiezza del concetto di successione apostolica

   Dopo la scorsa che abbiamo dato ai grandi movimenti apostolici nella storia della Chiesa, torniamo alla tesi da me già anticipata, in seguito all’analisi delle risultanze bibliche: occorre ampliare e approfondire il concetto di successione apostolica, se si vuol rendere giustizia a tutto quello che esso significa ed esige. Che intendiamo dire? Anzitutto, che va saldamente ritenuta, quale nucleo di tale concetto, la struttura sacramentale della Chiesa, nella quale essa riceve sempre di nuovo l’eredità degli apostoli, l’eredità di Cristo. In forza del sacramento, nel quale Cristo opera per mezzo dello Spirito Santo, essa si distingue da tutte le altre istituzioni. Il sacramento significa che essa vive e viene continuamente ricreata dal Signore quale “creatura dello Spirito Santo”. In questa nozione vanno tenute presenti le due componenti del sacramento inseparabilmente congiunte, di cui abbiamo discorso in precedenza: anzitutto l’elemento incarnazionale-cristologico, vale a dire il legame che vincola la Chiesa all’unicità dell’incarnazione e dell’evento pasquale, il legame con l’agire di Dio nella storia. Ma poi, al tempo stesso, c’è il rendersi presente di questo evento per la forza dello Spirito Santo, cioè la componente cristologico-pneumatologica, che assicura novità e, insieme, continuità alla Chiesa viva.    Con ciò si sintetizza quel che nella Chiesa è sempre stato insegnato come essenza della successione apostolica, il nucleo del concetto sacramentale di Chiesa. Ma questo nucleo è impoverito, anzi atrofizzato, se si pensa, solo alla struttura della chiesa locale. Il ministero dei successori di Pietro fa superare la struttura meramente localistica della Chiesa; il successore di Pietro è non solo vescovo locale di Roma, bensì vescovo per la Chiesa intera e nella Chiesa intera. Incarna perciò un aspetto essenziale del mandato apostolico, un aspetto che non può mai mancare nella Chiesa. Ma nemmeno lo stesso ministero petrino sarebbe rettamente inteso e sarebbe travisato in una mostruosa figura anomala, qualora si addossasse soltanto al suo detentore il compito di realizzare la dimensione universale della successione apostolica. Nella Chiesa devono sempre aversi anche servizi e missioni che non siano di natura puramente locale, ma siano funzionali al mandato che investe la realtà ecclesiale complessiva e alla propagazione del Vangelo. Il papa ha bisogno di questi servizi, e questi hanno bisogno di lui, e nella reciprocità delle due specie di missioni si compie la sinfonia della vita ecclesiale. L’era apostolica, che ha valore normativo, dà un risalto così vistoso a queste due componenti, da indurre chiunque a riconoscerle irrinunciabili per la vita della Chiesa. Il sacramento dell’Ordine, il sacramento della successione, è necessariamente intrinseco a questa forma strutturale, ma – ancora più che nelle chiese locali – è circondato da una molteplicità di servizi, e qui si fa assolutamente non ignorabile anche la parte che nell’apostolato della Chiesa spetta alle donne. Sintetizzando il tutto, potremmo affermare addirittura che il primato del successore di Pietro esiste al fine di garantire queste componenti essenziali della vita ecclesiale e connetterle ordinatamente con le strutture delle chiese locali.    A questo punto, a scanso di equivoci, va detto a chiare note che nella storia i movimenti apostolici appaiono in forme sempre nuove, e necessariamente, poiché sono precisamente la risposta dello Spirito Santo alle mutevoli situazioni in cui viene a trovarsi la Chiesa. E quindi, come le vocazioni al sacerdozio non possono esser prodotte, né stabilite amministrativamente, così, men che meno, i movimenti possono esser organizzati e lanciati sistematicamente dall’autorità. Devono esser donati, e sono donati. A noi tocca solo esser sollecitamente attenti ad essi, grazie al dono del discernimento, accogliere quanto hanno di buono, imparare a superare quanto vi è di meno adeguato. Uno sguardo retrospettivo alla storia della Chiesa ci aiuterà a constatare con gratitudine che attraverso tutte le difficoltà si è sempre riusciti a dar posto nella Chiesa alle grandi nuove realtà che in essa germogliano. Non si potrà nemmeno, però, dimenticare tutta quella teoria di movimenti che fallirono o portarono a durevoli scissioni: montanisti, catari, valdesi, hussiti, il movimento di riforma del sedicesimo secolo. E probabilmente si parlerà di colpa da entrambe le parti, che alla fine è rimasta come separazione.

III. Distinzioni e criteri

   Quale ultimo doveroso punto di questa relazione, è inevitabile affrontare la questione dei criteri di discernimento. Per poterle dare risposte sensate, si dovrebbe preliminarmente precisare ancora un poco il concetto di “movimento” e forse perfino tentare di proporre una tipologia dei movimenti. Ma ne è ovvia l’impossibilità a questo punto. Ci si dovrebbe anche guardare dal proporre una definizione troppo rigorosa, poiché lo Spirito Santo tiene pronte in ogni momento delle sorprese, e solo retrospettivamente siamo in grado di riconoscere che dietro le grandi diversità esiste un’essenza comune. Tuttavia, quale avvio a una chiarificazione concettuale, vorrei enucleare in tutta brevità tre diversi tipi di movimenti individuabili nella storia più recente. Li diversificherei con tre denominazioni: movimento, corrente, iniziative. Il movimento liturgico della prima metà del nostro secolo, come pure quello mariano, emerso con forza sempre crescente nella Chiesa fin dall’Ottocento, li caratterizzerei non come movimenti, bensì come correnti, che poi hanno potuto, sì, condensarsi in movimenti concreti, quali le Congregazioni Mariane o i raggruppamenti di gioventù cattolica, ma non vi si sono esaurite. Raccolte di firme per postulare una definizione dogmatica, o cambiamenti della Chiesa, d’uso comune oggigiorno, non sono nemmeno essi dei movimenti, ma delle iniziative. Che cosa sia un movimento vero e proprio, probabilmente lo si può scorgere con la massima chiarezza nella fioritura francescana del Duecento: i movimenti nascono per lo più da una personalità carismatica guida, si configurano in comunità concrete, che in forza della loro origine rivivono il Vangelo nella sua interezza e senza tentennamenti riconoscono nella Chiesa la loro ragione di vita, senza di cui non potrebbero sussistere.    Con questo tentativo, certo assai insufficiente, di trovare una qualche definizione, eccoci già arrivati ai criteri che, per così dire, possono tenerne il posto. Il criterio essenziale è già emerso del tutto spontaneamente: è il radicamento nella fede della Chiesa. Chi non condivide la fede apostolica non può accampare la pretesa all’attività apostolica. Dal momento che la fede è una sola per tutta la Chiesa, ed è anzi essa a produrne l’unità, alla fede apostolica è necessariamente vincolato il desiderio di unità, la volontà di stare nella vivente comunione della Chiesa intera, per dirla il più concretamente possibile: di stare con i successori degli apostoli e col successore di Pietro, cui incombe la responsabilità dell’integrazione tra chiesa locale e Chiesa universale, quali unico popolo di Dio. Se la collocazione, il luogo dei movimenti nella Chiesa è l’”apostolicità”, ecco che per essi in tutte le epoche non può che esser basilare il volere la vita apostolica. Rinuncia a proprietà, a discendenza, a imporre la propria idea di Chiesa, cioè obbedienza nella sequela di Cristo, sono state considerate in ogni epoca gli elementi essenziali della vita apostolica, che naturalmente non possono valere in identico modo per tutti coloro che hanno parte in un movimento, ma che per tutti sono, in modalità diverse, punti d’orientamento della vita personale. La vita apostolica, inoltre, non è fine a se stessa, ma dona la libertà di servire. Vita apostolica chiama azione apostolica: al primo posto – ancora una volta in modalità diverse – sta l’annuncio del Vangelo: l’elemento missionario. Nella sequela di Cristo l’evangelizzazione è sempre, in primissimo luogo, evangelizare pauperibus, annunciare il Vangelo ai poveri. Ma ciò non si attua mai soltanto con parole; l’amore, che dell’annuncio costituisce il cuore, il centro di verità e il centro operativo, dev’essere vissuto e farsi così annuncio esso medesimo. Ecco quindi che all’evangelizzazione è sempre legato, in qualsivoglia forma, il servizio sociale. Tutto questo – per lo più grazie al travolgente entusiasmo che promana dal carisma originario – presuppone un profondo incontro personale con Cristo. Il divenire comunità, il costruire la comunità non esclude, anzi esige la dimensione della persona. Solo quando la persona è colpita e sconvolta da Cristo nel più profondo del suo intimo, si può toccare anche l’intimo altrui, solo allora può aversi riconciliazione nello Spirito Santo, solo allora può crescere una vera comunione. Nell’ambito di questa basilare compagine cristologico-pneumatologica ed esistenziale possono darsi accentuazioni e sottolineature diversissime, nelle quali avviene incessantemente la novità del cristianesimo, incessantemente lo Spirito alla Chiesa “come all’aquila rinnova la giovinezza” (Sal 103, 5).    Da qui si fanno visibili tanto i pericoli, quanto le vie di superamento che esistono nei movimenti. Vi è la minaccia di unilateralità che porta ad esagerare il mandato specifico che ha origine in un dato periodo o in forza d’un particolare carisma. Che l’esperienza spirituale cui si appartiene sia vissuta non come una delle plurime forme d’esistenza cristiana, bensì come l’essere investiti dalla pura e semplice integralità del messaggio evangelico, è un fatto che può indurre ad assolutizzare il proprio movimento, che viene a identificarsi con la Chiesa stessa, a intendersi come la via per tutti, mentre di fatto quest’unica via può esser fatta conoscere in modi diversi. Del pari è quasi inevitabile che dalla fresca vivacità e dalla totalità di questa esperienza nuova derivi ad ogni piè sospinto anche la minaccia di scontro con la comunità locale: uno scontro in cui può darsi colpa da entrambe le parti, onde entrambe le parti subiscono una spirituale sfida alla coerenza cristiana. Le chiese locali possono esser venute a patti col mondo in un certo quale conformismo, il sale può diventare scipito, come, nella sua critica della cristianità del suo tempo, a quest’ultima con pungente crudezza rinfaccia Kierkegaard. anche là dove la distanza dalla radicalità del Vangelo non è arrivata al punto aspramente censurato da Kierkegaard, l’irrompere del nuovo viene avvertito come perturbativo, tanto più se accompagnato, come non di rado avviene, da debolezze, infantilismi ed erronee assolutizzazioni d’ogni sorta.    Le due parti devono lasciarsi educare dallo Spirito Santo e anche dall’autorità ecclesiastica, devono apprendere una dimenticanza di sé senza la quale non è possibile il consenso interiore alla molteplicità delle forme che può assumere la fede vissuta. Le due parti devono imparare l’una dall’altra a lasciarsi purificare, a sopportarsi e a trovare la via che conduce a quei comportamenti di cui parla nell’inno alla carità Paolo (1 Cor 13, 4ss). Ai movimenti, quindi, va rivolto un monito: anche se nel loro cammino hanno trovato e partecipano ad altri la totalità della fede, essi sono un dono fatto alla totalità della Chiesa, e alle esigenze di questa totalità devono sottomettersi, per restare fedeli a ciò che è loro essenziale. Ma occorre che si dica chiaramente anche alle chiese locali, anche ai vescovi, che non è loro consentito indulgere ad alcuna pretesa d’uniformità assoluta nelle organizzazioni e programmazioni pastorali. Non possono far assurgere i loro progetti pastorali a pietra di paragone di quel che allo Spirito Santo è consentito operare: di fronte a mere progettazioni umane può accadere che le chiese si rendano impenetrabili allo Spirito di Dio, alla forza di cui esse vivono. Non è lecito pretendere che tutto debba inserirsi in una determinata organizzazione dell’unità; meglio meno organizzazione e più Spirito Santo! Soprattutto non si può sostenere un concetto di comunione in cui il valore pastorale supremo consista nell’evitare conflitti. La fede è sempre anche spada e può esigere proprio il conflitto per amore di verità e di carità (cf Mt 10, 34). Un progetto di unità ecclesiale in cui i conflitti fossero liquidati a priori come polarizzazione e la pace interna fosse ottenuta a prezzo della rinuncia alla totalità della testimonianza, ben presto si rivelerebbe illusorio. Non è lecito, infine, che s’instauri un certo atteggiamento di superiorità intellettuale per cui si bolli come fondamentalismo lo zelo di persone animate dallo Spirito Santo e la loro candida fede nella Parola di Dio, e non si consenta nient’altro che un modo di credere per il quale il “se” e il “ma” sono più importanti della sostanza di quanto si dice di credere. Per finire, tutti devono lasciarsi misurare col metro dell’amore per l’unità dell’unica Chiesa, che rimane unica in tutte le chiese locali e, in quanto tale, si palesa continuamente nei movimenti apostolici. Chiese locali e movimenti dovranno, le une e gli altri, costantemente riconoscere e accettare che è vero tanto l’ubi Petrus, ibi ecclesia quanto l’ubi episcopus, ibi ecclesia. Primato ed episcopato, struttura ecclesiale locale e movimenti apostolici hanno bisogno gli uni degli altri: il primato può vivere solo tramite e con un episcopato vivo, l’episcopato può salvaguardare la sua dinamica e apostolica unità solo in costante collegamento col primato. Quando uno dei due è indebolito o sminuito, è la Chiesa tutta a soffrirne.    Dopo tutte queste considerazioni, è doveroso che si concluda con gratitudine e gioia, poiché è molto evidente che lo Spirito Santo è anche oggi all’opera nella Chiesa e le concede nuovi doni, grazie ai quali essa rivive la gioia della sua giovinezza (Sal 42, 4 Vg). Gratitudine per quelle tante persone, giovani e anziane, che aderiscono alla chiamata dello Spirito e, senza guardarsi né attorno né indietro, si lanciano gioiosamente nel servizio del Vangelo. Gratitudine per i vescovi che si aprono ai nuovi cammini, fanno loro posto nelle proprie rispettive chiese, dibattono pazientemente con i loro responsabili per aiutarli a superare ogni unilateralità e per condurli alla giusta conformazione. E soprattutto, in questo luogo e in quest’ora, ringraziamo il papa Giovanni Paolo II. Egli ci precede tutti nella capacità d’entusiasmo, nella forza del ringiovanimento interiore in grazia della fede, nel discernimento degli spiriti, nell’umile e animoso lottare perché siano sempre più copiosi i servizi che si rendono al Vangelo. Egli ci precede tutti nell’unità coi vescovi di tutto il pianeta, che instancabilmente ascolta e guida. Grazie al papa Giovanni Paolo II, che è per tutti noi guida a Cristo. Cristo vive e dal Padre invia lo Spirito Santo: questa è la gioiosa e vivificante esperienza che ci viene concessa proprio nell’incontro coi movimenti ecclesiali del nostro tempo. (altro…)