
7 dicembre: luce e donazione di sé a Dio

(C) CSC Audiovisivi
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Cosa ti ha spinto a diventare sacerdote? Chiede una tredicenne a Don Marco, nel corso di un’intervista informale sui tanti “fioretti” che hanno costellato i suoi anni di vita e di sacerdozio. «A me non interessava tanto diventare sacerdote. Ho chiesto solo un consiglio a delle persone che conoscevano il mondo, più di me, che erano più adulti, per capire di cosa c’era più bisogno, oggi, nell’umanità. Potevo essere un insegnante, ingegnere, mi piaceva fare anche l’architetto, o viaggiare. Mi piacevano tante cose. E a scuola andavo bene. Erano gli anni del boom economico e avevo tutte le possibilità. Ero indeciso perché avevo una borsa di studio all’università, ma volevo essere utile. Ho preso così appuntamento con il Vescovo. Volevo chiedergli cosa ne pensasse, cosa serviva di più all’umanità. Lui era così indaffarato che non ha avuto il tempo di parlare con me, sono stato da solo per ore, tanto che ho pensato: “sicuramente l’umanità non ha bisogno di me, ma forse neanche la chiesa ha bisogno di me, ma chi te l’ha detto che sei così importante? Forse non valgo niente… però amo Gesù, lo amerò sempre, anche se dovessi essere inutile”. Quando finalmente il Vescovo ha trovato il tempo di parlare con me e mi ha chiesto cosa volessi, non volevo più niente! E allora gli ho detto che forse potevo collaborare… Lui era sorpreso, indeciso, ma alla fine mi ha detto: “Ieri ho posto la prima pietra di una chiesa. Quando questa chiesa fra sei anni sarà finita, non c’è nessun sacerdote. Vuoi fare tu il parroco di quella chiesa?”. Ma la mia esperienza era stata di una scelta di Dio prima, cioè non di fare il sacerdote, ma di seguire Dio e di amare Gesù, anche dovessi essere inutile, tanto Gesù qualcosa te la fa fare sicuramente». (Don Marco – Italia) (altro…)
«Oggi Bangui diviene la capitale spirituale del mondo. L’Anno Santo della Misericordia viene in anticipo in questa Terra. Una terra che soffre da diversi anni la guerra e l’odio, l’incomprensione, la mancanza di pace. Ma in questa terra sofferente ci sono anche tutti i Paesi che stanno passando attraverso la croce della guerra. Bangui diviene la capitale spirituale della preghiera per la misericordia del Padre. Tutti noi chiediamo pace, misericordia, riconciliazione, perdono, amore. Per Bangui, per tutta la Repubblica Centrafricana, per tutto il mondo, per i Paesi che soffrono la guerra chiediamo la pace!». Sono le parole con cui papa Francesco ha preceduto l’apertura della Porta Santa della cattedrale di Bangui, il 29 novembre, attraversandola, subito dopo, da solo, con un gesto intenso e carico di significati. Mentre il Papa è ancora sul volo di ritorno, abbiamo raggiunto telefonicamente a Bangui Geneviève Sanzé, originaria della Repubblica Centrafricana, membro del Pontificio Consiglio per i laici, e che presta attualmente il suo servizio presso il Centro internazionale dei Focolari, in Italia. « Nessuno poteva immaginare quello che è successo nel popolo, ci ha riportato la gioia, la pace!», esordisce. Eppure le attese erano alte, sia da parte cristiana che musulmana: «Ora viene l’uomo di Dio, si diceva. È la chance suprema che Dio ci manda». Un viaggio rischioso, per motivi di sicurezza, ma «nonostante fossero tutti preoccupati e sia stato scoraggiato in tutti modi, il Papa è voluto proprio venire». «E il popolo sente che è venuto per loro, non per un compito o un evento speciale, ma come un padre che vuole incoraggiare – spiega Geneviève -. È stato dai cristiani, cattolici e protestanti, ma anche dai musulmani. Tutti abbiamo preparato il suo arrivo con entusiasmo, anche se cristiani da una parte, musulmani dall’altra, e il Papa è andato da tutti. Tanti pensavano che fosse meglio che annullasse la visita alla moschea, nel quartiere dove nessun cristiano può entrare. Invece è andato lo stesso. E anche lì è stato straordinario».
Papa Francesco, nella messa allo stadio ha invitato i «cari Centrafricani» a «guardare verso il futuro e, forti del cammino già percorso, decidere risolutamente di compiere una nuova tappa nella storia cristiana del vostro Paese» ed esortando ciascuno ad essere «artigiano del rinnovamento umano e spirituale». Il giorno prima aveva ricordato «l’amore per i nemici, che premunisce contro la tentazione della vendetta e contro la spirale delle rappresaglie senza fine», e ancora che «dovunque, anche e soprattutto là dove regnano la violenza, l’odio, l’ingiustizia e la persecuzione, i cristiani sono chiamati a dare testimonianza di questo Dio che è Amore». Con queste parole nel cuore, Geneviève racconta di un episodio cui ha assistito con i propri occhi: «Durante la messa è entrato un musulmano, chiaramente riconoscibile, con un cartello con su scritto “Dio è grande”. I cristiani lo hanno applaudito e, andando verso di lui, lo hanno abbracciato. Vogliono vivere quello che il Papa chiede, questa responsabilità nell’amore e nella misericordia; questa porta aperta che ci riporta tutti in quella grazia. E lo hanno dimostrato con quel gesto». «Quando sono arrivata ho trovato cuori duri. Vedere in due giorni il cambiamento che c’è stato nel popolo è stato straordinario. Il gesto del Papa, poi, dell’apertura della Porta Santa, non è stato solo un atto, ma una vita che lui stesso ha testimoniato, nella misericordia con cui è andato verso tutti: ha portato questo amore di Dio a tutti».
«Il discorso della sindaco di Bangui (e presidente dello stato di transizione) – spiega ancora Geneviève – ha messo davanti al Papa tutti i peccati del nostro Paese, non ha tolto la sua responsabilità; ha chiesto perdono a Dio, chiedendo al Papa che, con la sua benedizione, invochi la grazia del perdono sulla nazione. Trovarsi in cattedrale, sapendo tutto quello che è successo, e vedere che proprio qui papa Francesco apre la porta della misericordia, è stato per me veramente eccezionale. Non ha detto tanto, ma ha saputo mettere il dito nel punto più debole, lanciando lì un appello a tutte le nazioni che fabbricano le armi. E ha chiamato Bangui la capitale spirituale del mondo. Sentire che un paese che ha versato così tanto sangue innocente viene chiamato capitale spirituale, è stato vedere Dio che viene incontro». (altro…)
«Abito a Nicosia (Cipro) e sono nata e cresciuta in una famiglia ortodossa che lo era piuttosto di nome. . .Non c’era profondità, non c’era un rapporto con Gesù. Anzi, Dio era l’alleato e il monopolio dei nostri genitori, nei casi in cui noi dovevamo obbedire ai loro comandi. Finito il liceo, ho vinto una borsa di studio per studiare odontoiatria a Budapest, in Ungheria. È stato difficile adattarmi a questa nuova realtà: per la prima volta da sola, lontana dalla mia famiglia, dovevo abituarmi a vivere con persone sconosciute. Allora era lontano lo spirito multiculturale che si respira adesso. Ero piena di pregiudizi e in una atteggiamento di rifiuto. In quell’anno ho incontrato grandi delusioni, anche con gli amici. Nel frattempo dentro di me è iniziata una ricerca profonda di una vita più autentica. Nel nuovo collegio ho conosciuto una ragazza ungherese. Mi aveva colpita la sua allegria, e anche l’accoglienza verso tutti. Si era addirittura offerta di aiutarmi con l’ungherese. Delusa dalle amicizie precedenti, il suo modo di fare mi ha incuriosito. Mi chiedevo: sarà sincera o farà finta? Ma… ho cominciato a fidarmi di lei. Condividevamo tutto: gioie, dolori, insuccessi. Anche beni materiali. Quando andava dalla sua famiglia, in un paesino a 50 km da Budapest, il fine settimana, mi portava spesso con lei, perché non sentissi la mancanza della mia famiglia. Era una famiglia di contadini, con un amore grande e una calda ospitalità. Ma c’era un punto di domanda: ogni giorno ad un’ora precisa e una sera alla settimana, lei spariva senza dare spiegazioni. Sapevo solo che era con altre amiche. Si trattava – ho poi scoperto – di alcune ragazze che formavano il gruppo delle giovani della nascente comunità del Focolare in Ungheria. In quei tempi – si era sotto il regime socialista -, qualsiasi persona che venisse scoperta coinvolta in un movimento religioso era perseguitata con gravi conseguenze, come per esempio la perdita del lavoro o del posto all’Università. Un giorno, però, lei ha sentito che poteva confidarsi con me: mi ha detto come aveva conosciuto il Movimento dei Focolari. Un sacerdote nel suo paesino le aveva raccontato la storia di Chiara Lubich, di una giovane come noi, della nostra età, e come l’avesse colpito il fatto che lei, durante la seconda guerra mondiale, vedendo che nella vita tutto crollava sotto le bombe e non rimaneva nessun ideale, ha voluto fare di Dio l’ideale della sua vita e vivere secondo la Sua volontà. E mi ha spiegato che si incontrava con queste amiche, e insieme cercavano di fare propio questo: mettere Dio al primo posto della loro vita, vivendo ogni giorno la Parola di Vita, una frase del Vangelo con una spiegazione di Chiara, scambiandosi poi le esperienze dalla vita quotidiana e facendosi cosi dono una all’altra!! Tutto questo mi ha toccato profondamente, ho cominciato a leggere il Nuovo Testamento che mai avevo aperto prima, e questo è stato decisivo per il mio futuro. La vita ha cominciato a cambiare: ogni persona che incontravo durante la giornata non potevo più né ignorarla, né giudicarla, né tantomeno sottovalutarla perché ormai in me era entrata un’altra mentalità: siamo tutti figli di un Unico Padre e quindi fratelli fra di noi. Ogni persona era candidata all’unità (chiesta da Gesù: Padre, che tutti siano uno): buona, cattiva, brutta, antipatica, grande o piccola. Dentro di me si è risvegliata la teologia patristica vissuta, e in particolare quel: “Vedo il mio fratello, vedo il mio Dio” di San Giovanni Crisostomo. Hanno cominciato a crollare i muri dei pregiudizi che avevo dentro di me. Capivo che il Vangelo non era qualcosa che si legge solo in chiesa e basta, ma che poteva portare una rivoluzione, se lo prendevamo sul serio e lo trasformavamo in vita ovunque: all’Università, nella fabbrica, nell’ospedale, in famiglia! In tutto questo entusiasmo e gioia che ormai riempiva la mia vita, c’era un grande dolore: le altre ragazze erano tutte cattoliche ed io ero l’unica ortodossa. Loro partecipavano ogni giorno alla santa Messa. Avevo il grande desiderio di essere con loro in quei momenti, ma mi hanno suggerito di cercare la mia chiesa ortodossa lì a Budapest, per poter andare alla Liturgia e ricevere l’Eucaristia. Questa separazione era dolorosa, ma Chiara invitava i membri del Movimento appartenenti ad altre Chiese cristiane ad amare la propria chiesa, così come lei aveva fatto con la sua. Questa spiegazione mi ha dato una grande pace e ancora una volta si é confermato in me che la sapienza, l’amore, e la discrezione che Chiara aveva nei confronti dei credenti delle altre Chiese non poteva che essere frutto di un intervento di Dio nella nostra epoca. Ho trovato la Chiesa ortodossa, che ho cominciato a conoscere. Sono andata ogni domenica e con la benedizione del sacerdote ho potuto prendere la comunione ogni volta che c’era la liturgia. In questo nuovo inizio non mi hanno mai lasciata da sola. Tante volte le altre ragazze cattoliche sono venute con me. La vita Liturgica e sacramentale non è stata più una cosa formale, ma la coltivazione di un rapporto d’amore con Gesù, l’attivazione della grazia di Dio nel mio cuore che mi ha aiutato nella lotta quotidiana e ha moltiplicato i frutti dell’amore, della gioia e della pace dentro di me». Esperienza raccontata a Istanbul, il 14 marzo 2015, in occasione della presentazione dei primi volumi di Chiara Lubich tradotti in greco. (altro…)
«(…) La nostra spiritualità poggia su un punto da cui è tutta scaturita: la fede nell’amore di Dio, l’essere coscienti che non siamo soli, non siamo orfani perché c’è un Padre sopra di noi che ci ama. Una delle applicazioni di questa fede si ha quando qualche pensiero ci preoccupa, ci mette in agitazione. Sono, alle volte, paure del futuro, preoccupazioni per la salute, allarmi per supposti pericoli, trepidazioni per i propri parenti, apprensione per un certo lavoro, incertezze sul come comportarsi, spaventi per notizie negative, timori di vario genere… Ebbene, in questi momenti di sospensione Dio vuole che noi crediamo al suo amore e ci domanda un atto di fiducia: se siamo veramente cristiani, vuole che approfittiamo di queste circostanze penose per dimostrargli che crediamo al suo amore. E ciò significa: aver fede che lui ci è Padre e pensa a noi. Gettare in lui ogni nostra preoccupazione. Caricarla su di lui. Dice la Scrittura: “E ogni vostra ansietà gettate su di lui perché egli ha cura di voi” (1 Pt 5, 7). (…) Il fatto è che Dio è Padre e vuole la felicità dei suoi figli. Per questo si fa carico lui di tutti i loro pesi. Inoltre, Dio è Amore e vuole che i suoi figli siano amore. Ora tutte queste preoccupazioni, ansietà, paure, bloccano la nostra anima, la fanno chiudere su se stessa e impediscono che si apra a Dio col fare la sua volontà e al prossimo col farci uno con lui per amarlo come si deve. I primi tempi del Movimento, quando la pedagogia dello Spirito Santo cominciava a farci muovere i primi passi nella via dell’amore, il “gettare ogni preoccupazione nel Padre” era affare di tutti i giorni. Si usciva, infatti, da un modo di vivere puramente umano, benché fossimo cristiani, per entrare in un modo di vivere soprannaturale, divino. Si incominciava, cioè, ad amare. E le preoccupazioni sono inciampi all’amore. Lo Spirito Santo, dunque, doveva insegnarci il modo di eliminarle. E l’ha fatto. Ricordo che si diceva che come non si può tenere su una mano una brace, ma la si scuote subito, perché altrimenti brucia, così, con la stessa sollecitudine, dovevamo gettare nel Padre ogni preoccupazione. E non ricordo preoccupazione messa nel cuore del Padre della quale egli non si sia preso cura. (…). Gettiamo ogni preoccupazione in lui. Saremo liberi di amare. Correremo meglio nella via dell’amore che – come si sa – porta alla santità». C.Lubich, Cercando le cose di lassù, Roma 1992, p. 26-29. Fonte Centro Chiara Lubich (altro…)