Ri-innamorarci giorno per giorno
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Robert Chelhod, al centro, con i focolarini ad Aleppo
«Avevo solo 12 anni quando ho conosciuto Chiara Lubich. Se non fosse stato per l’amicizia con lei e per il carisma dell’unità non avrei resistito in un ambiente così fortemente competitivo e pieno di sabbie mobili. Ho un profondo senso di gratitudine per tutti quelli con cui condivido questa sfida». Fernando Muraca, dopo gli studi universitari a Roma, ha iniziato la sua attività come regista e autore di teatro. Dopo il successo ottenuto con la regia di alcune puntate in due serie televisive, l’esordio nel mondo del cinema con la C maiuscola. Tra i suoi lavori più recenti, il coraggioso “La terra dei santi”, intenso film sul ruolo delle donne di mafia calabresi, ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti. A una platea molto attenta Fernando racconta la sua storia: «Una sera mi arriva una mail dal mio amico Giampietro, missionario in Brasile. Tempo prima avevo girato gratuitamente un documentario per raccogliere fondi per la sua comunità, impegnata a salvare donne, uomini e bambini che vivevano sotto i ponti di San Paolo. Nella mail mi chiedeva se ero disposto a lasciare per qualche anno il mio lavoro per documentare quello che stava succedendo lì. La sua missione, ora, si occupava anche di persone cadute nella schiavitù della droga. L’approccio senza pregiudizi, basato sull’amore evangelico, aveva già salvato 10 mila persone destinate a morte certa. Un risultato che doveva essere documentato».
«Nella mail – continua Fernando – Giampietro spiegava un antefatto. Un uomo molto ricco, dopo averlo fatto pedinare e aver scoperto chi era veramente, aveva deciso di offrirgli metà delle sue ricchezze. Giampietro non poteva accettare, aveva fatto voto di povertà. Ma aveva un desiderio: che io andassi in Brasile a documentare il lavoro della missione. Così quell’uomo si era offerto di pagare tutte le spese, comprese le bollette di casa durante la mia assenza». Sorride Fernando: «Sembra un film, lo so, ma è accaduto davvero». E continua: «Ne ho parlato con mia moglie e i nostri figli. Si trattava di lasciare il mio lavoro per due o tre anni, uscire dal giro, mettere a rischio la mia carriera, e mia moglie avrebbe dovuto mandare avanti la famiglia da sola durante la mia assenza. Lei rispose che era pronta a questo sacrificio, se era utile a rendere visibili le sofferenze di quelle persone. E il più grande dei figli: “Papà, non possiamo girarci dall’altra parte”. Anche i miei amici mi hanno incoraggiato ad accettare. Stava per uscire nelle sale il mio film, e io dovevo partire dopo 15 giorni. Una follia. Il lungometraggio aveva una piccola distribuzione. Senza la mia presenza a promuoverlo forse sarebbe morto e avrei bruciato la mia unica chance di carriera nel cinema. Ma la risposta di mio figlio, Non possiamo girarci dall’altra parte, fu decisiva per me».
«A San Paolo, documentare la vita di persone che vivevano sotto i ponti era all’inizio quasi impossibile. Odiavano essere fotografate, figuriamoci filmate! Per far capire che non volevo approfittare della loro immagine dovevo fare come i missionari. Ho cominciato a dormire anch’io sotto i ponti, a condividere la loro giornata, e così hanno accettato. Dopo un mese sono tornato in Italia per staccare un po’. L’impatto era stato duro. Dovevo ragionare sul materiale che stavo girando e riorganizzare un nuovo viaggio più lungo. Intanto in Italia era successo quello che tutti avevano previsto. Senza soldi per la promozione e senza la presenza del regista, il mio film stava velocemente sparendo dalle sale.
Poi un fatto imprevisto. A Roma, all’ultimo giorno di proiezione si presenta un importante critico cinematografico. Il giorno dopo, su un quotidiano nazionale, sia nell’edizione on line che su quella cartacea, escono due recensioni molto positive. Il film inizia a essere invitato ai festival, in Italia e all’estero. Vince molti premi, alcuni prestigiosi. Da allora sono passati tre anni. Terminato il lavoro in Brasile, ho ripreso le fila della mia vita. Non ho girato altri film, ma ne ho diversi in cantiere, su argomenti che prima non avevo il coraggio di affrontare. Ho scritto due romanzi e un saggio sull’esperienza di “incarnazione” dei miei ideali nell’arte. Ho maturato anche il progetto di dedicarmi ai giovani. In questo “mestiere” c’è bisogno di conforto e incoraggiamento. E di punti di riferimento». Chiara Favotti (altro…)
Per la Chiesa cattolica e altre chiese cristiane sta per cominciare la Quaresima, il periodo dell’anno liturgico che precede la celebrazione della Pasqua, dal 14 febbraio al 29 marzo per il rito romano, dal 18 febbraio al 31 marzo per il rito ambrosiano. Tale periodo, caratterizzato dall’invito alla conversione a Dio, ha una durata di circa quaranta giorni, numero che ricorre frequentemente sia nell’Antico che nel Nuovo testamento (ad esempio, nell’Antico Testamento, i 40 anni trascorsi da Israele nel deserto, i 40 giorni del diluvio universale o di permanenza di Mosè sul monte Sinai e, nel Nuovo, i 40 giorni di digiuno di Gesù nel deserto). Nel calendario romano la Quaresima ha inizio con il rito delle ceneri, durante il quale il sacerdote sparge un pizzico di cenere benedetta sul capo o sulla fronte dei fedeli, a simboleggiare la caducità della vita terrena e l’impegno penitenziale. (altro…)
Nella vita di Giordani troviamo un avvenimento che ci stimola ad una particolare riflessione: il primo a scrivere la sua biografia nel 1985 non è stato un cattolico, ma un pastore battista, lo scozzese Edwin Robertson . Non possiamo limitarci a dire che è “ironia della storia” […] Giordani tale atto di amicizia se lo è meritato, davanti al Cielo e davanti alla storia umana. Giordani presiedette un convegno di ecumenisti già nell’autunno 1967 presso la sede del Movimento a Rocca di Papa. Vi partecipava l’archimandrita mons. Eleuterio Fortino, che anni dopo (2004), ha dato questa testimonianza: «Giordani in quel convegno era riuscito per la sua serenità interiore a placare i toni accesi del dibattito; ed aveva chiarito gli aspetti teologici e pastorali del decreto del Vaticano II Unitatis redintegratio (1964), facendo cadere le ultime resistenze degli oppositori italiani alla preghiera in comune fra tutti i cristiani nella Settimana per l’unità delle Chiese» . Per parte sua Giordani seguiva già dal 1940 questa Settimana, che ad essere precisi è un Ottavario: dal 18 gennaio (festa della cattedra di S. Pietro a Roma) al 25 gennaio (festa della conversione di san Paolo). Scrive Giordani nel 1940: “Durante i preparativi di questa Ottava s’è sparsa la notizia, al principio assai imprecisa, che in un monastero di monache trappiste presso Roma, si pregava con un’intensità particolare, per la cessazione delle divisioni tra cristiani. Io venivo a sapere che, in quella Trappa, un’umile monaca s’era offerta vittima per l’unità della Chiesa e che la sua immolazione aveva colpito profondamente una comunità di fratelli separati in Inghilterra. La notizia, pur così vaga, allargava immensamente – agli occhi miei almeno – l’orizzonte del movimento unitario e apriva prospettive nuove, in cui, come lembo d’azzurro tra fenditure di tempesta, si mostrava il volto del cielo sopra l’umanità rissosa. Metteva, insomma, nella sua vera luce l’Ottava e i suoi fini. Ora queste monache probabilmente non sapevano nulla di tutti i dibattiti e commissioni e comitati fatti attorno a questo tema. Poste di fronte al problema della scissione, esse l’avevano contemplato con semplicità, al lume della Regola, che mai devia: e cioè avevano visto che l’unità andava cercata dove sta, cioé alla fonte, alla matrice: doveva in altri termini, chiedersi al Padre, nel quale e solo nel quale i fratelli si unificano. Ciò vuol dire che queste umili creature, che non incontreremo in nessun congresso, han visto subito il da farsi e han messo sulla strada diritta il movimento per l’unità. Qualcuno può essere tentato di domandarla a Hegel, a Loisy e magari a Marx; e nei giornali e nei convegni sono venuti fuori nomi di uomini, i quali non han dato e non possono dare che soluzioni incomplete: l’unità non è opera di uomini ma di Dio: non di studio, ma di grazia. Accetta, Padre, queste offerte pure, anzitutto per la tua Chiesa, perché ti degni di purificarla, custodirla, e unificarla…” .
L’ecumenismo, impostato da Chiara Lubich come «ecumenismo della vita» e vissuto nel Movimento dei Focolari con sue proprie esperienze, maturato alla luce delle anime grandi di Giovanni XXIII e Paolo VI e dello spirito del Vaticano II, diventa l’impegno centrale di Giordani negli ultimi anni della sua vita. Si può dire che per lui ormai tutti i cristiani sono veramente fratelli ritrovati. Egli vive e diffonde il nuovo spirito ecumenico fatto essenzialmente di amore e teso alla comunione delle anime, nella certezza che «dall’unità dei cuori si svolge quella delle menti» . È commovente pensare che l’ultimo articolo sull’ecumenismo, Il viaggio verso l’unità, lo ha scritto nel dicembre 1979, quattro mesi prima della sua partenza per il Cielo. Anche qui coltiva tenacemente una visione profetica, in cui pone l’unità dei cristiani come base e lievito per «imprimere uno slancio all’ideale d’unità universale tra i popoli» . (Tratto da: Tommaso Sorgi, Il percorso ecumenico di Igino Giordani, «Nuova Umanità» n.199). (altro…)