Movimento dei Focolari
Un anniversario carico di sorprese: gli auguri del Papa

Un anniversario carico di sorprese: gli auguri del Papa

L’esperienza dell’unione con Dio – Il 7 dicembre ricorrono 60 anni dalla nascita a Trento del Movimento dei Focolari. Quel 7 dicembre 1943 Chiara Lubich, allora poco più che ventenne, era sola quando ha pronunciato il suo sì per sempre a Dio. Più volte ha ripetuto che il solo pensiero che sarebbe nato il Movimento avrebbe turbato quella scelta di Dio solo. E, ora, nel 60^, in un intenso clima spirituale, ha parlato alle oltre 1500 focolarine d’Europa e dei 5 continenti, riunite a Castelgandolfo per il loro incontro annuale, dell’unione con Dio, con momenti di profonda comunione sulla sua esperienza personale.

“Quando entra l’unione con Dio, il divino ti invade tutta: è qualcosa di nuovo che tu vedi non con gli occhi del corpo, ma con gli occhi dell’anima. Nella mente entra una luce, la luce dello Spirito Santo, che è più dell’intelligenza, la eleva. Nel cuore entra l’amore. Prima c’era l’amore umano, limitato ai parenti, agli amici. Poi entra l’amore stesso di Dio, che spalanca il cuore su tutto il mondo. Con la vita soprannaturale si innesta anche una forza nuova. Anche le forze fisiche sono sostenute dalla grazia di Dio”.  

Gli auguri del Papa per il 60^ anniversario del Movimento dei Focolari sono arrivati non solo con un messaggio a Chiara Lubich, letto da S.E. Mons. Stanislaw Rylko, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, al Centro Mariapoli di Castelgandolfo, ma persino con una telefonata del Santo Padre, lo stesso 7 dicembre.

All’inatteso messaggio del Papa, si sono aggiunte le parole di mons. Rylko sul “dono prezioso del carisma”, che, perché dono dello Spirito Santo, suscita continue sorprese. Altri momenti forti dell’incontro in questa ricorrenza: il ricordo di Chiara Lubich di quel 7 dicembre 1943, la testimonianza delle sue prime compagne, il sì per sempre a Dio pronunciato da oltre 100 focolarine dei 5 continenti.

 

In questo 60^ poi si sono poste le premesse per far nascere un Centro di spiritualità e studio a Gerusalemme nel luogo stesso dove la tradizione dice che Gesù ha pronunciato la preghiera dell’unità. Un Centro di particolare significato, che si aggiungerà ai focolari in Terra Santa, a Gerusalemme e ad Haifa, impegnati a portare la pace e l’unità in quella terra travagliata. (altro…)

7 dicembre ’43: l’inizio di un’avventura pensata da un Altro

7 dicembre ’43: l’inizio di un’avventura pensata da un Altro

Il Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici alla conclusione della lettura del messaggio del Santo Padre, accolto con un interminabile applauso, ha sviluppato alcuni pensieri di Giovanni Paolo II, in particolare il perché del suo rendimento di grazie a Dio: “per questo enorme dono che si chiama il carisma”.

Il carisma è da lui definito “la cosa più preziosa che vi è stata affidata mediante la fondatrice del Movimento, Chiara”. Gratitudine “al Signore per quanto ha fatto con voi in questi 60 anni, per le grandi opere di Dio”, accompagnata al senso di responsabilità che il dono comporta: fedeltà, accoglienza radicale “con totale apertura a Dio nel lasciarsi guidare dalla grazia del carisma, col continuo approfondimento di questo dono per farlo fruttare nella vita personale, nella vita della Chiesa e del mondo”. Mons. Rylko ha osservato che “un carisma è completo sin dall’inizio, solo che nemmeno il fondatore ne conosce i dettagli. Se chiedete a Chiara se in quel 7 dicembre ’43 voleva fondare un movimento, risponderebbe: assolutamente no!” Quella data – ha ricordato – “è stata l’inizio di un’avventura tutta pensata da un Altro. E’ lo stesso Spirito Santo che svela via via l’enorme ricchezza che il carisma porta”. Anzi “la garanzia della giovinezza e della permanente freschezza di un carisma – ha precisato – sta proprio nel fatto che sorprende sempre con le cose nuove che svela davanti ai nostri occhi”, perché “quando lo Spirito Santo interviene, stupisce sempre”. E qui mons. Rylko ha sottolineato l’importanza della memoria degli “eventi sorgivi” che hanno dato origine ad un Movimento. In questa “memoria – ha concluso – vi è la forza, la luce per poter camminare, per poter andare avanti nella certezza che il Signore è con noi”. Mons. Rylko ha poi augurato a Chiara Lubich “tanta forza ancora per lunghi anni”. (altro…)

Un centro di spiritualità e studio nel luogo stesso dove la tradizione dice che Gesù ha pronunciato la preghiera dell’unità

Un centro di spiritualità e studio nel luogo stesso dove la tradizione dice che Gesù ha pronunciato la preghiera dell’unità

In questo 60^ poi si sono poste le premesse perché sorga nella parte antica di Gerusalemme, nel segno dell’unità, un centro di spiritualità e di studio dei Focolari, accanto alla scala in pietra dove, secondo la tradizione, il Giovedì Santo, Gesù ha invocato dal Padre l’unità.

Per questa ricorrenza i membri del Movimento nel mondo hanno raccolto un primo contributo per la realizzazione di questo progetto. Il mese scorso era stato firmato un accordo con cui il Patriarcato latino di Gerusalemme concede in uso perpetuo ai Focolari un appezzamento di terreno posto proprio nei pressi di “quella scala”. Si sta così realizzando un sogno di quasi 50 anni fa, quando nel 1956 Chiara Lubich aveva visitato per la prima volta la Terra Santa. Infatti è proprio in quella pagina del Vangelo, letta in un rifugio durante la seconda guerra mondiale, che Chiara e le sue prime compagne avevano scoperto il perché della loro vita. Da 25 anni il Movimento dei Focolari è presente in Terra Santa con alcuni centri a Gerusalemme e ad Haifa, impegnati a portare la pace.   (altro…)

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Domenica 7 dicembre, in un intenso clima spirituale di grande gioia, al termine di una concelebrazione eucaristica semplice e solenne, 102 giovani di tutte le razze, di 29 Paesi dei 5 continenti hanno detto il loro “sì”. Tra loro anche 46 sposate che, secondo il loro stato, hanno pronunciate le promesse di povertà, castità e obbedienza, mentre tutte le 1500 focolarine presenti hanno rinnovato la loro consacrazione.

Altre 63 giovani focolarine, concluso il periodo di formazione, nei giorni prossimi raggiungeranno quanti già operano per l’unità e la pace nei 5 continenti, anche nei punti più caldi del mondo, come Costa d’Avorio, Burundi, Colombia, o in Paesi dove il dialogo tra religioni e culture è più che mai urgente, come in India, Pakistan, Medio Oriente e Stati Uniti. Altri focolarini e focolarine di tutta Europa sono attesi al Centro Mariapoli per i loro incontri, alla fine di dicembre e agli inizi di gennaio.

Toccanti erano state le testimonianze presentate a mons. Rylko: sul dialogo con i buddisti in Giappone; sulla forte esperienza vissuta dalla comunità dei Focolari in Medio Oriente e in Costa d’Avorio: più forte della violenza e del terrore, la forza dell’unità, dell’amore che apre il dialogo anche con i nemici, tanto da far dire ad uno dei ribelli africani che hanno presidiato la cittadella di Man: “La guerra finirà, ma presto o tardi, tornerò qui con la mia famiglia”.

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

“Un inno di riconoscenza a Dio” per l’Opera che ha suscitato da un ‘si’ per sempre

Il 7 dicembre ricorrono sessant’anni dalla nascita a Trento del Movimento dei Focolari. Quel 7 dicembre 1943, Chiara Lubich, allora poco più che ventenne, quando pronuncia il suo sì per sempre a Dio, è sola. Non si poteva immaginare allora la fecondità che ne è scaturita. Ora sono milioni le persone di ogni età, categoria sociale, lingua, razza, e credo che in tutto il mondo, in 182 paesi, sono impegnate a suscitare ovunque brani di fraternità per contribuire a comporre in unità la famiglia umana che oggi più che mai aspira alla pace.

Chiara scrive su ’Vita Trentina’:

Quale il mio stato d’animo? Cosa porto in cuore in questa particolare circostanza? Un’onda di commozione, se solo penso un attimo a ciò a cui mi trovo di fronte: un nuovo popolo nato dal Vangelo, sparso su tutta la terra, un’opera immensa che nessuna forza umana avrebbe potuto far sorgere. E’, infatti, “opera di Dio”, per la quale sono stata scelta per prima come suo strumento sempre “inutile e infedele”.

E un inno di riconoscenza a Dio per quanto, con tutte le mie sorelle e tutti i miei fratelli, ho potuto vedere, sperimentare, costruire, portare fino a questo traguardo col suo aiuto. Un grazie profondo e sentito per ogni cosa, mio Dio!

Grazie anzitutto per avermi fatta nascere nella tua Chiesa, figlia di Dio;

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dicembre 2003

In questo periodo di Avvento, il tempo che ci prepara al Natale, si ripropone la figura di Giovanni il Battista. Era stato mandato da Dio a preparare le strade per la venuta del Messia. A quanti accorrevano da lui, domandava un profondo cambiamento di vita: “Fate opere degne della conversione”. E a chi gli chiedeva: “Cosa dobbiamo fare?” rispondeva:

«Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto»

Perché dare all’altro del mio? Creato da Dio, come me, l’altro è mio fratello, mia sorella; dunque è parte di me. “Non posso ferirti senza farmi del male”, diceva Gandhi. Siamo stati creati in dono l’uno per l’altro, a immagine di Dio che è Amore. Abbiamo iscritto nel nostro sangue la legge divina dell’amore. Gesù, venendo in mezzo a noi, ce lo ha rivelato con chiarezza quando ci ha dato il suo comandamento nuovo: “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi.” E’ la “legge del Cielo”, la vita della Santissima Trinità portata in terra, il cuore del Vangelo. Come in Cielo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vivono nella comunione piena, al punto da essere una cosa sola, così in terra noi siamo noi stessi nella misura in cui viviamo la reciprocità dell’amore. E come il Figlio dice al Padre: “Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie”, così anche tra noi l’amore si attua in pienezza là dove si condividono non solo i beni spirituali, ma anche quelli materiali.

I bisogni di un nostro prossimo sono i bisogni di tutti. A qualcuno manca il lavoro? Manca a me. C’è chi ha la mamma ammalata? L’aiuto come fosse la mia. Altri hanno fame? E’ come se io avessi fame e cerco di procurar loro il cibo come farei per me stesso.
E’ l’esperienza dei primi cristiani di Gerusalemme: “Avevano un cuor solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era tra loro comune.” Comunione dei beni che, pur non obbligatoria, tra loro era tuttavia vissuta intensamente. Non si trattava, come spiegherà l’apostolo Paolo, di mettere in ristrettezze qualcuno per sollevare altri, “ma di fare uguaglianza.”
San Basilio di Cesarea dice: “All’affamato appartiene il pane che metti in serbo; all’uomo nudo il mantello che conservi nei tuoi bauli; agli indigenti il denaro che tieni nascosto.”
E sant’Agostino: “Ciò che è superfluo per i ricchi appartiene ai poveri.”
“Anche i poveri hanno di che aiutarsi gli uni gli altri: uno può prestare le sue gambe allo zoppo, l’altro gli occhi al cieco per guidarlo; un altro ancora può visitare i malati.”

«Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto»

Anche oggi possiamo vivere come i primi cristiani. Il Vangelo non è un’utopia. Lo dimostrano, ad esempio, i nuovi Movimenti ecclesiali che lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa per far rivivere, con freschezza, la radicalità evangelica dei primi cristiani e per rispondere alle grandi sfide della società odierna, dove sono così forti le ingiustizie e le povertà.
Ricordo gli inizi del Movimento dei Focolari, allorché il nuovo carisma ci infondeva in cuore un amore tutto particolare per i poveri. Quando li incontravamo per strada prendevamo nota del loro indirizzo su un bloc notes per poi andare a trovarli e soccorrerli; erano Gesù: “L’avete fatto a me.” Dopo averli visitati nei loro tuguri, li si invitava a pranzo nelle nostre case. Per loro erano la più bella tovaglia, le posate migliori, il cibo più scelto. Al nostro tavolo, nel primo focolare, sedevano a mensa una focolarina e un povero, una focolarina e un povero…
A un dato punto ci sembrò che il Signore chiedesse proprio a noi di diventare povere per servire i poveri e tutti. Allora, in una stanza del primo focolare ognuna mise lì al centro quello che pensava di avere in più: un paletot, un paio di guanti, un cappello, anche una pelliccia… E oggi, per dare ai poveri, abbiamo aziende che danno lavoro e i loro utili da distribuire!
Ma c’è sempre tanto da fare ancora per “i poveri”.

«Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto»

Abbiamo tante ricchezze da mettere in comune, anche se può non sembrare. Abbiamo sensibilità da affinare, conoscenze da apprendere per poter aiutare concretamente, per trovare il modo di vivere la fraternità. Abbiamo affetto nel cuore da dare, cordialità da esternare, gioia da comunicare. Abbiamo tempo da mettere a disposizione, preghiere, ricchezze interiori da mettere in comune a voce o per iscritto; ma abbiamo a volte anche cose, borse, penne, libri, soldi, case, automezzi da mettere a disposizione… Magari accumuliamo tante cose pensando che un giorno potranno esserci utili e intanto c’è lì accanto chi ne ha urgente bisogno.
Come ogni pianta assorbe dal terreno solo l’acqua che le è necessaria, così anche noi cerchiamo di avere solo quello che occorre. E, meglio se ogni tanto ci accorgiamo che manca qualcosa; meglio essere un po’ poveri che un po’ ricchi.
“Se tutti ci accontentassimo del necessario diceva san Basilio, e dessimo il superfluo al bisognoso, non ci sarebbe più né il ricco né il povero.”
Proviamo, iniziamo a vivere così. Certamente Gesù non mancherà di farci arrivare il centuplo; avremo la possibilità di continuare a dare. Alla fine ci dirà che quanto abbiamo dato, a chiunque fosse, l’abbiamo dato a Lui.

Chiara Lubich
 

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Farsi benedizione gli uni per gli altri

Farsi benedizione gli uni per gli altri

Come un grande canto di lode a Dio e con l’anima in festa, si è aperto e si è chiuso il Convegno internazionale del Rinnovamento Carismatico Cattolico, indetto “per interrogarsi sulla sfida della maturità e farsi benedizione gli uni per gli altri”, svoltosi dal 18 settembre presso il Centro Mariapoli a Castel Gandolfo. Sono venuti in più di mille da 72 Paesi di tutto il mondo, per partecipare con il tipico entusiasmo carismatico a questo evento.

Sulla sfida impegnativa della santità per il Rinnovamento Carismatico, alla luce della Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II, “Novo millennio ineunte”, ha parlato il padre Raniero Cantalamessa, che ha guidato il ritiro spirituale. Il predicatore della Casa Pontificia ha pure risposto ad una serie di domande sul rapporto tra fedeltà allo Spirito e istituzione, sottolineando anche il profondo cambiamento che il Rinnovamento Carismatico continua a produrre nella vita di tante persone: Vedo gli stessi effetti in tantissime persone, con un cambiamento radicale che naturalmente suppone poi di essere coltivato attraverso i Sacramenti e il Magistero, per poter arrivare alla perfezione della vita cristiana. Ho visto gente trasformata, abbiamo sentito qui la testimonianza di una coppia: venivano entrambi da una vita disperata, rotta, perduta, e adesso è un matrimonio santo, in cui risplende proprio la santità che ci ha incantato tutti quanti. Le stesse cose nei sacerdoti, negli sposati e non si può negare che questo sia l’opera dello Spirito Santo. Il mio desiderio per tutti noi è che questa grazia sia condivisa da tutti, che la Chiesa non guardi al Rinnovamento Carismatico come un’isola di alcune persone particolarmente prone all’emozionalismo, ma che vedano che questa è la norma della vita cristiana. Gesù ha concepito la sua vita, la vita che ci ha dato sulla Croce, per essere vissuta nello Spirito. “Dodici giorni di benedizioni” era il tema promettente dell’incontro, in un clima di profonda comunione spirituale, ad esprimere quasi palpabilmente che, in Cristo Signore e Salvatore, l’Amore si è fatto carne in mezzo a noi. E’ la benedizione più grande quella che si incarna nella “spiritualità di comunione”, tanto incoraggiata dal Papa e testimoniata anche da Chiara Lubich, ospite del convegno carismatico. Una testimonianza dell’amore che si fa aiuto per i poveri l’ha recata il prof. Andrea Riccardi, della Comunità di Sant’Egidio. da Radiogiornale Radiovaticana, 26 settembre 2003 (altro…)

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Vivere la speranza nella società globale del rischio

Ogni anno le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, organismo dell’associazionismo cattolico italiano, impegnato nel sociale, organizzano un convegno nazionale per approfondire le sfide culturali, economiche e politiche del mondo attuale e preparare una risposta specifica per i cattolici. L’appuntamento di quest’anno: “Vivere la speranza nella società globale del rischio”, ha raccolto ad Orvieto, dal 5 al 7 di questo mese, 400 esponenti del mondo della cultura e della politica internazionale. Il presidente Luigi Bobba ha invitato Chiara Lubich: “Pensando alla speranza, non poteva non venirmi in mente una donna che incarna questa virtù della speranza.” Il video con il suo messaggio registrato ha aperto la sessione dedicata alla sfida multiculturale. “Il paradigma dell’unità – ha detto Chiara tra l’altro – se attuato, appare un’enorme risorsa per la globalizzazione oggi in atto, poiché contiene in sé il germe di ogni forma di integrazione tra i popoli e il metodo per raggiungerla: l’amore scambievole. (…) Ne conseguirà l’esigenza di porre a disposizione di tutti i popoli i beni della creazione quali doni di Dio, e superare così il sottosviluppo di alcuni e l’ipersviluppo di altri: è l’idea della ’comunione’, della fraternità universale in atto.”

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Vivere la speranza nella società globale del rischio

Vivere la speranza nella società globale del rischio

Carissimo Presidente Bobba, carissimi amici delle ACLI,

in questi giorni avete riflettuto sulla globalizzazione e sui suoi rischi, ma in particolare vi siete posti la domanda su quale possa essere lo specifico contributo di noi cristiani in questo tempo, quale sia la speranza che possiamo donare agli altri uomini, nostri fratelli. E’ stato chiesto anche a me di dirvi qualcosa su questo tema e sono qui a portarvi la mia testimonianza. Per poterlo fare, dovrò parlarvi di quel dono dello Spirito che è la “spiritualità dell’unità”, dato per l’oggi a me e poi a tanti altri. Essa è una spiritualità che, ovunque sia messa in pratica, suscita e promuove un nuovo stile di vita, personale e comunitario insieme, e coincide in pratica con la “spiritualità di comunione” proposta dal Santo Padre nella Novo millennio ineunte a tutta la Chiesa perché sia vissuta. Il mondo nel quale viviamo – nonostante le fortissime tensioni a cui tuttora è soggetto – tende all’unità, ad un’unità globale, universale. Nessuno, grazie ai media, è più estraneo all’altro e quindi tutti alla stessa maniera chiedono di essere soggetti della loro storia. I nostri interessi, a Nord e a Sud, sono intrecciati in una interdipendenza che non è più una scelta, ma che, se non governata, rischia solo di aumentare le differenze. Molti problemi interessano ormai l’umanità nel suo insieme, e richiedono quindi categorie di lettura e modelli di risposta globali. Il mondo va innegabilmente verso il villaggio globale. E’ per questo che oggi, in questo contesto, non basta più un cristianesimo individuale fatto di coerenza e ascesi personale: testimonianza questa non più sufficiente. Occorre andare al cuore del messaggio che Gesù ci ha lasciato, al cuore del Vangelo, al comandamento che Gesù dice suo e nuovo: il comandamento dell’amore reciproco (Gv 13,34) che impegna più di una persona. Esso, vissuto da molti, genera la fraternità universale. Categoria questa che, pur non assente dalla mente di qualche spirito forte, è stato il dono essenziale fatto all’umanità da Gesù, che prima di morire ha pregato: “Padre (…) che tutti siano uno” (Gv 17,21), rivelando così, con la paternità di Dio, l’idea dell’umanità come famiglia, l’idea della “famiglia umana”. Noi, membri del Movimento dei Focolari, quando sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale, a Trento, abbiamo letto nel Vangelo questa pagina del testamento di Gesù, abbiamo capito, per la prima volta, non solo che per la realizzazione di essa eravamo nati, ma che dovevamo cominciare da noi ad amarci fino a consumarci in uno e nell’uno ritrovare la distinzione. Altri e altre poi ci hanno seguito e l’amore reciproco creava un circolo virtuoso che ristabiliva la fiducia, riapriva la speranza, ricomponeva legami personali e civili lacerati. E nell’assenza di leggi causata dalla guerra, siamo ripartiti dall’amore: la legge delle leggi, valore supremo, principio e sintesi di tutti i valori. Ricordo ancora – a conferma – un ragionamento che si faceva allora: quando un emigrante si trasferisce in un Paese lontano, s’adatta certamente all’ambiente che trova, ma continua spesso a parlare la sua lingua, a vestire secondo la moda del suo Paese, a costruire edifici simili a quelli della madre patria. Così, quando il Verbo di Dio si è fatto uomo, si è adattato al modo di vivere del mondo, ed è stato bambino e figlio esemplare e uomo e lavoratore; ma ha portato quaggiù il modo di vivere della sua Patria celeste, ed ha voluto che uomini e cose si ricomponessero in un ordine nuovo, secondo la legge del Cielo: l’amore. E, con la grazia di Dio, nonostante la nostra piccolezza, facendo anche noi così, ci siamo accorti che Egli aveva veramente portato in terra il modo di vivere del Cielo. Ma ciò è stato possibile perché, per il carisma che lo Spirito ci aveva dato, abbiamo potuto comprendere quel “come” del comandamento di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi”. Quel “come” era stato espresso compiutamente da Gesù crocifisso che, dopo aver visto i discepoli dileguarsi, dopo essersi privato della Madre, mentre stava perdendo persino la vita, al culmine del suo immenso dolore, si era sentito separato, abbandonato dal Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 24,46). E aveva sofferto tutto ciò per poter riunire il genere umano al Padre, da cui era staccato per il peccato, e per riunire gli uomini fra loro. Gesù, in croce e nel suo abbandono, aveva dato veramente tutto, si era completamente annullato. E tutto ciò per amore nostro. Quella era la misura del suo amore. Misura che dovremmo imparare ad avere anche noi di fronte ai nostri fratelli: “Amatevi (…) come io vi ho amato”: essere cioè completamente vuoti di noi per accogliere i dolori e le gioie degli altri. Questo è l’amore che ci è richiesto da Dio che è amore. L’amore, infatti, non è un attributo di Dio, è il suo stesso Essere, di Lui uno e trino. Il Padre, uscendo del tutto, per così dire, da sé, si fa in certo modo “non essere” per amore, e genera il Figlio; ma è proprio così che è Padre. Il Figlio, a sua volta, quale eco del Padre, torna per amore al Padre, si fa anch’Egli in certo modo “non essere” per amore, e proprio così è, Figlio; lo Spirito Santo, che è il reciproco amore tra il Padre e il Figlio, il loro vincolo d’unità, si fa, anch’Egli in certo modo “non essere” per amore, quel non essere, quel “vuoto d’amore”, in cui Padre e Figlio si incontrano e sono uno: ma proprio così è, Spirito Santo. Sono tre le Persone della Trinità, eppure sono Uno perché l’Amore non è ed è nel medesimo tempo, in un eterno donarsi. E’ questo il dinamismo della vita intratrinitaria, che si manifesta come incondizionato reciproco dono di sé, mutuo annullamento amoroso, totale ed eterna comunione. Analoga realtà è stata impressa da Dio nel rapporto tra gli uomini: lo abbiamo avvertito da quando Dio ci ha donato la sua luce. Ho sentito anch’io stessa, anni addietro, d’essere stata creata in dono a chi mi sta vicino e chi mi sta vicino è stato creato da Dio in dono a me, come il Padre nella Trinità è tutto per il Figlio e il Figlio è tutto per il Padre. E per questo anche il rapporto tra noi può essere lo Spirito Santo, lo stesso rapporto che c’è tra le Persone della Trinità. E’ la vita della Trinità che possiamo imitare, amandoci fra di noi. Allora quella vita non sarà più vissuta soltanto nell’interiorità della singola persona, ma diventerà liberamente vita dell’intera famiglia umana. La nostra esperienza di decenni ci dice che il mettere questa logica a base della vita personale e sociale, porta un notevole rinnovamento nei più vari ambiti del vivere umano. Il Concilio Vaticano infatti insegna che il comandamento nuovo della carità non è soltanto “la legge fondamentale dell’umana perfezione”, ma anche “della trasformazione del mondo” . E ciò si è verificato da noi in parecchi campi: quello politico, economico, culturale, artistico, della medicina, dell’educazione, delle comunicazioni sociali, ecc. E’ sempre stata nostra convinzione che, se il rapporto fra i cristiani è il mutuo amore, il rapporto fra i popoli cristiani non può non essere anch’esso il mutuo amore. Il Vangelo, infatti, chiama ogni popolo ad oltrepassare il proprio confine e a guardare al di là. Anzi spinge ad amare la patria altrui come la propria. I politici che fanno propria la spiritualità dell’unità vivono per questo, e cercano anche di praticare l’apparente paradosso di amare il partito altrui come il proprio, perché sono convinti che il bene del loro Paese ha bisogno dell’opera di tutti. Inoltre, essi intravedono nell’amore reciproco vissuto tra l’eletto, fin da quando è candidato, e i cittadini del proprio territorio, la strada per superare la separazione tra società e politica. E’ in questa reciprocità, infatti, che si può costruire il bene della comunità, perché alla politica vissuta dai governanti come servizio di verità e di amore, deve corrispondere da parte dei cittadini una loro sempre più piena partecipazione alla “cosa pubblica”. Per quanto riguarda l’economia, nel Movimento, sin dall’inizio, l’amore che circola tra i membri, per la legge di comunione che vi è insita, ha portato, direi naturalmente, a rendere comuni i beni dello spirito e i beni materiali. E ciò è sempre stato una testimonianza fattiva e visibile d’un amore unitivo, il vero amore, quello della Trinità. Ma nel 1991 è nato un nuovo progetto: l’Economia di Comunione. Esso intende far sorgere delle aziende affidate a persone competenti in grado di farle funzionare con efficienza e ricavarne degli utili. Questi vanno messi in comune, usati in parte per aiutare i poveri onde dar loro da vivere finché abbiano trovato un posto di lavoro; in parte per sviluppare strutture di formazione per persone animate dall’amore e capaci così di realizzare un’economia che sia comunione; in parte, infine, per incrementare le aziende stesse. Nella visione “trinitaria” dei rapporti interpersonali e sociali, che deriva dalla spiritualità dell’unità e che sta alla base dell’Economia di Comunione, alcuni economisti intravedono una nuova chiave di lettura del fatto e della teoria economici, chiave di lettura che potrebbe arricchire anche la comprensione delle interazioni economiche, e quindi contribuire a superare l’impostazione individualistica oggi ancora prevalente nella scienza economica. Ma la stessa luce può illuminare, come dicevo, tutti gli altri campi del vivere umano: la scuola, l’arte, la sanità, i mass-media… La nostra esperienza ci dice che in un clima d’amore scambievole, si gode di una luce che guida alla verità sempre più piena, dà capacità di novità, e informa un dialogo con tutti, rispettoso della diversità. E tutto questo è destinato a diventare patrimonio della famiglia umana. Il paradigma dell’unità, se attuato, appare un’enorme risorsa per la globalizzazione oggi in atto, perché contiene in sé il germe di ogni forma di integrazione tra i popoli e il metodo per raggiungerla: l’amore scambievole. La conseguenza è il rifiuto di discriminazioni, di guerre, di controversie, di nazionalismi, di rivendicazioni di interessi nazionali. Ne conseguirà l’esigenza di porre a disposizione di tutti i popoli i beni della creazione quali doni di Dio, e superare così il sottosviluppo di alcuni e l’ipersviluppo di altri: è l’idea della “comunione”, della fraternità universale in atto. L’unità immessa nella famiglia umana porta a compimento il disegno di Dio su di essa: essere una cosa sola. In tal modo le diversità di popoli, di razze, di appartenenze, non vengono annullate, ma armonizzate in reciprocità. Che il Signore ci dia, alla luce della sua preghiera per l’unità (Gv 17), di concorrere a realizzare la fraternità dove e come possiamo. Potremo così essere per l’umanità, accanto a tutti gli uomini di buona volontà, quel contributo che solo può generare futuro. (altro…)

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Nuovo slancio al cammino di comunione

L’Assemblea nazionale straordinaria dell’Azione Cattolica Italiana, con 837 delegati, da 214 diocesi, ha rappresentato una svolta verso una maggiore comunione e una rinnovata spinta missionaria, mantenendo sempre il carattere diocesano della sua attività e della sua struttura. Sono queste le linee tratteggiate nel nuovo Statuto, approvato dall’Assemblea. Il Papa, nel suo messaggio, ha sottolineato che “La Chiesa ha bisogno di voi, ha bisogno di laici che nell’Azione Cattolica hanno incontrato una scuola di santità, in cui hanno imparato a vivere la radicalità del Vangelo nella normalità quotidiana”. La presidente nazionale, Paola Bignardi, in un’intervista a “Città Nuova”, ha specificato tra l’altro che il rapporto con i Movimenti e le Comunità ecclesiali necessita di un rinnovamento, in modo che non solo si “viva in pace gli uni con gli altri, ma si sappia trovare la strada per vivere gli uni per gli altri, gli uni con gli altri.” Perciò Paola Bignardi e l’assistente generale, il vescovo Francesco Lambiasi, hanno invitato Chiara Lubich e Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, a dare un saluto all’Assemblea. Chiara, invitata al tavolo della presidenza, ha iniziato: “Conosco l’Azione Cattolica per aver trascorso buona parte della mia giovinezza fra le sue fila. Anni speciali quelli per l’Associazione, che godeva ancora della presenza di Armida Barelli e delle sue compagne. Anni gioiosi per me, per aver partecipato a tanti incontri a Trento, la mia città, e a convegni per la gioventù studentesca, dove ho ricevuto una solida formazione cristiana di base.” Chiara ha poi voluto ripercorrere le tappe della comunione fra Movimenti e Nuove Comunità iniziata a Pentecoste ’98, chiedendosi infine: “Sarà questo il momento per dar inizio a ciò che il santo Padre vuole dall’Azione Cattolica, dal Movimento dei Focolari e dagli altri Movimenti? A nome del Movimento dei Focolari, che rappresento, posso dire che noi siamo a disposizione. Lo Spirito Santo indichi il tempo ed il modo a voi, fratelli e sorelle carissimi.” Le parole di adesione della presidente e l’ applauso dell’assemblea hanno dato subito una risposta positiva. Andrea Riccardi ha poi parlato del “debito che abbiamo verso questo grande laboratorio cristiano che è l’Azione Cattolica”, auspicando una “comunione più profonda, vissuta nella coscienza della missione di oggi.” Salutando gli ospiti, Paola Bignardi ha detto: “Grazie per l’amicizia che ci avete portato in questa nuova stagione di comunione e di dialogo, che non è mortificazione delle differenze, ma anzi arricchimento delle nostre ricchezze.”

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Intervento di Chiara Lubich

Signori Vescovi, Dott.ssa Paola Bignardi, Presidente dell’Azione Cattolica italiana, Eccellenza, mons. Francesco Lambiasi, Assistente generale, Signori e Signore, fratelli e sorelle, ringrazio anzitutto la Presidente e l’Assistente generale dell’invito rivoltomi il 2 luglio scorso a partecipare alla presente loro Assemblea nazionale straordinaria, per un breve intervento, invito che ho accettato con gioia. Sperando di far cosa gradita, vorrei cogliere quest’occasione per dire qualche parola sul rapporto che vi è o vi potrebbe essere fra le realtà ecclesiali (Associazioni, Movimenti, Nuove Comunità) oggi presenti nella Chiesa, secondo la mia esperienza. Dovrò quindi partire da lontano. Conosco l’Azione Cattolica per aver trascorso buona parte della mia giovinezza fra le sue fila. Anni speciali quelli per quest’Associazione, che godeva ancora della presenza di Armida Barelli e delle sue compagne. Anni gioiosi per me, per aver partecipato a tanti incontri a Trento, la mia città, e a convegni per la Gioventù Studentesca, in più parti d’Italia, dove ho ricevuto una solida formazione cristiana di base, di cui sono tuttora grata. Ebbene, è stato proprio in uno di questi convegni che è avvenuto in me – avevo allora 19 anni – qualcosa di nuovo: un primo accenno d’una chiamata tutta particolare da parte di Dio. Ero a Loreto quando, pur seguendo il corso, sono stata fortemente attirata alla “casetta” nella chiesa-fortezza, dove mi recavo ogniqualvolta potevo. Non avevo tempo di rendermi conto se storicamente quello fosse l’ambiente dove era vissuta la Sacra Famiglia. Inginocchiata accanto al muro annerito, qualcosa di nuovo e di divino mi avvolgeva e quasi mi schiacciava. Immaginavo e contemplavo la vita verginale di Maria e di Giuseppe con Gesù in mezzo a loro. Allora non capivo ciò che mi è stato chiaro in seguito: Dio mi chiamava a rivivere, in certo modo, quella vita, assieme ad altre compagne. E, se per le giovani d’allora erano possibili in pratica tre strade: il matrimonio, il convento, la verginità nel mondo, qui si apriva una quarta strada, quella che più tardi è stato il focolare: una piccola comunità di vergini, donne o uomini, che, in mezzo al mondo, per il costante reciproco amore vissuto e sempre rinnovato, hanno Gesù spiritualmente presente fra loro, secondo la sua promessa: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Si svelerà così in quel luogo quello che sarà il primo nucleo organizzativo dell’intero Movimento, il focolare, appunto, ma anche uno dei cardini principali, “Gesù presente in mezzo a noi”, di un nuovo stile di vita cristiana, di una spiritualità comunitaria e personale insieme, la “spiritualità dell’unità”. Spiritualità che si vive da quasi sessant’anni nel Movimento dei Focolari ed in ogni sua parte. “Spiritualità dell’unità” che il santo Padre, nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte, con il nome di “spiritualità di comunione”, propone ora a tutta la Chiesa perché venga vissuta a tutti i livelli. “Spiritualità dell’unità” e “spiritualità di comunione” sono, infatti, praticamente, la stessa cosa, come ha pure scritto il santo Padre ai Vescovi amici del nostro Movimento . Poco a poco, dopo Loreto, per seguire la mia strada e dedicarmi al Movimento nascente, ho dovuto lasciare l’Azione Cattolica, senza mai perdere, però, la certezza che un giorno avrei ripreso contatto: se Dio ci distingueva era senz’altro per un Suo disegno d’amore. E sono passati tanti, tanti anni. Come loro ricorderanno, poi, nella vigilia della Pentecoste 1998, Giovanni Paolo II, pensando maturo il tempo, ha radunato 60 Movimenti ecclesiali e Nuove Comunità in Piazza San Pietro, mettendo in rilievo, nel suo discorso, queste realtà della Chiesa che, con le altre sorte nel passato, rappresentano l’aspetto carismatico di essa, aspetto coessenziale – come ebbe a dire – all’aspetto istituzionale. In quel giorno, io stessa, essendo venuta a conoscenza del desiderio della Chiesa e del Papa che i Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità siano in comunione fra loro, rivolgendo la parola al santo Padre, mi sono detta completamente disponibile a questo scopo. Disponibilità che Egli – come mi ha scritto – ha apprezzato molto. Si è così attuata subito la comunione, dapprima fra alcuni Movimenti, fino ad arrivare ora ad una quindicina e, fra questi, molti dei più importanti. Ci si incontra fra dirigenti due volte all’anno, ora in una sede, ora in un’altra. La comunione fra noi e i nostri Movimenti e Comunità è caratterizzata dalle più varie espressioni della carità: si attua il cosiddetto “scambio dei doni”, dove, pur rimanendo ben saldo e preciso il carisma di ognuno, si può sempre arricchirsi di ciò che i fratelli portano; si prega gli uni per gli altri, si condividono le gioie per le conquiste, i dolori per le prove; si offrono a chi è nella necessità i propri ambienti per convegni, ecc.; si presentano sulla propria stampa gli avvenimenti più significativi degli altri Movimenti, perché siano meglio conosciuti; si collabora in manifestazioni comuni, anche a livello europeo, per raggiungere scopi particolari, ecc. Subito dopo il 1998 ogni anno sono fiorite in tutto il mondo delle “Giornate” (200 finora) sostenute dai membri di diversi Movimenti, presenti i Vescovi del luogo o convocate da loro stessi. In esse, oltre ad assistere alla santa Messa ed ascoltare la voce dei Pastori, si presentano i propri carismi, si donano le proprie esperienze, con tavole rotonde, interviste, testimonianze, contributi artistici, ecc. In seguito, in molte diocesi del mondo, i più vari Movimenti hanno preso l’abitudine di presentarsi uniti, per attuare, ad esempio, programmi previsti dal piano pastorale delle singole chiese. Le “Giornate” e queste varie attività hanno rivelato, in genere, ai singoli Vescovi la grande ricchezza che i Movimenti e le Nuove Comunità portano, e fanno loro intravedere, per essi, la possibilità di rendere la Chiesa più unita, più bella, più viva, più dinamica, più familiare. Durante questi anni si è costatata la partecipazione spontanea alle nostre manifestazioni di persone appartenenti ad altre realtà ecclesiali, come all’Azione Cattolica, ad esempio, spesso perché sollecitate dai Vescovi. In seguito a tutto ciò Famiglie religiose, nate da antichi o meno antichi carismi, costatata la vitalità dei Movimenti ecclesiali e delle Nuove Comunità, hanno desiderato anch’esse conoscerci e iniziare con noi una comunione. Così è stato, ad esempio, con l’intera famiglia francescana ad Assisi, con quella benedettina a Montserrat in Spagna, con la Congregazione di Madre Teresa a Calcutta, con le Piccole sorelle di Gesù a Roma, ed altri. Recentemente ci ha dato grande gioia un documento della “Congregazione per gli Istituti di vita consacrata” intitolato: Ripartire da Cristo. In esso si consigliano i e le religiose, come “un compito dell’oggi delle comunità di vita consacrata”, “di far crescere la spiritualità di comunione prima di tutto al proprio interno” e poi “oltre i suoi confini”, favorendo così la comunione fra i diversi Istituti. Mentre “nei confronti delle nuove forme di vita evangelica (i Movimenti, ad esempio), si domanda dialogo e comunione” , e si parla dei vantaggi della comunione per gli uni e per gli altri. Il documento ammonisce: “Non si può più affrontare il futuro in dispersione” . Tutto quanto ho riferito fin qui ci sembra voglia dire che lo Spirito Santo sta soffiando sulla Chiesa perché si compia, anche attraverso di noi, il grande desiderio del santo Padre: far sì che essa sia “la casa e la scuola della comunione” . Ed ora siamo qui insieme e non possiamo non chiederci: ci può, ci deve essere un rapporto fra l’Associazione di Azione Cattolica italiana, nel suo insieme, ed i Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità? Mi sembra si possa trovare la risposta già nella Novo millennio ineunte al n. 45 dove Giovanni Paolo II scrive: “Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello (…). La comunione deve qui rifulgere nei rapporti tra Vescovi, presbiteri e diaconi, tra Pastori e intero Popolo di Dio” ed aggiunge: “tra associazioni e movimenti ecclesiali”. Nella più recente Esortazione Apostolica, poi, post-sinodale: Ecclesia in Europa, Giovanni Paolo II all’art. 16 sottolinea: “(…) mentre esprimo (con i Padri Sinodali) la mia grande stima per la presenza e l’azione delle diverse associazioni e organizzazioni apostoliche e, in particolare, dell’Azione Cattolica, desidero rilevare il contributo proprio che, in comunione con le altre realtà ecclesiali e mai in via isolata, possono offrire i nuovi Movimenti e le nuove Comunità ecclesiali”. “In comunione con le altre realtà ecclesiali e mai in via isolata”. Sono parole queste che svelano ai nostri Movimenti una precisa volontà di Dio: cercare l’unità anche con le Associazioni ed in particolare con l’Azione Cattolica. E’ un’Esortazione quest’ultima del giugno scorso che mi ha fatto, fra il resto, apprezzare doppiamente l’invito della vostra Presidente e del vostro Assistente a venire oggi fra voi. Sarà questo il momento per dar inizio a ciò che il santo Padre vuole dall’Azione Cattolica, dal Movimento dei Focolari e dagli altri Movimenti? A nome del Movimento dei Focolari, che rappresento, posso dire che noi siamo a disposizione. Lo Spirito Santo indichi il tempo ed il modo a voi, fratelli e sorelle carissimi. Sia Maria Santissima, così presente nell’Azione Cattolica e nel Movimento dei Focolari, chiamato pure “Opera di Maria”, a consigliarci. E’ evidente che tutto non potrà essere che a gloria di Dio ed a vantaggio della Chiesa. Grazie dell’ascolto.

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Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Un popolo nato dal Vangelo, Chiara Lubich e i Focolari

“Ecco le radici di un’opera, che sono tutte in cielo, da cui prende la sua linfa vitale un albero che fiorisce sulla terra”. (Chiara Lubich) Il libro racconta i sessanta anni di storia del Movimento dei Focolari. Dagli inizi sotto i bombardamenti del 1943 a Trento, ai primi passi del dialogo ecumenico, alle avventure, finora sconosciute, nei paesi d’oltrecortina, agli sviluppi in tutti gli ambiti della società, dalla politica all’economia, dall’arte alla comunicazione. Interverranno: Ferruccio De Bortoli, Paola Vismara Chiappa, Roberto Formigoni, Giorgio Rumi Moderatore: Elio Guerrieo

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1° Giornata Mondiale dell’Interdipendenza

Signor Governatore della Pennsylvania, Signor Edward Rendell, Professor Benjamin Barber, Signore e Signori,

è un grande onore poter rivolgermi con questo messaggio ad un pubblico così qualificato che si raduna oggi a Filadelfia per dichiarare l’impegno a costruire un mondo più unito, più giusto, più fraterno. Il desiderio sarebbe stato quello di essere presente di persona. Non essendo stato possibile, permettetemi di offrirvi con questo messaggio una breve e personale riflessione. Quando lo scorso giugno a Roma ho avuto un incontro lungo e caloroso con il professor Benjamin Barber, è stato spontaneo per me aderire con gioia a questa prima Giornata Mondiale dell’Interdipendenza. La realtà dell’interdipendenza, infatti, richiama un ideale a me molto caro, per il quale – assieme a molte persone di buona volontà impegnate nella politica, nell’economia e nei vari campi dell’agire e del sapere – ho deciso di spendere la mia vita: l’unità della famiglia umana. All’indomani dell’11 settembre, molti di noi hanno avvertito l’esigenza di riflettere a fondo sulle cause, ma soprattutto di impegnarsi per un’alternativa vera, responsabile, decisa, al terrore ed alla guerra. È stato, per me, un po’ come rivivere l’esperienza della distruzione e la sensazione dell’umana impotenza, nella città italiana di Trento, bombardata durante la seconda guerra mondiale. Ma è proprio sotto le bombe che io e le mie prime compagne abbiamo scoperto nel Vangelo la luce dell’amore reciproco, che ci ha rese pronte a dare la vita l’una per l’altra. È tra le macerie di quella distruzione, nella convinzione che “tutto vince l’Amore”, che è nato il desiderio forte di rendere partecipi di questo amore tutti i prossimi, senza distinzione di persone, gruppi, popoli, e senza considerazione di condizioni sociali, cultura, convinzioni religiose. Analogamente in molti ci chiediamo oggi, a New York come a Bogotà, a Roma come a Nairobi, a Londra come a Baghdad, se sia possibile vivere in un mondo di popoli liberi, uguali, uniti, non solo rispettosi l’uno dell’identità dell’altro, ma anche solleciti alle rispettive necessità. La risposta è una sola: non solo è possibile, ma è l’essenza del progetto politico dell’umanità. E’ l’unità dei popoli, nel rispetto delle mille identità, il fine stesso della politica, che la violenza terroristica, la guerra, l’ingiusta ripartizione delle risorse nel mondo e le disuguaglianze sociali e culturali sembrano oggi mettere in discussione. Da più punti della terra, oggi, sale il grido di abbandono di milioni di rifugiati, di milioni di affamati, di milioni di sfruttati, di milioni di disoccupati che sono esclusi e come “recisi” dal corpo politico. E’ questa separazione, e non solo gli stenti e le difficoltà economiche, che li rende ancora più poveri, che aumenta, se possibile, la loro disperazione. La politica non avrà raggiunto il suo scopo, non avrà mantenuto fede alla sua vocazione fin a quando non avrà ricostituito questa unità e guarito queste ferite aperte nel corpo politico dell’umanità. Ma come raggiungere questa mèta così impegnativa, che sembrerebbe al di sopra delle nostre forze? Libertà ed uguaglianza, dinanzi alle sfide del presente e del futuro dell’umanità, non sono da sole sufficienti. La nostra esperienza ci insegna che c’è bisogno, crediamo, di un terzo elemento, lungamente dimenticato nel pensiero e nella prassi politica: la fraternità. Senza la fraternità, nessun uomo e nessun popolo sono veramente e fino in fondo liberi ed eguali. Uguaglianza e libertà saranno sempre incomplete e precarie, finché la fraternità non sarà parte integrante dei programmi e dei processi politici in ogni regione del mondo. Cari amici, il nome della città in cui vi trovate – Filadelfia – non evoca, esso stesso, un programma di amore fraterno? E’ la fraternità che può dare oggi contenuti nuovi alla realtà dell’interdipendenza. E’ la fraternità che può far fiorire progetti ed azioni nel complesso tessuto politico, economico, culturale e sociale del nostro mondo. E’ la fraternità che fa uscire dall’isolamento e apre la porta dello sviluppo ai popoli che ne sono ancora esclusi. E’ la fraternità che indica come risolvere pacificamente i dissidi e che relega la guerra ai libri di storia. E’ per la fraternità vissuta che si può sognare e persino sperare in una qualche comunione dei beni fra Paesi ricchi e poveri, dato che lo scandaloso squilibrio, oggi esistente nel mondo, è una delle cause principali del terrorismo. Il profondo bisogno di pace che l’umanità oggi esprime, dice che la fraternità non è solo un valore, non è solo un metodo, ma un paradigma globale di sviluppo politico. Ecco perché un mondo sempre più interdipendente ha bisogno di politici, di imprenditori, di intellettuali e di artisti che pongano la fraternità – strumento di unità – al centro del loro agire e del loro pensare. Era il sogno di Martin Luther King che la fraternità diventi l’ordine del giorno di un uomo d’affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo. Cari amici, come cambierebbero, i rapporti tra i singoli, i gruppi ed i popoli, se solo fossimo coscienti che siamo tutti figli di un solo Padre, Dio, che è Amore e che ama ciascuno personalmente ed immensamente e si prende cura di tutti! Questo amore, coniugato nelle sue infinite forme, anche politiche ed economiche, porterebbe a superare angusti nazionalismi e visioni parziali, aprendo menti e cuori dei popoli e dei loro governanti, spingendo tutti – come ho affermato in un mio intervento alle Nazioni Unite a New York nel 1997 – ad amare la patria altrui come la propria. Questa è l’esperienza ormai pluridecennale del Movimento dei Focolari, presente in 182 Paesi del mondo, ed al quale aderiscono milioni e milioni di persone di ogni latitudine. Auguro così a questa prima Giornata Mondiale dell’Interdipendenza di essere l’occasione, per quanti vi hanno aderito, di un nuovo impegno a vivere ed a lavorare assieme, con dedizione e con fiducia, e sostenendosi sempre l’un l’altro, per l’unità della famiglia umana universale.   (altro…)

Cittadini del mondo per costruire il futuro

Cittadini del mondo per costruire il futuro

“We the people of the world…” “Noi, popolo del mondo, dichiariamo la nostra interdipendenza come individui e membri di comunità e nazioni distinte. Ci impegneremo ad essere cittadini di una unica città-mondo…”

A Filadelfia, i padri fondatori degli Stati Uniti nel 1776 avevano firmato la dichiarazione di Indipendenza. Separandosi e distinguendosi dal Vecchio Mondo, l’America trovava così la sua libertà e la sua autonomia. Oltre due secoli dopo, all’indomani dell’11 settembre 2001, gli americani si sono riscoperti fragili. Al terrore, in Afghanistan come in Iraq, si è risposto con la forza delle armi, seminando altro terrore. A due anni di distanza e dopo due guerre dichiarate in nome della lotta al terrorismo l’America ed il mondo oggi si sentono ancora più insicuri. Assume un significato altamente simbolico l’avvenimento celebratosi a Filadelfia il 12 settembre 2003: di fronte al palazzo dove è stata firmata la Dichiarazione di Indipendenza, a 227 anni di distanza, si è voluta firmare la Dichiarazione di Interdipendenza. Un’iniziativa condivisa dai molti che in America professano il loro credo nel multilateralismo, nel dialogo tra le culture, nella necessità di una cittadinanza globale. Su iniziativa del professor Benjamin Barber, politologo e docente all’Università del Maryland, già consigliere politico del Presidente Clinton, politici, accademici, artisti, semplici cittadini, hanno voluto dichiarare di essere ”cittadini del mondo” che sentono sulla propria pelle la responsabilità di costruire un futuro sostenibile per la famiglia umana. Alla interdipendenza negativa sperimentata col terrorismo internazionale e le epidemie come la SARS e l’AIDS, va promossa una interdipendenza positiva di cittadini globali che si fanno promotori del bene comune. “Alla guerra preventiva – spiega Barber – dobbiamo opporre una democrazia preventiva”. Duecento e più anni fa, l’America aveva trovato la sua libertà separandosi dal Vecchio Mondo: Vecchio Mondo. “Oggi invece – ha aggiunto – può trovarla solo lavorando per la libertà di tutti”. E’ l’esigenza insomma di passare dalla indipendenza all’interdipendenza, promuovendo un movimento dal basso che trasformi i singoli individui in cittadini del mondo in relazione. Il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, l’ex-presidente della Repubblica Ceca Vaclav Havel, la fondatrice del Movimento dei Focolari, Chiara Lubich, e il Sindaco di Roma, Walter Veltroni, hanno inviato messaggi di adesione. “Dobbiamo porci – ha sottolineato la fondatrice dei Focolari nel messaggio letto a Filadelfia durante la cerimonia – come orizzonte dell’interdipendenza la fraternità: è la fraternità che può dare oggi contenuti nuovi alla realtà dell’interdipendenza. A Filadelfia si è vissuta così una giornata altamente simbolica che ha mostrato la volontà e l’impegno di tanti per il bene comune e la fraternità della famiglia umana. In contemporanea si celebrava l’Interdependence Day in varie altre località degli Stati Uniti, come l’Università del Maryland, il College Park, la Roosevelt University di Chicago e il Suny – Stonybrook in New York, nonché a Budapest, dove Ivan Vitanyi, membro del Parlamento, è stato affiancato da Arpad Goencz, primo presidente dell’Ungheria dopo il regime socialista, per una tavola rotonda dedicata all’Interdipendenza. Per il 2004 è previsto l’ Interdependence Day a Roma, Calcutta, Johannesburg, Pechino e molte altre metropoli. (altro…)

Silenzi d’amore

In ospedale dovevo fare guardie notturne con un altro medico che si diceva cristiano, ma non era praticante e spesso, vedendomi partecipare alla Messa quasi ogni giorno, mi prendeva in giro.

Dovevamo rimanere a disposizione tutta la notte, ma lui mi lasciava da solo già a fine pomeriggio e questo per me voleva dire tanto lavoro in più. Non era giusto, ma “Beati i poveri in spirito …” e ho cercato di mantenere nei suoi confronti un atteggiamento aperto, senza giudizio, un mese, due. Un giorno mi dice che desidera venire alla Messa con me perché “in questi mesi, dal tuo modo di amare in silenzio, ho imparato tante cose”. Da quel giorno non solo non ha più lasciato l’ospedale anzitempo, ma ha cominciato a prendersi cura di me perché durante la notte non mi stancassi troppo. In un altro momento ho condiviso la stanza d’ospedale con un medico di religione islamica. Più volte mi ha fatto notare che il nostro modo di vivere la quaresima è molto più blando del loro Ramadan. Nel frattempo ho saputo che sua madre era morta da un anno e che non aveva più nessuno che si curasse dei vestiti e delle sue cose personali. Avevo notato infatti che il suo camice era spesso sporco e mancante di qualche bottone. Una notte decido di lavargli il camice, stiraglielo e cucire i bottoni mancanti. La mattina seguente stenta, logicamente, a riconoscere il suo camice e chiede chi lo aveva sistemato. Quando ha saputo, è venuto ad abbracciarmi dicendo: “Ora capisco. Amando in silenzio hai dato un senso molto più profondo al ’mortificarsi’ di quanto io avrei potuto immaginare”. (altro…)

Quella fedeltà del presente che cambia la vita

Si può osservare che uno dei risultati del vivere la volontà di Dio nell’attimo presente, se fedele ed abbastanza intenso, è quello di prendere ottime abitudini che prima non avevamo. Ecco alcuni esempi. È molto frequente offrire a Gesù le azioni che compiamo con un “per te”, che trasforma la nostra giornata in un’ininterrotta preghiera; perché vivendo l’attimo presente noi abbiamo una grazia attuale che ci ricorda di dire davanti ad ogni azione: “per te”. Un’altra cosa: di fronte alle tentazioni – vivendo così – ci si sente atti a difenderci con più rapidità di prima. Di fronte agli attaccamenti a cose o persone o a noi stessi, è pronta la nostra tipica dichiarazione d’amore: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene”. Si dà poi il giusto posto alle azioni che dobbiamo compiere, senza anticiparle perché piacevoli, e senza posticiparle perché gravose; perché succede spesso così. Ancora: sgorgano spontanee dal cuore parole d’incoraggiamento, di stima, di lode, verso i fratelli con cui viviamo o, in qualsiasi modo, incontriamo, attraverso il telefono, ad esempio, scrivendo loro, e così via. E sempre più spesso si vede in loro Gesù, sicché, crescendo la nostra carità, facendosi via via più raffinata, anche la nostra unione con Dio s’approfondisce. Un’altra cosa: non si dimentica di salutare e adorare Gesù, vivo nel tabernacolo, ogniqualvolta gli passiamo accanto o ce lo ricorda una croce o un’immagine. Allo stesso modo si fanno atti di venerazione a Maria, specie ora dopo l’indimenticabile anno a lei consacrato. Un’altra cosa che si può osservare: si rimane di più alla presenza di Dio durante le nostre pratiche di pietà e si allontanano con più facilità le distrazioni. Ancora: ci si accorge che si riesce a mantenere con maggiore facilità, durante tutto il giorno, l’amore reciproco che, per noi cristiani, è importantissimo. Dice, infatti, la Scrittura che la sua attuazione – quella del comandamento nuovo – ci fa perfetti: “Se ci amiamo gli uni gli altri – dice Giovanni –, Dio rimane in noi e l’amore di lui in noi è perfetto” (cf 1 Gv 4,12). Prima – dobbiamo convenire –, pur con tanta buona volontà, la carità reciproca aveva delle oscillazioni, certamente con continue riprese, ma con interruzioni. Un’altra: divenuti più perfetti nelle piccole cose, sappiamo compiere meglio anche le grandi, e l’anima tutto il giorno è invasa di serenità, di pace e di gioia. Queste, alcune abitudini acquistate che alimentano diverse virtù nella nostra anima. Ed è proprio una bella accolta di virtù che fa del viaggio della vita un “santo viaggio”, un viaggio verso la santità. Alla chiesa, per promuovere un cristiano a modello degli altri, per dichiararlo beato e santo, non interessano tanto certi fenomeni pur mistici come le visioni, le locuzioni, i rapimenti, le bilocazioni…, ma interessano le virtù. Ora, se tutto questo, e più, possiamo costatare in noi vivendo con costanza l’attimo presente, dobbiamo concludere che siamo sulla buona strada. Ringraziamo perciò il Padre, che guida, con la storia grande del mondo, la nostra piccola storia.

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Commento di Chiara Lubich alla Parola di Vita di novembre 2003

Gesù ha da poco iniziato la vita pubblica: invita alla conversione, annuncia che il regno di Dio è vicino, cura ogni sorta di malattia e di infermità. Le folle cominciano a seguirlo. Sale allora su una montagna e rivolgendosi a quanti lo circondano enuncia il suo programma di vita: è quello che chiamiamo “il discorso della montagna”.
La novità dell’annuncio di Gesù appare già dalle prime parole del suo discorso, quando proclama beato non chi è ricco, potente, influente, ma chi è povero, umile, piccolo, puro di cuore, chi piange ed è oppresso. È lo sconvolgimento del comune modo di pensare, specialmente nella nostra società che spesso esalta il consumismo, l’edonismo, il prestigio… È la “buona novella” portata da Gesù, che dà gioia e speranza agli ultimi, che infonde fiducia nell’amore di Dio che si fa vicino a chi è nella prova e nel dolore. Questo annuncio di gioia e di salvezza è già tutto sintetizzato nella prima delle otto beatitudini che assicura il regno dei cieli ai poveri in spirito:

«Beati i poveri in spirito…»

Ma cosa significa essere “poveri in spirito”? Significa essere staccati dai beni e dalle cose che possediamo, dalle creature, da noi stessi… In una parola vuol dire posporre nel nostro cuore tutto quanto ci impedisce di aprirci a Dio facendo la sua volontà e al nostro prossimo col farci uno con lui per amarlo come si deve, disposti anche a lasciare tutto: padre, madre, “campi” e patria, se questo Dio ci chiede.
Essere “poveri in spirito” significa porre la nostra fiducia non nelle ricchezze, ma nell’amore di Dio e nella sua provvidenza. Spesso siamo “ricchi” di preoccupazioni per la salute, di trepidazioni per i nostri parenti, di apprensione per un certo lavoro, di incertezze sul come comportarci, di paure per il futuro… Tutto ciò può bloccare la nostra anima e chiuderla su se stessa, impedendole di aprirsi a Dio e ai fratelli. Ebbene, proprio in questi momenti di sospensione il “povero in spirito” crede all’amore di Dio, e getta in Lui ogni preoccupazione, sperimentando il suo amore di Padre.

Si è “poveri in spirito” quando ci si lascia guidare dall’amore verso gli altri. Allora condividiamo e mettiamo a disposizione di quanti sono nel bisogno quello che abbiamo: un sorriso, il nostro tempo, i nostri beni, le nostre capacità. Avendo tutto donato, per amore, si è poveri, ossia si è vuoti, nulla, liberi, col cuore puro.
Questa povertà, frutto dell’amore, diventa a sua volta sorgente d’amore: essendo vuoti di noi stessi, e quindi liberi, siamo in grado di accogliere pienamente, senza alcuna riserva, la volontà di Dio e di accogliere ogni sorella e fratello che ci passano accanto.
A quanti vivono questa purezza di cuore e questa povertà di spirito, Gesù assicura il possesso del regno dei cieli: sono beati,

«… perché di essi è il regno dei cieli»

Il regno dei cieli non lo si compra con la ricchezza e non lo si conquista con il potere. Lo si riceve in dono. Per questo Gesù domanda di essere come bambini o come i poveri che, come i bambini, hanno bisogno di ricevere tutto dagli altri. E lo Spirito Santo, attratto da quel vuoto d’amore, potrà riempire la nostra anima perché non trova ostacoli che ne impediscono la piena comunione.
Il “povero di spirito”, perché nulla si è tenuto, ha tutto; è povero di se stesso e ricco di Dio. Anche qui vale la parola evangelica: “date e vi sarà dato”: diamo quanto abbiamo e ci viene dato nientemeno che il Regno dei cieli.
È l’esperienza di una mamma dell’Argentina che racconta:
“Mia suocera è molto affezionata a suo figlio, mio marito, fino ad esserne gelosa; atteggiamento che ha sempre creato difficoltà tra di noi e che mi ha indurito il cuore nei suoi confronti. Un anno fa le viene diagnosticato un tumore: necessita di cure ed assistenza che la sua unica figlia non è in grado di darle. Le parole del Vangelo, che da qualche tempo cerco di vivere, mi hanno cambiato il cuore: sto imparando ad amare. Superando ogni timore, accolgo mia suocera a casa nostra. Inizio a vederla con occhi nuovi e ad amarla: è Gesù che curo e assisto in lei.
Lei, non indifferente all’amore, con mia grande sorpresa ricambia ogni mio gesto con altrettanto amore. La grazia di Dio opera il miracolo della reciprocità!
Trascorrono mesi di sacrifici che non mi pesano e, quando mia suocera ci lascia serena per il Cielo, resta la pace in tutti. In quei giorni mi accorgo di essere in attesa di un bambino, che da 9 anni desideriamo! Questo figlio è per noi il segno tangibile dell’amore di Dio che ci ricolma.”

Chiara Lubich

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Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

La rivoluzione del Vangelo

Nella classe di P. (Gran Bretagna) ci sono due compagni che gli fanno sempre i dispetti. “Ho provato a non rispondere – dice a C., il suo amico più grande – ma loro continuano!”. “Chiediamo a Gesù che ti dia la forza di amarli ancora di più” – suggerisce C. Un giorno P. porta a scuola un grande vassoio di dolci per festeggiare il suo compleanno. La maestra gli propone di andare ad offrirli anche ai bambini delle altre classi: “Scegli due compagni che vengano con te!” gli dice. P. vorrebbe chiamare i suoi amichetti preferiti, ma poi…“ama il nemico”. “Possono venire T. e L.?” chiede alla maestra. Proprio i due compagni che gli fanno sempre i dispetti! P. racconta tutto a C.: “Hai visto? Gesù mi ha dato la forza, e… sai? Ora non mi fanno più i dispetti!”.

F. d. M. del Guatemala: “L’altro giorno papà e mamma hanno litigato. Ero triste. ’Come vorrei che fossero felici – ho pensato – cosa posso fare?’. Sono andata dai miei fratellini. Abbiamo preso una carta, abbiamo ritagliato dei cuori e dei fiori e li abbiamo attaccati sul muro. Papà e mamma stavano guardando la TV in silenzio. L’abbiamo spenta un momento e io ho cantato loro una canzone sull’amore fra noi. Papà e mamma si sono commossi e si sono chiesti scusa. Mamma piangeva dalla gioia. Ero felice. Tutti sono andati a letto contenti. Io ho detto a Gesù: ’Grazie’ ”.  

E. di Trento, riceve tanti soldi dai nonni per i dentini che le sono caduti. Felice li vuole dare per i poveri che in tutto il movimento stiamo aiutando. “Tienine almeno una parte per comprarti le scarpe; ne hai bisogno!” le consiglia il papà. Non hanno infatti tante possibilità economiche. “Ma papà – risponde E. – i bambini poveri le scarpe non ce le hanno!” e lo convince. Poco dopo le arriva dagli zii un regalo: sono proprio le scarpe di cui aveva bisogno!

E. di 5 anni. E’ di San Paolo, la più grande città del Brasile. Il signor C. l’accompagna ogni giorno a scuola. Lui non crede in Dio e tanti dicono che è un tipo scontroso. Una mattina, mentre sono in auto, E. gli domanda: “Tu sai cos’è un atto d’amore?”. “No – risponde lui – cosa significa?”. “Significa vedere Gesù in tutti e fare a ciascuno quello che faresti a Gesù”. Il signor C. rimane serio e pensieroso. Alcuni giorni dopo, a tavola, il papà racconta che da qualche giorno il signor C. è diverso, che non si arrabbia più così tanto. “A chi gli ha chiesto, scherzando, cosa gli fosse successo – continua il papà – sapete cosa ha risposto? “Chiedetelo alla piccola E. Alle volte impariamo tante cose dai bambini!”. (altro…)

Fare di ogni ostacolo una pedana di lancio

Fare di ogni ostacolo una pedana di lancio

“Carissimi giovani, non lasciatevi fermare dalle difficoltà che senz’altro ci sono e che sempre ci saranno, ma fate dell’ostacolo stesso una pedana di lancio per un amore più grande, più profondo, più vero!” E’ questo il cuore del messaggio che Chiara Lubich ha lanciato a migliaia di giovani di 105 città di tutti i continenti in collegamento telefonico, domenica 12 ottobre, a conclusione della Settimana Mondo Unito, giunta ormai alla VII edizione.

Si sono poi susseguiti interventi di giovani provati da guerre, discriminazioni, povertà, ingiustizie: da Gerusalemme, Iraq, New York, Costa d’Avorio, Cebu, Uganda, Repubblica centroafricana, Recife ecc. Le loro esperienze hanno vinto il profondo senso di impotenza che a volte impera, soprattutto tra i giovani europei di fronte ai mali del mondo, facendo capire chiaramente che l’amore è più forte di tutto e che insieme, si può sollevare il mondo. Sono intervenuti anche giovani burundesi ospiti di un campo profughi in Tanzania. Collegata per la prima volta anche Medan, in Indonesia, presenti più di 50 giovani cristiani, buddisti e mussulmani, tutti accomunati dallo stesso ideale: il mondo unito! “Se continuate con slancio rinnovato a portare l’amore di Dio nel mondo (…) allora sì che siete liberi da voi stessi! Allora sì che andate contro corrente, anzi create una corrente nuovissima, sul nostro pianeta, d’amore, di fuoco. Questa la consegna che Chiara ha dato ai giovani.

Che cos’è la Settimana Mondo Unito: una proposta ai giovani, alle istituzioni nazionali e internazionali, pubbliche e private, per valorizzare le iniziative che promuovono l’unità ad ogni livello. Durante una settimana, dal 5 al 12 ottobre, si erano susseguiti appuntamenti diversi, in città grandi e piccole, con iniziative di solidarietà, concerti ed eventi sportivi, veglie, dibattiti, aventi come tema principale la fraternità come via al mondo unito. Moltissime le interviste a TV, nazionali e locali, radio e giornali, per diffondere il messaggio della SMU.

Le iniziative nel mondo A Rosario, in Argentinala SMU è stata dichiarata di interesse municipale e il comune si è impegnato a pubblicizzarla, anche nei mesi seguenti, sui biglietti dei tram e bus della città.

Nello Stato di Sao Paulo, Brasile, sono state distribuite 70.000 “agendine”, che proponevano per ogni giorno della SMU un motto da mettere in pratica per costruire la pace e che ha trovato una eco impensata dagli studenti di numerose scuole, ai professori, ai rappresentanti delle istituzioni.

La Nuova Caledonia è stata tappezzata da attività dei giovani che coinvolgevano tutte le etnie solitamente in lotta fra di loro. A Kampala, Uganda i giovani hanno visitato bambini ammalati di AIDS in un orfanotrofio della capitale e si sono impegnati in una raccolta di vestiario e generi di prima necessità per la comunità di Gulu, nel nord del Paese, afflitta da grande necessità per la situazione di guerriglia. In Sicilia, Italia: fitto calendario di impegni ed attività. Il quotidiano italiano “Avvenire” ha pubblicato il seguente comunicato stampa, che riportiamo: “Nel segno della fraternità» è il titolo dell’iniziativa che vede i Giovani per un Mondo Unito, espressione giovanile del Movimento dei Focolari, impegnati in iniziative all’insegna della fraternità e della pace nei 5 continenti. Da ieri e fino al 12 ottobre, centinaia di Giovani per un Mondo Unito della Sicilia sono stati protagonisti di ben 16 attività nelle città e province di Palermo, Caltanissetta, Messina, Catania, Siracusa, Ragusa. Il ricavato delle varie iniziative va a finanziare delle borse di studio per giovani di alcune nazioni del Medio Oriente e dell’Argentina e contribuire alla realizzazione del Progetto Africa, lanciato da Chiara Lubich nel 2000 e che prevede, quest’anno, l’avviamento di piccole attività lavorative ed educative in un campo di 60.000 rifugiati dei Grandi Laghi, in Tanzania, e la costituzione di un fondo per borse di studio per giovani del Congo che non hanno i mezzi per proseguire con gli studi universitari. Nasce una nuova speranza Ben esprime quanto ha suscitato la Settimana Mondo Unito in moltissimi giovani, l’impressione a caldo di un giovane ugandese: “A volte, quando sembra che l’amore, la fraternità e Dio in noi si spengano, appaiono dei segni come questi che ti fanno venire la voglia di continuare nell’intento.” (altro…)

Madre Teresa di Calcutta, “maestra eccelsa nell’arte di amare”

Madre Teresa di Calcutta, “maestra eccelsa nell’arte di amare”

Di Madre Teresa, m’è rimasto impresso il calorosissimo abbraccio finale che ci siamo date a New York, l’ultima volta che l’ho incontrata, nel maggio del 1997. Era ammalata, a letto. Ero andata con l’intenzione di trattenermi qualche momento. Poi cominciò a parlare, a parlare della sua opera. Era il suo canto del Magnificat, una cosa meravigliosa! Era felicissima. Quell’abbraccio è rimasto per me come un segno, una promessa: che avrebbe continuato ad amarci con predilezione, perché così ci amava quando era in vita. Ed è perciò che sin dal momento della sua partenza, l’avevo annoverata tra i nostri protettori, certa sin da allora, come tutti, che sarebbe stata presto proclamata santa.

Madre Teresa ha realizzato in pienezza quello che il Papa definisce “genio femminile’ che sta proprio in ciò che Maria aveva di caratteristico: non era investita da un ministero, ma era investita dall’amore, dalla carità che è il più grande dono, il più grande carisma che viene dal cielo. Per noi è un modello. E’ infatti una maestra eccelsa nell’arte di amare. Amava veramente tutti. Non chiedeva al suo prossimo se era cattolico o indù o musulmano. A lei bastava che fosse uomo o donna, in cui riscopriva tutta la sua dignità. Madre Teresa amava per prima: era lei che andava a cercare i più poveri per i quali era stata inviata da Dio. Madre Teresa vedeva, come forse nessun altro, Gesù in ognuno: ‘L’hai fatto a me” era appunto il suo motto. Madre Teresa “si faceva uno” con tutti. S’è fatta povera con i poveri, ma soprattutto “come” i poveri. E’ qui che si differenzia dalla semplice assistente sociale o da chi è dedito al volontariato. Non accettava nulla che non potessero avere anche i poveri. E’ nota, ad esempio, la sua rinuncia e quella delle sue suore ad una semplice lavatrice, rinuncia che molti non comprendono – dicono: in questi tempi! -, ma lei faceva così perché i poveri non ce l’hanno e quindi nemmeno lei. S’è addossata, ha fatto propria la miseria dei poveri, le loro pene, le loro malattie, le loro morti. Madre Teresa ha amato tutti come se stessa, sino ad offrire loro il proprio ideale. Invitava, ad esempio, i volontari che prestavano per un certo tempo servizio alla sua Opera, a cercare la propria Calcutta là dove ognuno tornava. “Perché i poveri – diceva – sono un po’ dovunque”. Madre Teresa ha senz’altro amato i nemici. Non s’è mai fermata a contestare le accuse assurde che le si rivolgevano, ma pregava per i nemici. Dopo la sua partenza, l’ho conosciuta ancor più profondamente e con “avidità” ho letto libri su di lei. Ho ammirato M. Teresa in modo specialissimo per la sua determinazione. Aveva un ideale: i più poveri fra i poveri. E vi è rimasta fedele. Tutta la vita ha puntato su quest’unico obiettivo. Anche in questo è per me un modello di fedeltà all’ideale che Dio mi ha affidato. (altro…)

Il grazie al Papa artefice della Chiesa del futuro: la Chiesa-comunione

Il grazie al Papa artefice della Chiesa del futuro: la Chiesa-comunione

D. Tra i vari aspetti profetici del pontificato di Giovanni Paolo II si può annoverare senz’altro quella pagina nuova aperta la vigilia della Pentecoste ’98, a quel primo storico incontro con centinaia di migliaia di aderenti ai Movimenti e nuove comunità ecclesiali. Li aveva pubblicamente riconosciuti come “significative espressioni carismatiche della Chiesa” ed aveva riaffermato la “coessenzialità” tra la dimensione petrina-istituzionale e quella mariana-carismatica. Quali prospettive si aprono sul futuro da questa visione della Chiesa del Papa?

Da quel giorno il Papa ha acceso in noi un sogno: il sogno della chiesa del Terzo Millennio: la Chiesa-comunione. In questo tempo di riscoperta dei carismi non in contrapposizione, ma in profonda comunione con il Papa e i vescovi, mi si è aperta la speranza che verrà in rilievo soprattutto l’opera dello Spirito Santo, attirando il mondo a Gesù. Da quel giorno, proprio per rispondere al desiderio di comunione tra i Movimenti espresso dal Papa, avevo assunto l’impegno di dare inizio ad un cammino di comunione tra di noi, movimenti e nuove comunità. Non potevo certo immaginare gli sviluppi a cui assistiamo oggi: Pentecoste ’98 si è ripetuto da allora in innumerevoli diocesi, nei 5 continenti, con la presenza dei vescovi, con il coinvolgimento di centinaia di movimenti e comunità. Con frutti di nuova vitalità e speranza. L’eco di questo cammino è giunto anche ai movimenti e comunità sorti in questi ultimi decenni anche in altre Chiese, come nelle Chiese evangeliche in Germania. Un fenomeno questo prima d’ora a noi ignoto. Di qui è nata, a partire dal 1999, una fraternità tale che ha fatto nascere l’idea di darvi visibilità, ad esempio attraverso un grande incontro, l’8 maggio del 2004, a Stoccarda. Con esso cercheremo anche noi di portare, coi nostri carismi, un contributo all’ “Europa dello spirito”. D. Quale la sua esperienza diretta nel rapporto con il Papa? R. – Questo rapporto è diventato con gli anni sempre più profondo. Anzi ho vissuto un paio di volte un’esperienza un po’ particolare. Dopo un’udienza, ad esempio, in cui ho sperimentato un momento di grande unità col Papa, da figlia a Padre, ho avuto l’impressione che il cielo si aprisse ed ho sentito un’unione con Dio speciale. Ciò che la caratterizzava era il fatto che non avvertivo intermediari. Il Papa è “mediatore”, ma quando il mediatore ha contribuito ad unirti con Dio, scompare. M’è parso di capire che ciò dipende anche dal fatto che il Papa ha ricevuto le chiavi per aprirci il cielo: “A te consegnerò le chiavi del Regno dei cieli”… Forse queste chiavi non gli servono soltanto per cancellare i peccati, ma anche per aprirti ad un’unione più profonda con Dio. Sarà questo il segreto dei capovolgimenti d’anima e di storia da lui operati in questi 25 anni? Egli comunica Dio e Lui fa “nuove tutte le cose”. Una “Presenza” che si fa sempre più forte, più passa attraverso il carico di sofferenza. D. Ricorda qualche episodio particolare negli incontri con il Papa, in questi 25 anni? R. Mi si affollano alla mente molti momenti che hanno segnato altrettante pietre miliari nella nostra storia e non solo. Come quel giorno, era il 23 settembre 1985 – è un fatto ormai noto – sulla porta, al termine di un’udienza, guardando al futuro, ho ardito chiedere al Papa: “Ritiene possibile che il presidente del Movimento dei Focolari, di quest’Opera, che è di Maria, sia sempre una donna?”. “Sì – aveva risposto – magari!”. Ed è stato dalle sue parole, che motivavano quel “sì”, che mi si è aperta, per la prima volta, quella nuova coscienza della Chiesa nelle sue due dimensioni: quella petrina-istituzionale e quella mariana-carismatica. “Si ritrovano nella Chiesa nascente – aveva affermato, citando il teologo Hans Urs von Balthasar – e devono rimanere!”. Ed è stata questa la grande novità che il Papa negli anni seguenti ha più volte richiamato. Ciò che sorprende è che il Santo Padre non vede il “profilo mariano” della Chiesa soltanto come realtà spirituale o mistica, ma anche come realtà storica e lo testimonia con i fatti, spalancando le porte alle novità dello Spirito. D. Ci racconti un altro fatto. R. Con gli anni sono nate, anche in giovani, famiglie, persone delle più varie categorie, anglicani, luterani, ortodossi e di altre Chiese, le stesse vocazioni fiorite nell’Opera di Maria tra i cattolici. Una novità per anni sotto studio da parte di molti canonisti. Ma sembrava non si trovasse una via di uscita. Ad un certo punto ne ho parlato con il Papa. Si è dimostrato apertissimo! Alla seconda udienza sull’argomento, anche quella volta, in piedi, mi dice con la sua consueta arguzia: “Ho capito. Devo dire: lasciate stare l’Opera di Maria che è di Maria!”. E la situazione si è sbloccata. Ricordo che di notte all’improvviso m’è passato un pensiero: “Se c’è un punto che è ancora di ostacolo nel cammino ecumenico, è proprio il ministero del Papa. Ma chi li ha ’accolti’ questi focolarini delle altre Chiese? Proprio il Papa”. Questo resterà nella storia. Il Santo Padre è andato poi ancora oltre: è stato per suo suggerimento che ora anche vescovi di altre Chiese si incontrano regolarmente, ormai da anni, per alimentare il loro ministero con la spiritualità dell’unità già condivisa da molti vescovi cattolici, di cui ha approvato il legame, non giuridico, ma spirituale con quest’Opera di Maria. (da Città Nuova, n.19 – 10 ottobre 2003) (altro…)

Nei 5 continenti 157 congressi mariani: Maria riscoperta modello di vita

Nei 5 continenti 157 congressi mariani: Maria riscoperta modello di vita

“In questo mondo colpito da terrorismo, guerre, vendette, il congresso mariano ci annuncia l’alba di un mondo di speranza, pace, amore e santità”, un’impressione a caldo da Taiwan. E un giovane austriaco: “Tutto è stato di una freschezza incredibile. Niente di antiquato. Vedere Maria così è la cosa più geniale del mondo!”. “Ho scoperto che il rosario è veramente una preghiera di pace. E’ un antidoto alla guerra! ”, scrivono dalle Filippine. Dall’Argentina: “Oggi ho scoperto Maria come donna di pace, donna forte, donna modello per l’umanità”. E dall’Uganda: “E’ meraviglioso comprendere Maria in modo nuovo. Ci dà la spinta a portare Maria a casa e vivere con lei nella nostra società in cambiamento”.

Questi alcuni dei tanti echi arrivati dai 157 Congressi mariani che si sono svolti nel mondo durante l’anno del Rosario. Maria è stata riscoperta particolarmente come madre e modello di vita. Ha illuminato il cammino di molti che desiderano ora mettersi sulla sua via.

Un momento culmine era stato segnato dal Congresso mariano internazionale di Castelgandolfo, a cui hanno fatto eco i tanti Congressi che hanno tappezzato i cinque continenti. Una lode a Maria davvero planetaria che si è levata da ogni angolo della terra.

A Milano erano presenti 9000 persone, in Slovacchia 1900, in Corea 2250, nelle Filippine, a Manila 1800, in Malesia 1300, nel Messico 1200, in Argentina, a Buenos Aires 3400, in Paraguay 2000, nel Congo 1500, in Burundi 3000. Solo per citare alcuni incontri.

Dappertutto i Congressi sono stati una forte esperienza ecclesiale vissuta molte volte con l’intera diocesi e preparati in comunione con gli altri Movimenti e Associazioni della regione, dando così rilievo all’aspetto carismatico della Chiesa, della sua dimensione mariana!

Giornali e TV ne hanno parlato. Vescovi, politici, artisti, rappresentanti di Movimenti ecclesiali e della cultura hanno offerto contributi notevoli. Altra caratteristica: la presenza, e in diversi casi la testimonianza, di fratelli e sorelle di varie Chiese. Anche alcuni seguaci di altre grandi religioni hanno dato il loro apporto riguardo a Maria.

La rivista “Città Nuova”, a partire dal novembre 2002, ha una nuova rubrica culturale: “Anno del rosario”. E’ uscito un nuovo volume di Chiara Lubich: “Maria trasparenza di Dio”, mentre un’altra pubblicazione è dedicata ai bambini, in un coloratissimo volumetto dal titolo “Era bellissima…”.

Ma ritorniamo al 16 ottobre 2002, in Piazza San Pietro, quando Giovanni Paolo II dà a Chiara Lubich una sua lettera personale. In essa è scritto: “(…) Vorrei consegnare idealmente a tutti i Focolarini la preghiera del Santo Rosario (…). Offrite il vostro contributo, perché questi mesi diventino per ogni comunità cristiana occasione di rinnovamento interiore.”

L’adesione di Chiara era stata immediata. Come risposta al desiderio del Papa, fioriscono subito idee e progetti da concretizzare nel corso di quest’anno mariano. S’è sentita l’esigenza di ringraziarlo con messaggi dalle varie parti del mondo, per i frutti di vita nuova imprevedibili che ne sono scaturiti. (altro…)

La riscoperta del Padre

Mia madre era ancora molto giovane quando il papà è venuto a mancare. Si è risposata ed ha avuto altri due bambini ma il nuovo papà non lavorava, passava le giornate nel bar sotto casa e spesso trattava in modo violento sia noi che la mamma. Dopo poco tempo si sono lasciati. Inizia per me e per i miei fratelli un periodo difficile di brevi affidamenti, ora presso una famiglia, ora presso un’altra. La mamma non è più in grado di occuparsi di noi. Essendo io il più grande, cerco di farmi carico dei miei fratelli ai quali voglio molto bene; tuttavia, col passare del tempo, la mancanza di un riferimento stabile va cambiando il nostro carattere rendendoci chiusi e diffidenti verso tutti. Capita a volte di essere ospitati da una famiglia che ci accoglie bene, sia pure per breve tempo; altre ci sembra di essere scaricati come pacchi presso qualcuno che mira soltanto al sussidio per l’affidamento. Un altro distacco per me terribile è stato quando un giorno vengono a prendere i miei fratelli per portarli a fare una passeggiata. Capisco quasi subito che non li avrei più rivisti e con loro se ne va un’altra parte di me. Dopo poco tempo vengo richiesto da una nuova famiglia con la quale trascorro una giornata. Penso: “Una delle tante che alla fine mi scaricherà!”. Invece alla sera, con mia sorpresa, mi dicono della loro decisione di tenermi con sé; se avessi voluto, avrei potuto entrare a far parte della loro famiglia da subito. Accetto, attirato dal loro semplice volersi bene, per me una novità. Oltre a conoscere un po’ alla volta i nuovi genitori, incontro tanti loro amici, gente che cerca di vivere il vangelo. Con A. un ragazzo della mia età, stabilisco da subito un rapporto di profonda amicizia. Mi colpisce la sua grande disponibilità: A. è capace di qualsiasi cosa pur di farmi contento, con un amore veramente disinteressato. Comincio così, pian piano, a fare anch’io come lui, uscendo dal mio egoismo. Da quando i miei fratelli mi avevano lasciato avevo preso l’abitudine di tenere gelosamente per me tutto quello che mi regalavano; con il suo esempio riscopro la gioia di condividere le mie cose con gli altri. La mia vita riprende senso; tocco con mano l’amore di un Dio Padre che mi aveva sempre seguito anche nei momenti di sofferenza. Una sera gli amici del paese mi propongono di andare a vedere con loro un film pornografico. Arrivati al cinema dico loro che non sarei entrato e li avrei aspettati fuori. Dopo soli dieci minuti li vedo tornare: “Preferiamo stare in tua compagnia – mi dicono – la nostra amicizia vale più di un film”. Ad un certo punto mi investe una crisi che mi fa sentire come fuori da tutto. Sono confuso e decido di farmi una vita per conto mio, in piena libertà: basta con la chiesa, basta con l’amare… Qui sperimento l’amore dei veri amici: nonostante il mio rifiuto, loro non mi mollano, facendomi sentire amato, da loro e dal Padre di tutti. Così in me torna la luce. Guardando alla mia storia posso dire che non solo ho trovato l’amore di una famiglia naturale, seppure adottiva, ma ne ho trovata una ancora più grande, la famiglia dei figli di Dio, di cui Maria è Madre. Sono sicuro che sia Lei l’artefice di questa mia piccola storia. A. P.

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Tra i ragazzi di strada: dalle grida di dolore rinasce la vita

R. C. è da 28 anni in Brasile, in un famigerato bairro di una grande città. “Se qui c’è tanto dolore, se qui è Venerdì Santo, ne nascerà tanta vita e risurrezione”.  Apre la “Casa do menor”: accoglie i ragazzi di strada vittime di droga, prostituzione, narcotraffico, morte precoce.  Ragazzi spesso violenti, perché nessuno li ha mai amati. “Una notte, ritornando dal centrocittà, ho fermato la macchina su di un ponte sopra l’autostrada: guardo le luci del bairro, sento i suoi rumori e le grida di dolore. Provo rigetto, ripugnanza e impotenza. Tutti i giorni morti, sofferenza senza soluzione. E ho voglia di scappare. Improvvisamente capisco che questo dolore immane è un grande Cristo sfigurato e sofferente che grida il suo abbandono in questo bairro abbandonato da tutti, apparentemente anche da Dio. Una luce: se c’è tanto dolore, se qui è Venerdì Santo, ne nascerà tanta vita e risurrezione. Questo dolore mi attrae. Dò un’accelerata all’auto. Vado alla stazione: trovo tanti ragazzi e ragazzine che si drogano, fanno sesso. Mi corrono incontro, abbracciandomi… Seduto tra loro che puzzano per l’odore acre della ‘colla’, mi sento in adorazione di Gesù, presente in questa piazza nel Suo volto più inaccettabile. Perché Lui lo ha detto: “Tutto ciò che avrai fatto al minimo dei miei fratelli, l’avrai fatto a me”. Ritorno a casa. Mi aspetta un adolescente. Mi porge un’arma: «Prendi questa pistola. Non voglio più rubare, né uccidere». Un’altra sera, appena rientrato, mi avvisano che hanno sparato a Pirata, un ragazzo che avevo accolto in casa nel momento che la polizia gli stava dando la caccia per ammazzarlo. Ma era cambiato: si era battezzato e si preparava per la prima comunione. Vedo il sangue davanti alla porta della mia abitazione. Fremo e corro all’ospedale. Lo trovo su una pietra gelida con un colpo di rivoltella nella testa. Un ragazzo mi cerca. Mi dice, concitato, che sono già stati uccisi 36 ragazzi nel solo mese di marzo nella mia parrocchia. Mi mostra una lista di altri 40 “marcati per morire”. «Il primo nome della lista è il mio – dice. Io non voglio morire. E voi non fate niente?». Penso a quando, un anno fa, sono andato a seppellire in un sol giorno 9 ragazzi uccisi dalla polizia. Sono là solo per assorbire un dolore senza spiegazioni e offrirlo, come Maria ai piedi della Croce, impotente nel suo dolore. Anch’io più volte vengo minacciato di morte e di sequestro. Rimango tranquillo e sento che, con la grazia di Dio, sono pronto a dare la vita per davvero. Un giorno, mentre celebro la Messa, capisco: “Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue..”. Non solo il corpo di Gesù… devo essere pronto a dare il mio corpo. Ma forse Dio non vuole ancora il mio martirio. Vuole il martirio di ogni giorno: dare la vita in piccoli gesti di amore, di perdono, di capacità di ricominciare con ragazzi che sembra che non vogliano niente dalla vita e che non riescono a risorgere nei tempi che noi vorremmo. Ad un certo punto, torno in Italia, perché da tempo non sto bene di salute. Persino la mia testa non funziona più. E ci tenevo molto alla mia testa! Un medico mi visita e mi dice con fermezza: «In queste condizioni non puoi più tornare in Brasile». È come se Dio mi dicesse: “Mettiti da parte. La Casa do menor è opera mia, non tua. Fino adesso eri tu il protagonista. Adesso lascia che sia io a portarla avanti”. E la Casa do menor migliora, e molto, nel tempo della mia lunga assenza. Ritorno, e continuo a dire di sì a Dio tutte le volte che devo seppellire dei ragazzi che non siamo riusciti a salvare o sono tornati alla strada o alla droga dopo che abbiamo dato loro tanto amore. Che serve amare senza avere risultati? Ma io non devo pretendere di cambiare nessuno, devo solo amare. Insieme ad un religioso e a membri di una nuova famiglia spirituale che sta nascendo, vado di notte per le strade delle grandi città. Incontriamo situazioni sempre più drammatiche di ragazzi che noi vogliamo, perché nessuno li vuole. Assistiamo a veri miracoli: drogati o trafficanti di droga che rinascono a vita nuova. Diventiamo segno e modello di politiche sociali e da molte parti ci chiamano perché abbiamo qualcosa che fa la differenza. A dire il vero, quando avevo conosciuto il Movimento dei Focolari, non capivo perché Chiara Lubich aveva fatto la scelta di Gesù, che sulla croce grida l’abbandono del Padre, come unico ‘tutto’ della sua vita. Poi ho scoperto poco per volta che Gesù abbandonato è il Dio-Uomo che dà la vita, amando fino alla fine senza aspettarsi niente. Se resisto nel bairro sanguinante e con i mille volti della sofferenza, è perché vi ho scoperto il Suo volto e lo amo”. (altro…)

ottobre 2003

Gesù sconcerta sempre con il suo modo di fare e di parlare. Si discosta dalla mentalità comune che vedeva i bambini insignificanti dal punto di vista sociale. Gli apostoli non li vogliono attorno a lui, nel mondo degli “adulti”: non farebbero che disturbare. Anche i sommi sacerdoti e gli scribi “vedendo i fanciulli che acclamavano nel tempio ’Osanna al figlio di David’, si sdegnarono” e chiesero a Gesù di riportarli all’ordine. Gesù invece ha tutto un altro atteggiamento davanti ai bambini: li chiama, li stringe a sé, stende le mani su di loro, li benedice, li pone addirittura come modello ai suoi discepoli:

«…a chi è come loro appartiene il regno di Dio»

In un altro passo del Vangelo Gesù dice che se non ci convertiamo e non diventiamo come i bambini non entreremo nel regno dei cieli.
Perché il regno di Dio appartiene a chi assomiglia ad un bambino? Perché il bambino si abbandona fiducioso al padre e alla madre: crede al loro amore. Quando è nelle loro braccia si sente sicuro, non ha paura di niente. Anche quando attorno a sé avverte che c’è un pericolo, gli basta stringersi ancora più forte al papà o alla mamma che subito si sente protetto. A volte lo stesso papà sembra porlo in posizioni difficili, per rendere più emozionante un salto, ad esempio. Anche allora il bambino si lancia fiducioso.
E’ così che Gesù vuole il discepolo del regno dei cieli. Il cristiano autentico, come il bambino, crede all’amore di Dio, si getta in braccio al Padre celeste, pone in lui una fiducia illimitata; niente gli fa più paura perché non si sente mai solo. Anche nelle prove crede all’amore di Dio, crede che tutto quello che succede è per il suo bene. Ha una preoccupazione? La confida al Padre e con la fiducia del bambino è sicuro che egli risolverà tutto. Come un bambino si abbandona completamente a lui, senza fare calcoli.

«…a chi è come loro appartiene il regno di Dio»

I bambini dipendono in tutto dai genitori, per il cibo, il vestito, la casa, le cure, l’istruzione… Anche noi, “bambini evangelici”, dipendiamo in tutto dal Padre: ci nutre come nutre gli uccelli del cielo, ci veste come veste i gigli del campo, sa ciò di cui abbiamo bisogno, prima ancora che glielo chiediamo, e ce lo dona. Lo stesso regno di Dio non lo si conquista, lo si accoglie in dono dalle mani del Padre.
Ancora, il bambino non fa il male perché non lo conosce. Il discepolo del Vangelo, amando, sfugge il male, si mantiene puro e ridiventa innocente. Il bambino, perché non ha esperienza, va verso la vita con fiducia, come verso un’avventura sempre nuova. Il “bambino evangelico” mette tutto nella misericordia di Dio e, dimentico del passato, inizia ogni giorno una vita nuova, disponibile ai suggerimenti dello Spirito, sempre creativo. Il bambino non sa imparare a parlare da solo, ha bisogno di chi gli insegni. Il discepolo di Gesù non segue i propri ragionamenti, ma impara tutto dalla Parola di Dio fino a parlare e a vivere secondo il Vangelo.
Il bambino è portato ad imitare il proprio padre. Se gli si chiede cosa farà da grande spesso dice il mestiere del padre. Così il “bambino evangelico”: imita il Padre celeste, che è l’Amore, ed ama come lui ama: ama tutti perché il Padre “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”; ama per primo perché lui ci ha amato quando eravamo ancora peccatori; ama gratuitamente, senza interesse perché così fa il Padre celeste…
E’ per questo che Gesù ama circondarsi dei bambini e li addita come modello:

«Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio»

In effetti i bambini continuano a sorprenderci. “Ieri papà mi ha chiesto di andare in cantina a prendere una cosa – mi scrive Betty, una bambina di 6 anni di Milano –. Per le scale era buio e io avevo paura. Poi ho pregato Gesù e ho sentito che lui era vicino a me.”
Irene, Ilaria, Laura, tre sorelline di Firenze, vanno con la mamma a fare le spese in macchina. Passano davanti a casa del nonno e chiedono di poter salire a salutarlo. “Andate voi – dice la mamma – io vi aspetto”. Quando ritornano chiedono: “Perché non sei venuta?”. E lei: “Il nonno non si è comportato bene con me; così capisce…”. E Ilaria: “Ma mamma, dobbiamo amare tutti, anche i nemici…”. La mamma non sa più cosa dire. La guarda e sorride: “Avete ragione. Aspettatemi qui”. E sale da sola dal nonno.
Possiamo imparare dai bambini come accogliere il regno di Dio.

Chiara Lubich

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Germania: Un dramma di violenza razzista si trasforma in ondata di fraternità

Solingen si trova nel nord ovest della Germania ed è sempre stata una piccola e tranquilla città, conosciuta nel mondo per l’industria metallurgica, per le sue forbici e i suoi coltelli. Unico neo: il grave problema della disoccupazione, aggravato dall’alta percentuale di stranieri arrivati in cerca di lavoro. Ormai da parecchi anni, però, pensavamo di esserci abituati a convivere bene tra persone di molte nazionalità. Finché di colpo, nel maggio 1993, non è esploso in maniera drammatica il problema dell’inserimento degli stranieri. Sono stati giorni tragici, seguiti con interesse e apprensione sulle televisioni della nostra e di altre nazioni: alcuni giovani di destra hanno appiccato il fuoco ad una casa abitata da famiglie turche. Nell’incendio sono morte cinque persone: donne e bambini. In quei giorni era Pentecoste e io mi trovavo fuori città. Ho ricevuto la drammatica notizia da una telefonata e, in un primo momento, non riuscivo ad accettare la notizia terribile e scioccante che mi veniva data. Sembrava impossibile. Vi erano stati attentati in altri luoghi, ma mai a Solingen! Nella nostra città così pacifica, e nel quartiere proprio dietro casa mia! Eppure era vero. Al rientro ho trovato la città in stato di guerra: vetrate demolite, negozi saccheggiati, migliaia di poliziotti, e, per le strade, battaglie tra gruppi estremisti tedeschi e turchi che erano confluiti lì da tutto il paese. Quella notte non ho potuto dormire. I rumori, gli elicotteri, le sirene sembravano un unico grido al quale occorreva dare una risposta. L’indomani ci siamo incontrati con la nostra comunità. Tanti, provenienti direttamente dal lavoro o dall’università, avevano potuto attraversare a fatica la città. In tutti emozione e tormento, l’esigenza di fare, di dire qualcosa. È nata lì l’idea di un concerto per la pace nella piazza centrale di Solingen. Data la situazione, era un’idea ardita, umanamente una pazzia. Eppure, nessuno di noi aveva il minimo dubbio. In serata, siamo riusciti a prendere contatto con il sindaco della città e con gli organi di sicurezza. Tutti ci hanno appoggiato, anzi, ci chiedevano di realizzare l’idea quanto prima. È avvenuto una specie di miracolo: dopo solo settantadue ore di preparazione ha inizio il concerto, con un programma fatto dal nostro complesso insieme ad un gruppo musicale turco. L’iniziativa è subito stata messa in rilievo dalle reti televisive come l’unica manifestazione pacifica in una settimana di violenza. Tra i mille partecipanti c’erano persone di molte nazioni, tanti turchi, e anche i parenti delle vittime. Ogni parola veniva tradotta in turco e si è ben presto creata una grande attenzione e distensione in tutta la piazza. Alla fine, abbiamo lanciato l’azione “uno per uno”: la proposta che ognuno, tedesco, turco, italiano o coreano, cercasse di costruire dei legami di amicizia con almeno una persona di un’altra nazionalità. Già lì, in piazza, durante lo spettacolo, tanti hanno trovato l’occasione e il coraggio per i primi contatti. È stata una serata di una bellezza indescrivibile. Chiara Lubich ci ha scritto, incoraggiandoci, convinta che il nostro contributo, “per la testimonianza di unità, lascerà un segno”. E questo è avvenuto! Certamente il concerto non ha cambiato di colpo la situazione nella città, ma è stato un segno accolto dalla popolazione. E ora sappiamo di essere in compagnia di tanti gruppi, a Solingen e in Germania, che si impegnano con passione per far fronte ai nuovi e crescenti fenomeni di intolleranza razziale. In seguito, abbiamo dato origine ai Cafè international. Si tratta di un incontro mensile durante il quale, a turno, gli immigrati di vari paesi si fanno conoscere, con la propria cultura, i costumi, la musica, i cibi tipici, ma anche condividendo dolori e speranze. E, conoscendoci, scopriamo quanto ogni popolo, proprio per la diversità, è per gli altri un dono e un arricchimento. L’iniziativa ha trovato una forte risonanza. Ogni volta si aggiungono altre persone di altre nazioni. E l’esperienza si sta moltiplicando in altre città: a Colonia, Amburgo, Münster e Hannover. L’ultima volta mi sono trovata a tavola con persone dell’Afghanistan, della Serbia, Bosnia e Croazia che vivono in un vicino campo profughi. Durante la cena, le signore dell’Afghanistan mi hanno offerto una loro specialità. Alla mia domanda se fosse tipica del loro paese, mi hanno risposto: “No, è tipica della Bosnia. Abbiamo imparato a prepararla da una nostra amica”. E la indicano. “Abitiamo sullo stesso corridoio e abbiamo la cucina in comune. Trovarci lì, in un ambiente così stretto, fra etnie in contrasto tra loro, è stato durissimo. Il Cafè international ci ha fatto diventare sorelle”. Con queste persone, segnate dal dolore e da una nuova speranza, ho toccato il cielo. Ormai, passato qualche anno dalle prime iniziative per la pace, tanti di questi Cafè incominciano a guardare fuori dei confini nazionali. Insieme, si impegnano per le necessità di altri paesi. È una testimonianza di unità che coinvolge e che attira sempre più gente.  

Lo stampo

Poiché siamo tuttora nell’anno dedicato dal Santo Padre a Maria, desidero offrire ancora qualche considerazione sulla Madre di Dio, così come l’abbiamo scoperta nell’esperienza del Movimento. Stavolta vorrei parlare di Maria Desolata, quale ci è apparsa dagli anni Sessanta in poi: un monumento di virtù, la sintesi di tutte le virtù cristiane figlie della carità. La Desolata, che è il “perdere assoluto”, “perdere universale” di tutto per non possedere che Dio, amato in sé e nei fratelli, ci è apparsa pure come lo “stampo” in cui poterci gettare per uscire “altro Cristo”, “altra Maria”. E come? “Vi è una grande differenza – dice in proposito san Luigi Grignion de Montfort – tra lo scolpire un’immagine in rilievo a colpi di martello e di scalpello, e farne una gettandola nello stampo. Scultori e statuari lavorano molto per produrre figure nella prima maniera, ed è loro necessario molto tempo; invece, per modellare nella seconda maniera lavorano poco e la realizzano in pochissimo tempo. “Sant’Agostino – continua Montfort – chiama la Vergine santa “forma Dei”, “stampo di Dio”: stampo adatto a formare e modellare degli dèi”. Naturalmente figli di Dio adottivi. “Chi è gettato in questo stampo divino, viene presto formato e modellato in Gesù Cristo. Con poca spesa, e in breve tempo, diviene dio, perché è gettato nello stesso stampo nel quale è stato formato un Dio” (1). Che dobbiamo fare allora per divenire “altro Gesù”, “altra Maria”? Illuminante può essere la tensione che da qualche tempo ci vede impegnati a cogliere, in modo sempre nuovo, la volontà di Dio nell’attimo presente: “stabilirci”, “perfezionarci” in essa, “adeguarci”, “abbandonarci”, “centellinare”, “stazionare”, “innamorarci” di essa, e così via. Vivere il momento presente con interezza sta risultando per molti fra noi un metodo che dà tanti vantaggi e, soprattutto, fa progredire nel cammino spirituale. Infatti, comportandoci così, noi perdiamo tutto: il passato, il futuro, ogni cosa o persona, ogni desiderio, ogni attaccamento per essere tutti lì, nel presente, a fare la volontà di Dio che significa amarlo con tutto il cuore, la mente, le forze. E questo è proprio vivere la Desolata, è perdersi ogni attimo nel suo “stampo”, nella sua “forma” ed uscire Gesù, uscire Maria, o piccola Maria, come il Signore ci vuole. 1) Trattato della vera devozione a Maria, n. 219. (da Città Nuova, n.19/2003)

Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

La cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria

Atleti, medici e psicologi sportivi, studenti e docenti in scienze motorie, dirigenti di club, arbitri, insegnanti di educazione fisica, istruttori e tecnici: erano una settantina, di ben 12 nazioni, gli sportivi e gli operatori dello sport, vicini alla spiritualità del Movimento, che a fine giugno nella cittadella di Loppiano, sulle colline del Valdarno (FI), hanno dato vita al primo workshop internazionale di “Sportmeet for a united world”, ovvero “Incontro con lo sport per un mondo unito”. Incorniciato da momenti di attività fisica, come un torneo di pallavolo o il jogging mattutino fra ulivi e vigneti, il convegno, aperto dall’augurio inviato da Chiara Lubich: “Che partiate bene, una partenza degna di sportivi!”, ha fatto intuire il contributo che può dare la spiritualità dell’unità per salvare la bellezza dello sport minata oggi dal peso eccessivo degli interessi economici, dal doping, dalla spettacolarizzazione esasperata, dalla violenza negli stadi. E proprio per cominciare a mettere a fuoco l’identità ed il ruolo culturale della nascente rete internazionale, gli sportivi di Sportmeet si sono confrontati su un tema provocatorio, ma fondamentale per la realtà sportiva di oggi: “Una cultura della sconfitta, per una nuova cultura della vittoria”. Vera Araujo, sociologa, ha offerto il suo contributo con un intervento sul tema “La competizione e l’aggressività nella società contemporanea” cui è seguito quello dell’economista Luigino Bruni che ha tracciato un parallelo fra economia e sport nel suo intervento: “Nello sport come nel mercato: competizione, vittoria e sconfitta”. Il tema centrale, sul significato da dare al recupero di una cultura della sconfitta, è stato presentato da Paolo Crepaz, medico dello sport e giornalista sportivo, coordinatore di Sportmeet. Dal suo intervento sono emerse le mille sfumature del “saper perdere”, al di là di una banale rassegnazione dignitosa al risultato avverso, quali, ad esempio: apprezzare il valore del vincitore, la bellezza e l’efficacia del suo gesto; salvaguardare il diritto di sbagliare, specie per i più giovani, tornando, concretamente, ad investire sui vivai; variare la dieta sportiva, uscendo dal monoalimento calcistico per conoscere ed apprezzare altri sport; praticare in prima persona uno sport o almeno assistervi in diretta, per capire l’impegno e la fatica richiesti; capire ed esercitare l’arte del passaggio della palla negli sport di squadra come espressione della fiducia nel compagno; fidarsi, in parete, del compagno di cordata; rinunciare ad un’impresa di fronte alle condizioni avverse e scoprire vette più interiori; fino a riconoscere, accettare e persino amare il proprio limite fisico. A far comprendere quanto sia di grande attualità e propositivo il tema, è stata la tavola rotonda che ne è seguita, cui hanno partecipato rappresentanti di prestigio del mondo dello sport, come Marco Marchei, maratoneta italiano presente a due Olimpiadi, ora giornalista sportivo, direttore di qualificate riviste come “Correre” e “Il nuovo calcio”, Nicolò Corradini, 4 volte campione del mondo di ski-orienteering, e Gianni Rivera, indimenticato calciatore, campione nel Milan e nella nazionale italiana. Originale e suggestivo è stato ascoltare da loro il racconto delle proprie sconfitte e dei momenti più difficili della propria storia sportiva. Per tre giorni, accanto ai campioni, hanno portato la loro testimonianza di Vangelo vissuto nello sport, sportivi di ogni livello e di diverse parti del mondo. Grazie a Sportmeet è venuto così alla luce un fermento di vita ed un dialogo col mondo dello sport nelle sue diverse espressioni: di divertimento, di contatto con la natura, senza dimenticare la sua dimensione agonistica e professionistica. I temi culturali e molte delle testimonianze presentate al workshop, così come gli obiettivi della nuova realtà di Sportmeet, sono disponibili visitando il sito internet www.sportmeet.org Sportmeet for a United World via Frascati, 306 – 00046 Grottaferrata (RM) e-mail: sport@flars.net tel. 06 94798251 – fax. 06 94790436

Nonostante tutto, non fermarti!

Il nuovo posto di lavoro come odontotecnico era cominciato nel migliore dei modi: buono lo stipendio e prospettive interessanti. Ma dopo qualche mese l’idillio s’incrina perché il datore di lavoro, prima qualche volta, poi quasi ogni giorno mi ripete: “Lei lavora troppo lentamente e i colori dei denti non sono come dovrebbero”. Non capisco. Ogni mattina, alla distribuzione del lavoro, vedo che non si fida di me e che mi licenzierebbe volentieri. Alla consegna dei lavori, la sera, dopo una giornata di intenso lavoro, devo quasi sempre rifare tutto daccapo. Ho vissuto mesi di intima tensione, di lotta interiore: sono tentato di ribellarmi, si addensano giudizi nei confronti del datore di lavoro, ma cerco di “tagliare” per “ricominciare” ogni giorno.

Un mattino d’inverno, andando al lavoro, comincia a piovere forte: quel temporale sembra l’immagine esterna di ciò che vivo dentro. Mi ricordo dell’immagine di Gesù crocifisso che da anni tengo nella mia stanza e che tante volte in quei giorni avevo guardato senza trovare una risposta, come Lui, d’altronde, quando gridò al Padre il suo abbandono, ma si riabbandonò a Lui, credendo al Suo amore. Così pian piano dentro di me si fa largo un’idea: “Continua ad amare e, nonostante tutto, non fermarti!”. Arrivato al lavoro, cerco di far miei tutti i consigli del mio capo, senza quella sottile sfiducia che da mesi mi accompagna. Ritrovo una libertà interiore che da tempo avevo perso. Qualche tempo dopo mi chiama per dirmi che aveva fatto una visita oculistica e che il medico gli aveva scoperto un difetto visivo: era quello che gli procurava tensione e alterava i colori. Quindi era questa la causa principale delle nostre discussioni e delle tante serate di lavoro in più. Qualche giorno dopo, in un momento di intimo colloquio, tra l’altro, mi dice: “Io sto raggiungendo l’età per andare in pensione e ho pensato di proporre a lei di rilevare la mia azienda, perché ho visto che davanti alle difficoltà lei non si arrende”. F. L. (altro…)

Dio ci chiama

Il volume raccoglie alcune conversazioni dell’Autore con i membri del Movimento dei Focolari tenute in diverse occasioni e luoghi su alcuni aspetti tipici della vita cristiana: Dio Amore, il dolore come via privilegiata per l’incontro con Lui, l’impegno richiesto ad ogni cristiano di “mettere Dio al primo posto nella propria vita” aderendo alla Sua volontà, la Sacra Scrittura, la presenza di Gesù nella comunità – “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” Mt 18,20 –, Maria, la Chiesa, la fede, la preghiera. In particolare l’Autore si sofferma sulla vocazione: la chiamata a seguire Gesù radicalmente è lo sguardo d’amore che già prima della nascita Dio ha sull’uomo, ma che richiede il suo sì libero e responsabile. Pasquale Foresi, sacerdote dal 1954, è considerato un cofondatore del Movimento dei Focolari per il contributo da lui dato, tra l’altro, allo sviluppo degli studi teologici, alla stesura degli statuti, alla nascita della prima casa editrice e della cittadella di Loppiano. Laureato in teologia alla Pontificia Università Lateranense, è licenziato in filosofia e teologia alla Pontificia Università Gregoriana. Per Città Nuova ha pubblicato: Teologia della socialità (1963); L’agape in san Paolo e la carità in san Tommaso (1965); Il Testamento di Gesù (1966); Appunti di filosofia. Sulla conoscibilità di Dio (1967); Conversazioni di filosofia (nuova ed. 2001); Fede, speranza e carità nel Nuovo Testamento (1967); Parole di vita (1969); Problematica d’oggi nella Chiesa (1970); L’esistenza cristiana (1989).

settembre 2003

Sono parole scioccanti. Gesù dice di tagliare il piede o la mano, di cavare l’occhio se sono di scandalo. Lo sappiamo, queste parole non vanno prese alla lettera, anche se mantengono tutta la forza di una spada a doppio taglio. Sono un modo per dire che davanti a quanto può essere occasione di peccato dobbiamo essere disposti a rinunciare a tutto, anche alle cose e alle persone care, piuttosto che perdere ciò che veramente vale: “entrare nella vita”, ossia la comunione con Dio e la nostra salvezza.

La parola “scandalo” nei Vangeli indica tutto ciò che si interpone tra noi e Dio, facendo da ostacolo all’adempimento della sua volontà; è come un bastone tra le ruote che vuole bloccare il nostro cammino dietro a Gesù, come un trabocchetto che vuol farci cadere nel peccato. Ci sono momenti in cui l’occhio, la mano, il piede “scandalizzano”, ossia vorrebbero portarci a rinnegare Gesù, a tradirlo, a preferire altre cose a lui.
L’ha capito bene Santa Scorese, questo il nome di una ragazza di 23 anni, quando a Bari, nel sud dell’Italia, nel 1991, ha preferito essere uccisa piuttosto che perdere la sua purezza insidiata da un ragazzo della sua età. Per lei è valso più Dio che la vita.

«Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna»

Questa Parola di vita smaschera l’”uomo vecchio” che è in noi. Il peccato non viene infatti dalle cose, dal di fuori, ma scaturisce dal nostro intimo, dal nostro cuore. L’”uomo vecchio” vive in noi quando cediamo alle insidie del male e quando assecondiamo le nostre peggiori inclinazioni: egoismo, fame di potere, di gloria, di denaro…
L’”uomo vecchio” deve cedere il posto all’”uomo nuovo”: Gesù in noi.
Possiamo da soli sradicare le passioni disordinate dal nostro cuore e far nascere in noi la vita divina? Soltanto Gesù con la sua morte può far morire il nostro “uomo vecchio” e con la sua risurrezione trasformarci in uomini nuovi. Lui può darci il coraggio e la risolutezza nella lotta contro il male, l’amore leale e radicale per il bene. Da Lui viene quella libertà interiore, quella pace e quella gioia ineffabile che ci portano al di sopra di tutte le brutture del mondo e ci fanno sperimentare fin da adesso un anticipo di Cielo.

«Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna»

L’”uomo nuovo” in noi deve crescere ed essere custodito dalle insidie dell’”uomo vecchio”. Quale la nostra parte? Scrivevo nel 1949: “Ci sono tanti modi di ripulire una stanza: raccogliere paglia per paglia; usare una scopa piccola, una grande, un grande aspirapolvere, ecc. Oppure – per essere nel pulito – si può cambiare stanza e tutto è fatto. Così per santificarci. Anziché lavorare tanto, si può immediatamente scostarsi e lasciar vivere Gesù in noi. E cioè vivere trasferiti in altro: nel prossimo, per esempio, che – momento per momento – ci è vicino: vivere la sua vita in tutta la sua pienezza”.
Amare! Qui è tutta la dottrina di Gesù. Affinare il nostro cuore e renderlo capace di ascolto, immedesimarsi con i problemi e le preoccupazioni dei nostri prossimi, condividerne le gioie e i dolori, far cadere quelle barriere che ancora ci dividono, superare giudizi e critiche, uscire dal nostro isolamento per metterci a disposizione di chi è nella necessità o nella solitudine, costruire ovunque l’unità voluta da Gesù.
Se vivremo così, Dio ci attirerà alla comunione sempre più intima con Lui e ci renderà quasi irremovibili e inattaccabili di fronte agli errori e alle attrattive del mondo.

«Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che essere gettato con due piedi nella Geenna»

Gesù ci dice anche di togliere (“tagliare”) con energia quelle realtà (cose, persone, situazioni) che per noi potrebbero essere occasione di scandalo. E’ l’evangelico “rinnega te stesso”. Il cristiano ha il coraggio di andare contro le tendenze egoistiche perché non diventino stile di vita.
Durante questo mese usciamo da noi stessi amando chi ci è vicino e tagliamo ogni attaccamento a tutto ciò che non dobbiamo amare, facciamo pulizia di quanto va tolto dal nostro cuore. Nessun sacrificio è troppo grande per non perdere la comunione con Dio. Ad ogni taglio, fiorirà nel cuore la gioia, quella vera, che il mondo non conosce.

Chiara Lubich

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agosto 2003

Un Dio che parla con noi come ad amici! L’antico popolo d’Israele era fiero di avere un Dio tanto vicino, che gli donava leggi e norme tanto giuste, come leggiamo in questo brano del Deuteronomio, che fa parte dell’Antico (o Primo) Testamento.
Proprio perché la Parola di Dio ha un suo fascino straordinario, c’è il pericolo di credere che, una volta ascoltata, tutto sia fatto; e invece la Parola va vissuta. Qui è il punto.
Anche l’apostolo Giacomo nel Nuovo Testamento metteva in guardia i primi cristiani: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi”. La stessa cosa insegnava Mosè quando si rivolgeva a tutto il popolo con queste parole:

«Or, dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica»

Ascoltare, dunque, la Parola e viverla.
Inoltre nelle Parole di Gesù è presente Lui stesso, le sue Parole sono Lui stesso, e le sue sono parole eterne perciò attuali in ogni momento; universali, quindi valgono per tutti, al di sopra di ogni razza e cultura; non sono semplici esortazioni, suggerimenti, comandi, come possono essere le parole umane: esse contengono e trasmettono la Vita.

Gesù, alla fine del suo grande discorso della montagna, ci ha lasciato in proposito una famosa parabola: paragona ad una casa costruita sulla sabbia chi ascolta con entusiasmo le sue Parole, ma poi non le traduce in vita; vengono i venti e le piogge, ossia altre proposte umane più facili e allettanti, dottrine che incantano e illudono con i loro bagliori passeggeri, e la persona frana miseramente perché il messaggio evangelico in lei non è diventato vita.

Gesù paragona poi chi mette in pratica la sua Parola ad una casa costruita sulla roccia: possono venire le prove, le tentazioni, i dubbi, i disorientamenti, ma quella persona rimane salda sulla via del Vangelo, continua a credere nelle Parole di Dio perché ne ha sperimentato la verità.
Vivere la Parola di Dio porta un’autentica rivoluzione nella nostra vita e in quella della comunità umana con cui condividiamo il Vangelo.

«Or, dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica»

Le Parole di Gesù vanno vissute con la semplicità dei bambini! Egli ci dice: “Date e vi sarà dato” (Lc 6,38). Quante volte possiamo sperimentare che più diamo più riceviamo! Quante volte non ci siamo trovati a mani vuote, perché ogni volta che abbiamo donato a chi era nel bisogno ci siamo ritrovati con cento volte tanto. E quando non avevamo niente da dare? Non ha detto Gesù: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7)? Chiedevamo…, e la nostra casa si riempiva di ogni ben di Dio da poter donare ancora.
Quando siamo oppressi dalla preoccupazione per qualche situazione che ci sembra superi le nostre forze, dall’angoscia che ci paralizza, ricordiamo le Parole di Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi…” (Mt 11,28), e, gettata in Lui ogni inquietudine, vedremo ritornare la pace e con essa la soluzione ai nostri problemi.

La Parola di Dio spezza il nostro io, annulla l’egoismo, sostituisce il nostro modo di pensare, di volere, di agire con quello di Gesù. Vivendola, subentra in noi la logica divina, la mentalità evangelica e vediamo tutto con occhi nuovi; cambiano anche i nostri rapporti con gli altri: persone che prima non si conoscevano, vivendo insieme la Parola di Dio e comunicandosi le esperienze che essa suscita, si ritrovano fratelli, diventano popolo, Chiesa viva. Una sola Parola del Vangelo vissuta da tanti potrebbe cambiare il corso della storia.
La Parola di Dio, se vissuta, opera miracoli. Nasce così, nel nostro cuore, una confidenza nuova, sconfinata, nell’amore del Padre, che assiste con il suo quotidiano intervento i suoi figli. Le sue Parole sono vere; se noi le viviamo, anche Lui le mette in pratica, alla lettera, e ci dona ciò che promette: il centuplo qui in terra, la pienezza della vita e la gioia senza fine del Paradiso.

Chiara Lubich

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“Possono le religioni essere ’partners’ sul cammino della pace?”

“Possono le religioni essere ’partners’ sul cammino della pace?”

“Senza fraternità non c’è pace”

 

Il pluralismo religioso, superficialmente sembra germe di divisioni e guerre. In realtà esso è – dice Chiara Lubich nel suo intervento – una sfida: tutte le religioni sono chiamate a ristabilire insieme l’unità della famiglia umana, poiché in tutte le religioni “in qualche modo lo Spirito Santo è presente e attivo”.

Proprio il fenomeno del terrorismo, che non si riesce a combattere con mezzi convenzionali, mostra che le religioni hanno un grande contributo da dare alla pace: “La causa più profonda del terrorismo” è “l’insopportabile sofferenza” di fronte a un mondo dove sempre maggiore è il divario fra ricchi e poveri, ha sottolineato la Lubich a Caux. C’è l’esigenza di più uguaglianza, più solidarietà, e soprattutto di una più equa distribuzione dei beni. “Ma, come si sa, i beni non si muovono da soli,”. “bisogna muovere i cuori delle persone”. E “da chi, se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali?”. Senza fraternità, infatti – sostiene la Lubich – non c’è pace.

Senza perdere la propria identità

 In tutte le religioni è radicata l’idea dell’unità e dell’amore: “In pratica, ciò significa che siamo partners sulla via della fratellanza e della pace. Senza perdere la nostra identità, tra le grandi tradizioni religiose dell’umanità ci possiamo incontrare e comprendere” ha sottolineato la Lubich. Come via maestra verso la comprensione tra le religioni, la fondatrice del Movimento dei Focolari ha indicato la via dell’amore: “Se intraprendiamo il dialogo gli uni con gli altri, se quindi ci apriamo l’un l’altro in un dialogo fatto di benevolenza, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia, ci apriamo anche a Dio e facciamo in modo – sono parole di Giovanni Paolo II – che Dio sia presente in mezzo a noi”. Chiara Lubich si è mostrata convinta che è proprio con la presenza di Dio che si potrebbero trovare vere soluzioni ai problemi attuali.

Il segreto del dialogo

 Il Movimento dei Focolari ormai ha una ricca esperienza nel dialogo interreligioso: “in un clima di amore reciproco si può infatti stabilire il dialogo con i propri partners, dialogo nel quale si cerca di farsi nulla per ’entrare’, in certo modo, in loro”. Questo ‘farsi uno con l’altro’ è indicato dalla Lubich come il segreto di un dialogo che può portare all’unità. Richiede vera povertà di spirito: “svuotare la nostra testa di idee, liberare il nostro cuore da affetti, la nostra volontà da desideri” per poter immedesimarci con l’altro e capire chi ci sta di fronte. Da un tale atteggiamento l’altro o l’altra viene “toccato” e da parte sua comincia a porre domande (questa l’esperienza di Chiara). “Allora possiamo passare all’ ‘annuncio rispettoso’, e comunicare, per lealtà a Dio e a noi stessi, ma anche per onestà verso il prossimo, quanto la nostra fede afferma sull’argomento di cui si parla, senza con ciò imporre nulla all’altro, senza ombra di proselitismo, ma per amore. Ed è il momento in cui, per noi cristiani, il dialogo sfocia nell’annuncio del Vangelo”.

Grande semplicità

   

Durante il colloquio successivo, Cornelio Sommaruga, presidente di “Iniziative e cambiamento”, ha sottolineato la “estrema semplicità” con la quale Chiara Lubich diffonde il suo messaggio di amore. Rajmohan Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi, professore all’università di Nuova Delhi, pure lui responsabile dell’organizzazione che ha promosso il seminario, ha aggiunto: “Questa donna parla ai cuori. Ma non come molti altri con voce potente e appassionata, ma con dolcezza e forza. Il dialogo interreligioso promosso dalla signora Lubich è di grandissima importanza, specialmente nel nostro tempo”. E il rabbino Marc Raphaël Guedj, fondatore di “Racine et Source” (“Radice e Fonte”) si è mostrato impressionato dalla “personalità di Chiara, che parla di amore essendo amore, sapienza, sapienza della vita quotidiana, … amore che trasforma il mondo”.

Dal servizio di Beatrix Ledergerber-Baumer per l’agenzia KIPA, 3 agosto 2003 (nostra traduzione) (altro…)

Possono le religioni essere partners sul cammino della pace?

«Desidero innanzitutto esprimere la mia gioia nel trovarmi oggi qui in questo Centro di Caux, ricco di iniziative intente a rafforzare i fondamenti morali e spirituali delle società, e a promuovere l’incontro pacifico delle culture, delle civiltà e delle religioni. Ringrazio in modo particolare il dott. Cornelio Sommaruga, che ha voluto invitarmi a dare un mio contributo a questo importante seminario interreligioso. L’argomento che mi è stato chiesto di trattare oggi recita così: “Possono le religioni essere partners sul cammino della pace?”. E’ questa, come tutti sappiamo, una domanda di grande importanza e di estrema attualità. Nel dilagare del terrorismo, nelle guerre condotte in varie parte del mondo per rispondervi, e nella tensione permanente in Medio Oriente, molti vedono i sintomi di un possibile “scontro tra civiltà”. Esso sarebbe segnato e persino acuito dalle diverse appartenenze religiose. Questo modo di vedere però, provocato da estremismi e fanatismi di vario genere che distorcono le religioni, risulta, ad una lettura più attenta dei fatti, molto parziale. Mai come in quest’ora del mondo, infatti, credenti e responsabili di tutte le religioni hanno sentito di dovere lavorare insieme per il bene comune dell’umanità. Organizzazioni come la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace o iniziative come la giornata di preghiera per la Pace, indetta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel gennaio 2002, ne sono una riprova. In quell’occasione il Papa aveva ribadito, a nome di tutti i presenti, che “chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda” e che “non v’è finalità religiosa che possa giustificare la pratica della violenza dell’uomo sull’uomo” perché “l’offesa dell’uomo è in definitiva offesa di Dio” . Con l’11 settembre 2001, l’umanità ha scoperto, sgomenta, la natura di questo grande, enorme pericolo che è il terrorismo. Non è una guerra come le altre, perché esse – ne abbiamo tutt’oggi circa 40 sul pianeta – sono in genere frutto dell’odio, del malcontento, delle rivalità, di interessi personali o collettivi. Il terrorismo invece, come ha affermato ancora il Papa, è frutto anche di forze del Male con la M maiuscola, delle Tenebre. Ora, forze di questo tipo non si combattono con soli mezzi umani, diplomatici, politici e militari. Necessitano forze del Bene con la B grande. E il Bene con la B maiuscola è – lo sappiamo – Dio, e tutto ciò che ha radice in Lui. Si può combattere, dunque, con forze spirituali, con la preghiera, ad esempio, col digiuno, come hanno fatto i rappresentanti delle religioni del mondo nella città di san Francesco. Ma, ci sembra di dover dire che la preghiera non basta. Noi sappiamo che molte sono le cause del terrorismo, ma una, la più profonda, è l’insopportabile sofferenza di fronte a un mondo mezzo povero e mezzo ricco, che ha generato e genera risentimenti covati negli animi da tempo, violenza, vendetta. Si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione dei beni. Ma, come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé. Vanno mossi i cuori, vanno messi in comunione i cuori! E per questo occorre diffondere fra più gente possibile l’idea e la pratica della fraternità, e, data la vastità del problema, di una fraternità universale. I fratelli sanno pensare ai fratelli, sanno come aiutarli, sanno condividere quanto hanno. Per rispondere a questa sfida senza precedenti, il contributo delle religioni è decisivo. Da chi, se non dalle grandi tradizioni religiose, potrebbe partire quella strategia della fraternità capace di segnare una svolta persino nei rapporti internazionali? Le enormi risorse spirituali e morali, il contributo di idealità, di aspirazioni alla giustizia, d’impegno a favore dei più bisognosi, assieme a tutto il peso politico di milioni di credenti, che scaturiscono dal sentimento religioso, convogliati nel campo delle relazioni umane, potrebbero senz’altro tradursi in azioni tali da influenzare positivamente l’ordine internazionale. Molto si sta facendo nel campo della solidarietà internazionale, da parte delle organizzazioni non governative. Ciò che manca è che gli Stati facciano proprie quelle scelte politiche ed economiche atte a costruire una comunità fraterna di popoli impegnata a realizzare la giustizia. Perché di fronte ad una strategia di morte e di odio, l’unica risposta valida è costruire la pace nella giustizia. Ma senza fraternità non c’è pace. Solo la fraternità fra individui e popoli può assicurare un futuro di convivenza pacifica. Del resto la fratellanza universale e la conseguente pace non sono idee di oggi. Esse sono state spesso presenti nelle menti di spiriti forti perché “il piano di Dio sull’umanità è la fraternità e l’amore fraterno è iscritto nel cuore di ogni essere umano”. “La regola d’oro – diceva il Mahatma Gandhi – è di essere amici del mondo e considerare ‘una’ tutta la famiglia umana” . E Martin Luther King: “Ho il sogno che un giorno gli uomini (…) si renderanno conto che sono stati creati per vivere insieme come fratelli (…); (e) che la fraternità (…) diventerà l’ordine del giorno di un uomo di affari e la parola d’ordine dell’uomo di governo” . Su questa linea, il Dalai Lama, a proposito di quanto è successo negli Stati Uniti due anni fa, scriveva ai suoi: “Per noi le ragioni (di questi eventi) sono chiare. (…) Non ci siamo ricordati delle verità umane più basilari. (…) Siamo tutti uno. Questo è un messaggio che la razza umana ha grandemente ignorato. Il dimenticare questa verità è l’unica causa dell’odio e della guerra”. Nonostante le distruzioni, può emergere dunque anche dalle macerie del terrorismo una grande, antica verità: che noi tutti sulla terra siamo un’unica grande famiglia. Ma chi ha indicato e portato questa verità come dono essenziale all’umanità, è stato Gesù, che ha pregato così prima di morire: “Padre, che tutti siano uno” (Gv 17,21). Egli, rivelando che Dio è Padre, e che gli uomini, per questo, sono tutti fratelli, ha introdotto l’idea della fraternità universale. E con ciò ha abbattuto le mura che separavano gli “uguali” dai “diversi”, gli amici dai nemici. Ora senz’altro ognuno di noi, mosso dalla propria fede religiosa, avrà fatto le sue esperienze positive che possono essere utili alla soluzione di problemi simili agli attuali. E poiché questo è il momento in cui – come diceva un vescovo, specialista in questo campo – “le religioni devono tirare fuori dal profondo di sé le loro forze spirituali per aiutare l’umanità e portarla alla solidarietà e alla pace” , mi permettano di offrire loro la mia esperienza fatta a contatto con persone di ogni età, lingua, razza, e soprattutto di religioni diverse, in ogni angolo della terra. E’ un’esperienza di dialogo che può fornire una chiave per una convivenza fraterna e pacifica, esperienza che mi pare pure nello spirito delle sessioni di Caux, che privilegiano la testimonianza personale all’esposizione teorica. L’arte di amare A 60 anni dagli inizi dell’esperienza del Movimento dei Focolari che rappresento, si rinnova sempre la sorpresa nel vedere come il sentiero spirituale sul quale Dio ci ha condotto si incrocia con tutte le altre vie spirituali dei cristiani ma anche di fedeli di altre religioni. In pratica di diventare partner di essi nel cammino della fraternità e della pace. Pur mantenendo la nostra identità, ci permette di incontrarci e comprenderci con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. In altre parole, in obbedienza e in ascolto dello Spirito, ci è stato insegnato come mettere in pratica con successo quella parola che è iscritta nel DNA di ogni uomo e di ogni donna, perché creati ad immagine di Dio-Amore, Dio Padre: amare, amare il prossimo, amare i fratelli. Quella parola, la sola, che può fare dell’umanità una famiglia. Amore, non come in genere lo si può pensare, ma quel comportamento che ha imprescindibili esigenze. Quell’amore che, se per i cristiani è addirittura una partecipazione all’amore stesso che è in Dio, non manca nei Sacri Libri delle altre religioni. Il primo passo per noi, la prima illuminazione, su questo nuovo stile di vita fu durante la seconda guerra mondiale. Di fronte al crollo degli ideali e alla perdita di tutti i nostri beni materiali, sentivamo di doverci aggrappare a qualcosa che non passa e che nessuna bomba potesse distruggere: Dio. Lo scegliemmo come unico ideale della nostra vita credendo nonostante tutto al Suo amore di Padre, amore verso tutti gli uomini della terra. Ma è ovvio che non bastava credere all’amore di Dio; non bastava aver fatto la grande scelta di Lui come Ideale della vita. La presenza e la premura di un padre chiamava ognuno ad essere figlio, ad amare a sua volta il padre, ad attuare giorno dopo giorno quel particolare disegno d’amore che il Padre ha su ciascuno, a fare cioè la Sua volontà. E si sa che la prima volontà di un padre è che i figli, tutti i figli, si trattino da fratelli, si vogliano bene, si amino. E vuole che amiamo, come fa Lui, tutti senza distinzione. Non c’è da scegliere fra simpatico o antipatico, bello o brutto, bianco o nero o giallo, europeo o americano, cristiano o ebreo, musulmano o indù… L’amore non conosce “alcuna forma di discriminazione”. Questa stessa fede nell’amore che Dio porta alle sue creature l’abbiamo trovata pure in tanti fratelli e sorelle di altre religioni, a iniziare da quelle abramiche che affermano l’unità del genere umano, la cura che Dio ha per tutta l’umanità e il dovere di ogni creatura umana di agire come il Creatore con immensa misericordia verso tutti. Dice un detto musulmano: “Dio perdona cento volte, ma riserva la Sua suprema misericordia per colui la cui pietà avrà risparmiato la più piccola delle Sue creature” . E che dire della sconfinata compassione per ogni essere vivente insegnata dal Budda, che diceva ai suoi primi discepoli: “O Monaci dovreste operare per il benessere di tanti, per la felicità di tanti, mossi da compassione per il mondo, per il benessere (…) degli uomini” . Per un cristiano inoltre tutti vanno amati, perché in ognuno si ama Cristo. Lo dirà Lui stesso un giorno: “L’hai fatto a me” (cf Mt 25, 40). Amare tutti, dunque, senza distinzione. Ma c’è un’altra caratteristica di quest’amore che è molto conosciuta, riportata in tutti i Libri Sacri, e che da sola basterebbe, se vissuta, a fare di tutto il mondo una grande famiglia: amare come si ama sé, fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. E’ la cosiddetta “regola d’oro”, della quale si fa menzione anche nella presentazione di questo seminario. Essa è tanto bene espressa da Gandhi quando ha affermato: “Tu ed io non siamo che una sola cosa: non posso farti del male senza ferirmi”. Nella tradizione musulmana si conosce così: “Nessuno di voi è vero credente se non desidera per il fratello ciò che desidera per se stesso” . Il Vangelo l’annuncia in questo modo: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12). E Gesù commenta: “questa infatti è la Legge ed i Profeti” (Ibid). In questa semplice norma, seminata dallo Spirito in tutte le religioni, vi è dunque il concentrato di tutti i comandi di Dio. Conviene allora fare grande calcolo di essa nel dialogo interreligioso. Da questa regola – che a ragione è chiamata “d’oro” – scaturisce una norma che da sola, se applicata, sarebbe il più grande motore dell’armonia fra individui e gruppi. Un altro modo che insegna come mettere in pratica il vero amore degli altri è espresso da una formula semplice, fatta di due sole parole: farsi uno. Farsi uno con gli altri significa far propri i loro pesi, i loro pensieri, le loro sofferenze e le loro gioie. Il “farsi un o” vale anzitutto nel dialogo interreligioso. E’ stato scritto: “Conoscere la religione dell’altro implica entrare nella pelle dell’altro, vedere il mondo come l’altro lo vede, penetrare nel senso che ha per l’altro essere buddista, musulmano, indù, ecc.” Questo “vivere l’altro” abbraccia tutti gli aspetti della vita ed è la massima espressione dell’amore, perché vivendo così si è morti a se stessi, al proprio io e ad ogni attaccamento; si può realizzare quel “nulla di sé” cui aspirano le grandi spiritualità e quel vuoto d’amore che si realizza nell’atto di accogliere l’altro; “farsi uno” significa mettersi di fronte a tutti in posizione di imparare, e si ha sempre da imparare realmente. Un’ulteriore esigenza di questo amore è forse la più impegnativa di tutte. Mette alla prova l’autenticità dell’amore, la sua purezza, e perciò la sua reale capacità di generare l’unità tra gli uomini e la fratellanza universale. Si tratta di amare per primi e cioè di non aspettare che l’altro faccia il primo passo; di essere i primi a muoversi, a prendere l’iniziativa. Questo modo di amare ci espone in prima persona, ma, se vogliamo amare, a immagine di Dio e sviluppare questa capacità di amore, che Dio ha messo nei nostri cuori, dobbiamo fare come Lui, che non ha aspettato di essere amato da noi, ma ci ha dimostrato da sempre e in mille modi che Egli ci ama per primo, qualunque sia la nostra risposta. Noi siamo stati creati in dono gli uni per gli altri e realizziamo questo nostro essere impegnandoci per i nostri fratelli e sorelle con quell’amore che viene prima di ogni gesto d’amore dell’altro. Questo ci insegnano con la loro vita tutti i grandi fondatori di religioni. Gesù ne ha dato l’esempio; Egli che ha detto: “Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli altri” (Cf Gv 15,13), l’ha data veramente. E l’ha data per noi peccatori e non certo amanti. Quando poi l’amare per primi è vissuto insieme da due o più persone, si ha l’amore vicendevole, principio e fondamento sicuro della pace e dell’unità del mondo. La nostra esperienza ci dice che per chi si accinge oggi a spostare le montagne dell’odio e della violenza, il compito è immane. Ma ciò che è impossibile a milioni di uomini isolati e divisi, pare diventi possibile a gente che ha fatto dell’amore scambievole, della comprensione reciproca, dell’unità, il movente essenziale della propria vita. E tutto questo ha un perché, una chiave segreta e un nome. Quando entriamo in dialogo fra di noi delle più varie religioni, quando cioè ci apriamo l’un l’altro nel dialogo fatto di benevolenza umana, di stima reciproca, di rispetto, di misericordia, ci apriamo anche a Dio e “facciamo in modo – sono parole di Giovanni Paolo II – che Dio sia presente in mezzo a noi” . Ecco il grande frutto del nostro amore scambievole e la forza segreta che dà vigore e successo ai nostri sforzi per portare ovunque l’unità e la fratellanza universale. E’ quello che il Vangelo annunzia ai cristiani quando dice che se due o più persone si uniscono nell’amore vero, Cristo stesso è presente fra di loro e quindi in ciascuno di loro. E quale garanzia migliore della presenza di Dio, quale possibilità superiore può esistere per coloro che vogliono essere strumenti di fraternità e di pace? Questo amore reciproco, questa unità, che dà tanta gioia a chi la mette in pratica, chiede comunque impegno, allenamento quotidiano, sacrificio. E qui appare, in tutta la sua luminosità e drammaticità, nel linguaggio cristiano, una parola che il mondo non vuole sentire pronunciare, perché ritenuta stoltezza, assurdità, non senso. Questa parola è: croce. Non si fa nulla di buono, di utile, di fecondo al mondo senza conoscere, senza sapere accettare la fatica, la sofferenza, in una parola senza la croce. Non è uno scherzo impegnarsi a vivere sempre il reciproco amore, a portare la pace e suscitare la fratellanza! Occorre coraggio, occorre saper patire. Ora ciò che ho spiegato non è un’utopia. E’ una realtà vissuta da più di mezzo secolo da milioni di persone, esperienza pilota di quella fratellanza universale e di quell’unità alla quale tutti aneliamo. Per via di questo modo di amare si sono aperti nel nostro Movimento fecondi dialoghi: fra cristiani di molte Chiese, fra credenti di diverse religioni, e fra persone delle più varie culture. E insieme ci si avvia a quella pienezza di verità cui tutti tendiamo. L’esperienza di dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari Ed ora mi soffermerei in particolare sulle occasioni di incontro che abbiamo avuto, fin dagli inizi, con fratelli e sorelle di altre fedi religiose. La prima forte esperienza da noi fatta è stata quella a contatto con i Bangwa, una tribù camerunense radicata nella religione tradizionale, quasi sterminata dalla mortalità infantile, che stavamo iniziando ad assistere. Un giorno il loro capo, il Fon, e le migliaia di membri del suo popolo, si sono radunati, per una festa, in una grande radura in mezzo alla foresta, per donarci i loro canti e le loro danze. Ebbene: è stato lì che ho avuto la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti, noi e loro, con il suo amore. Per la prima volta, nella mia vita, ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana. Ma l’evento in qualche modo “fondante” di questo nostro dialogo è avvenuto a Londra nel 1977 ad una cerimonia per l’assegnazione del Premio Templeton per il Progresso della Religione. Vi avevo tenuto un discorso e quando stavo uscendo dalla sala, i primi venuti a salutarmi sono stati ebrei, musulmani, buddisti, sikhs, indù… Lo spirito cristiano di cui avevo parlato li aveva impressionati, cosicché mi è stato chiaro che avremmo dovuto occuparci non solo della nostra e delle altre Chiese, ma anche di questi fratelli e sorelle di altre fedi. Ha avuto inizio così il nostro dialogo interreligioso. Due anni dopo, infatti, è avvenuto l’incontro con una grande personalità buddista, il Rev. Nikkyo Niwano, fondatore della Rissho Kosei-kai, che mi ha invitato a Tokyo, a parlare sempre della mia esperienza spirituale a diecimila buddisti. Da allora fra focolarini e seguaci della Rissho Kosei-kai è nata una grande fratellanza dovunque nel mondo si incontrano. Ma gli incontri più sorprendenti con il buddismo sono avvenuti con degli eminenti rappresentanti del monachesimo tailandese. Durante un loro prolungato soggiorno nella nostra cittadella internazionale di Loppiano, in Italia, dove i suoi 800 abitanti cercano di vivere con fedeltà il Vangelo, due di loro sono stati profondamente toccati dall’unità fra tutti e dall’amore cristiano che non conoscevano. E sono venuti meno così pregiudizi che impedivano un vero dialogo fra loro buddisti e noi cristiani. Questi monaci, tornati in Tailandia, non hanno perduto occasione per raccontare, a migliaia di fedeli e a centinaia di monaci, la loro esperienza di incontro col Movimento dei Focolari. E’ nato così, se si può dire, un Movimento buddista-focolarino e cioè buddista-cristiano che è una delle porzioni di fraternità che stiamo edificando nel mondo. In seguito sono stata invitata in Tailandia in una loro Università buddista e in un loro Tempio a parlare a monache, a monaci ed a molti laici e laiche. Anche qui l’interesse è stato notevole, mentre noi siamo stati edificati da quel distacco da tutto che li distingue, dalla loro ascetica. E il dialogo con l’Islam? Sono ora 6.500 gli amici musulmani che appartengono al nostro Movimento, e ciò che ci lega ad essi è sempre la nostra spiritualità, in cui trovano incentivi e conferme per una più profonda, vissuta aderenza al cuore della spiritualità islamica. Abbiamo tenuto vari incontri degli amici musulmani. E ciò che ha caratterizzato questi convegni è stata anzitutto la presenza di Dio che si avverte specie quando pregano e che dà tanta speranza. Speranza che ho visto divenire realtà personalmente nella Moschea Malcolm Shabazz di Harlem (USA), sei anni fa, davanti a 3.000 musulmani afroamericani, ai quali sono pure stata invitata ad esporre ancora la mia esperienza cristiana. La loro accoglienza, a cominciare da quella del loro leader l’Imam W.D. Mohammed, è stata così calda, sincera ed entusiasta da aprire il cuore ai più promettenti sogni per il futuro. Sono tornata, poi, negli Stati Uniti, a Washington, tre anni fa, per presentare a molti la nostra collaborazione in occasione di una Convention organizzata da loro e che ha visto riunite settemila persone, cristiani e musulmani. In un’esultanza non semplicemente umana, in un abbraccio sincero, con un applauso senza fine, ci siamo promessi di proseguire il nostro cammino nella più piena unione possibile e di allargarlo ad altri: ed ecco così altri brani di fraternità. Non posso poi non citare gli incontri sempre più frequenti con sorelle e fratelli ebrei nello Stato d’Israele e altrove. L’ultimo da parte mia è avvenuto a Buenos Aires, con una delle loro più numerose comunità, seguito poi da altri membri del Movimento, in diverse occasioni. E’ stato con grande commozione che ci siamo scambiati un patto di amore scambievole, così profondo e sentito, da aver l’impressione di superare di colpo secoli di persecuzioni e di incomprensioni. Negli ultimi tre anni è iniziato un promettente dialogo in India anche con gli indù. Abbiamo contatti fraterni ed intensi con Movimenti Gandhiani nel sud di questa immensa nazione. A Mumbai un profondo dialogo è nato con professori dell’Università Somaiya e dell’Istituto Culturale Indiano. Più recentemente è incominciato un rapporto con un Movimento molto grande, Swadhyaya, che ha gli stessi scopi nostri dell’unità nella diversità e la fratellanza. Un anno fa, abbiamo anche tenuto un primo Simposio indù-cristiano. L’atmosfera che si è creata è stata così bella e alta che abbiamo potuto partecipare loro tante verità della nostra fede. L’impressione che ne abbiamo avuto è che ci si spalanca davanti un orizzonte che non immaginavamo. Pochi mesi or sono, sono tornata in India e abbiamo potuto continuare questo dialogo a livello della spiritualità che – a dire delle autorità della mia Chiesa – “è il culmine delle diverse forme di dialogo e risponde alle più profonde attese degli uomini di buona volontà” . Abbiamo ora in programma altri Simposi simili, buddista-cristiano e islamo-cristiano. Per l’espansione universale del nostro Movimento siamo in contatto con tutte le principali religioni del mondo e sono circa 30.000 i membri di queste che condividono, sempre come è loro possibile, la spiritualità e gli scopi del Movimento. Come dialogare? Il nostro dialogo interreligioso ha avuto un’evoluzione così rapida e feconda perché l’elemento decisivo e caratteristico è stato quell’arte di amare di cui ho parlato prima. Nel clima di amore reciproco che l’attuazione della regola d’oro suscita, si può infatti stabilire il dialogo con i propri partner, dialogo nel quale si cerca di farsi nulla per “entrare”, in certo modo, in loro. “Farsi nulla” o “farsi uno” con gli altri, il che è sinonimo. In queste due semplici parole, alle quali ho già accennato, sta il segreto di quel dialogo che può generare l’unità. “Farsi uno”, infatti, non è una tattica o un modo di fare esterno; non è solo un atteggiamento di benevolenza, di apertura e di rispetto, o un’assenza di pregiudizi. È tutto questo, sì, ma con qualcosa di più. Questa pratica del “farsi uno” esige che si tolga dalla nostra testa le idee, dal cuore gli affetti, dalla volontà ogni cosa, per immedesimarci con l’altro. Non si può entrare nell’animo di un fratello per comprenderlo, per condividere il suo dolore o la sua gioia, se il nostro spirito è ricco di una preoccupazione, di un giudizio, di un pensiero… di qualsiasi cosa. Il ‘farsi uno’ esige spiriti poveri, poveri in spirito per essere ricchi d’amore. E questo atteggiamento importantissimo e imprescindibile ha un duplice effetto: aiuta noi ad inculturarci nel mondo degli altri, venendo così a conoscere la loro cultura ed il loro linguaggio, e predispone gli altri ad ascoltare noi. Abbiamo notato, infatti, che, quando qualcuno muore a se stesso, proprio per “farsi uno” con gli altri, essi rimangono colpiti e chiedono spiegazioni. Possiamo passare così al “rispettoso annuncio” dove, per lealtà davanti a Dio, per quella verso se stessi, ed anche per sincerità davanti al prossimo, diciamo quanto la nostra fede afferma sull’argomento di cui si parla, senza con ciò imporre nulla all’altro, senza ombra di proselitismo, ma per amore. Ed è il momento in cui, per noi cristiani, il dialogo sfocia nell’annuncio del Vangelo. Il nostro lavoro con tanti fratelli e sorelle delle grandi religioni e la fraternità che sperimentiamo con essi ci ha convinto che il pluralismo religioso dell’umanità può perdere sempre più la sua valenza negativa come fomite di divisioni e di guerre per acquistare, nella coscienza di milioni di uomini e donne, il sapore di una sfida: quella di ricomporre l’unità della famiglia umana, perché in tutte le religioni è, in qualche modo, presente e attivo lo Spirito Santo, non solo nei singoli membri ma anche all’interno di ogni tradizione religiosa. Parlando del meraviglioso avvenimento di Assisi, Giovanni Paolo II lo ha definito “manifestazione mirabile di quell’unità che ci lega al di là delle differenze e divisioni.” . Riempiamo, allora, il nostro cuore dell’amore vero. Per esso tutto possiamo sperare in ordine all’unità fra i fedeli delle grandi religioni e alla fraternità vissuta da tutta l’umanità. Grazie del loro ascolto. Che Dio ci abbracci tutti col suo amore». Chiara Lubich (altro…)

Iniziative e cambiamento

L’ex-presidente della Croce Rossa Internazionale è oggi presidente della Fondazione svizzera “Caux – Iniziative e Cambiamento” nonché dell’associazione internazionale Iniziative e Cambiamento. Tutti e due sono emerse dal preesistente Gruppo di Oxford e sono, nelle parole di Sommaruga, “come il Movimento dei Focolari, un prodotto della Seconda Guerra Mondiale”.

Nel 1938, quando gli Stati si preparavano alla guerra, il fondatore del Movimento, Frank Buchmann, invitò a un “riarmo morale e spirituale” per “un mondo senza odio, paura e avarizia”. Dopo la fine della guerra il Movimento sostenne sotto il nome di “Riarmo Morale (MRA)” il processo di riconciliazione dei vecchi nemici, primi tra tutti Germania e Francia. Oggi “Iniziative e Cambiamento” consiste di una rete di persone delle più diverse culture, religioni e generazioni, che si sono impegnate nel processo sempre necessario del “rinnovamento del mondo”. A Caux, sopra Montreux (VD) ogni anno a “Caux-Palace” si svolgono vari seminari su diversi temi. Quest’anno, fra l’altro, “Dal conflitto alla comunione”, “Il fattore spirituale-religioso in una società laica”, “Iniziative di pace”, e “Sicurezza umana per la prevenzione dei conflitti”. A cura di Beatrix Lederberger-Baumer per l’agenzia KIPA, 3 agosto 2003 (altro…)

luglio 2003

Dell’albero ammiriamo fronde e fiori e ne attendiamo i frutti, ma vi sono le radici da cui l’albero trae vita. Così è di ognuno di noi. Siamo chiamati a donare, ad amare, a servire, a creare rapporti di fraternità, a lavorare per costruire un mondo più giusto. Ma occorrono le radici, ossia la vita interiore dell’unione con Dio, il nostro personale rapporto d’amore con lui che motiva e alimenta la vita di comunione fraterna e l’impegno nel sociale.
È ugualmente vero che l’amore verso l’altro nutre a sua volta l’amore per Dio e lo rende più vivo e concreto, così come è vero che la luce e il calore, attraverso le foglie, irrobustiscono le radici. Amore di Dio e amore del prossimo sono espressioni di un unico amore. Vita intima e vita esterna sono l’una dell’altra radice.
La Parola di vita scelta per questo mese ci invita tuttavia a coltivare con particolare cura la vita intima, soprattutto mediante il raccoglimento, la solitudine, il silenzio, così da andare in profondità nel rapporto personale con Dio. Anche a noi Gesù ripete quello che disse un giorno ai suoi discepoli vedendoli affaticati per il molto donarsi agli altri:

«Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’»

Gesù stesso ogni tanto si allontanava dalle sue molte occupazioni. C’erano malati da guarire, folle da istruire e da sfamare, peccatori da convertire, poveri da aiutare e da consolare, discepoli da guidare… Eppure, benché tutti lo cercassero, egli sapeva ritirarsi, fuori dall’abitato, sulla montagna, per stare solo col Padre. Era come se tornasse a casa. Nel suo colloquio personale e silenzioso trovava le parole che avrebbe poi detto alla sua gente, comprendeva meglio la sua missione, riprendeva le forze per affrontare il nuovo giorno. Così vuole che facciamo anche noi:

«Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’»

Non è facile fermarsi. A volte siamo presi dal vortice del lavoro e delle attività, come in un ingranaggio di cui abbiamo perduto il controllo. La società ci impone spesso un ritmo di vita frenetico: produrre sempre di più, avanzare nella carriera, primeggiare… Non è facile affrontare la solitudine e il silenzio fuori e dentro di noi; eppure sono condizioni necessarie per ascoltare la voce di Dio, per confrontare la nostra vita con la sua Parola, per coltivare e approfondire il rapporto d’amore con lui. Senza questa linfa interiore rischiamo di girare a vuoto e il nostro molto daffare può rimanere infruttuoso.
Ecco allora la necessità di periodi, se pur brevi, di riposo fisico e mentale anche per evitare lo stress. A volte ci sembrerà di perdere tempo, eppure anche in questo dobbiamo fidarci dell’invito di Gesù:

«Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’»

Gesù si portò i discepoli in disparte perché stessero con lui e in lui trovassero riposo: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. (…) e troverete ristoro per le vostre anime» . Il miglior riposo è prendersi il tempo per “stare” con Gesù, vivere in grazia, nell’amore, lasciandosi plasmare e guidare dalla sua Parola. Specialmente prima della preghiera, momento privilegiato dello “stare con lui”, è bene staccarsi da tutto, riposare un po’, raccogliersi, entrare nel segreto e nel silenzio della nostra stanza interiore. Non dobbiamo misurare il tempo nella preghiera. Lì più ne perdiamo più ne guadagniamo. Sarà come un tuffarci nell’unione con Dio e troveremo la pace. Potremo così arrivare al colloquio ininterrotto con lui, ad un raccoglimento costante, anche al di là del tempo riservato alla preghiera. È la mia esperienza di tanti anni.

Una volta scrissi:

“… Signore!
Nel cuore ti tengo
è il tesoro che deve informar le mie mosse.
Tu seguimi, guardami, è tuo
l’amare: gioire e patire.
Nessuno raccolga un sospiro.
Nascosta nel tuo tabernacolo
vivo, lavoro per tutti.
Il tocco della mia mano sia tuo,
sol tuo l’accento della mia voce..
.”.

Pure quando non ci è possibile allontanarci dal chiasso e dal vortice del mondo che ci circonda, possiamo andare in fondo al cuore, in cerca di Dio, ed egli è sempre lì. Basterà a volte dire: “E’ per te, Gesù”, prima di ogni attività o di un incontro. È anche questo un modo per ritirarsi un po’ in disparte e dare a tutto un motivo, un’intonazione soprannaturale. E offrirgli ogni dolore, piccolo o grande.
La comunione con lui si perfezionerà. Anche il fisico ne troverà beneficio e sarà possibile tornare rinfrancati alla nostra attività, e amare con maggiore slancio.

Chiara Lubich

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Il dialogo: chiave di volta per costruire l’unità

Il dialogo: chiave di volta per costruire l’unità

“Il cristianesimo, nonostante la crisi spirituale in cui versa oggi la civiltà umana, è capace di rinnovarsi continuamente”. In queste parole del Rettore dell’Università Statale slovacca di Trnava, Prof. Peter Blaho, è racchiuso il significato più profondo della solenne cerimonia svoltasi questa mattina non nell’Aula Magna dell’Ateneo, ma nella grande sala del Centro Mariapoli di Castelgandolfo, dove le massime autorità accademiche dell’Università hanno conferito a Chiara Lubich la laurea honoris causa in Teologia.

Sul palco campeggiavano le bandiere slovacca, europea e italiana. Un’immagine eloquente. La Slovacchia infatti è tra i 10 Paesi che entreranno in Europa nel maggio 2004. Dagli interventi emergevano le radici cristiane, tuttora vitali, della cultura slovacca che ha dato vita all’Università di Trnava, nel lontano 1635. Le parole del Decano della Facoltà di Teologia, prof. Ladislav Csontos, che ha promosso questo riconoscimento, rivelavano l’eroismo vissuto sotto il regime comunista sia dai docenti dell’Istituto di teologia – fondato dai gesuiti, poi inglobato dal 1992 nell’Università di Trnava – sia dagli studenti, per lo più sacerdoti e religiosi ordinati clandestinamente. E’ emersa l’intensa attività che ha permesso, nonostante il regime, di alimentare gli studi con gli insegnamenti del Concilio Vaticano II. Di qui lo stile di dialogo assunto dalla facoltà a tutti i livelli: nelle attività didattiche, con seminari scientifici interdisciplinari, con conferenze e pubblicazioni.

“Per questi motivi – ha detto il decano, che ha delineato la figura e l’opera della neo-laureata – la teologia dell’unità e del dialogo di Chiara Lubich è molto vicina alla nostra facoltà e il suo contributo è per noi il motivo principale per proporre questo riconoscimento”. Ha definito la fondatrice dei Focolari “personaggio-chiave del movimento ecumenico e del dialogo interreligioso”. Ed ha ricordato che “la sua opera si è fatta presente in Slovacchia con il Movimento che aveva messo radici già nei tempi del regime comunista, portando a chi vi ha aderito grande sostegno spirituale e nella vita della Chiesa locale, lo spirito del Concilio Vaticano II”. Il Rettore dell’Università aveva parlato delle “strade” e dei “modelli nuovi” nei rapporti interpersonali aperti da Chiara Lubich, con riflessi innovativi anche nel campo economico, politico e culturale, sulla base del dialogo da lei promosso poggiandosi sul comandamento evangelico dell’amore. “Occorre costruire l’unità del mondo su questo fondamento spirituale – ha affermato – se non vogliamo perire”. Nella sua lezione magistrale, Chiara Lubich ha comunicato le radici profonde di questo dialogo che affondano nella stessa vita trinitaria. Ne ha mostrato il dinamismo: “si manifesta – ha detto – come incondizionato reciproco dono di sé, mutuo annullamento, totale comunione”. Esige un “nulla d’amore”, quel “’non essere’ che rivela l’Essere come Amore”. Ne ha mostrato la forza di trasformazione nella vita della famiglia, nei vari ambiti della società, nella vita della Chiesa, in campo ecumenico e interreligioso.

E’ dunque un intrecciarsi di culture diverse, di carismi antichi e nuovi, quello emerso da questo avvenimento. E avrà una continuità. E’ una promessa solenne richiesta alla neo-laureata di “non far mancare all’Università di Trnava l’autorevole aiuto del suo consiglio, e di continuare a far conoscere la verità nella cui luce è racchiusa la salvezza del genere umano”.

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Dalla Slovacchia, laurea h.c. in Teologia a Chiara Lubich

Dalla Slovacchia, laurea h.c. in Teologia a Chiara Lubich

Conferendo il titolo di “doctor honoris causa” alla fondatrice del Movimento dei Focolari, una delle più importanti personalità cristiane del nostro tempo, l’Università di Trnava vuole testimoniare l’orientamento cristiano che la ispira e promuovere nella società slovacca l’apertura al dialogo tra fede e scienza, cultura e politica, perché i conflitti provocati dalle diversità culturali e politiche si compongano in arricchimento e progresso sociale. Questo alto riconoscimento a Chiara Lubich, approvato all’unanimità dal Senato accademico, è stato proposto dalla Facoltà di Teologia per la profonda consonanza tra i valori da lei incarnati e la tradizione dell’Universitas Tyrnaviensis, la prima università slovacca, fondata nel 1635, improntata ai valori spirituali e alla libertà di pensiero, attinti alle radici storiche del popolo slovacco, cioè i valori del cristianesimo, della cultura europea e della democrazia.

In questi ultimi dieci anni, l’Università di Trnava, da quando ha ripreso la sua attività, mette in luce quelle personalità che hanno contribuito in modo eccelso allo sviluppo e all’affermazione di questi valori nella società. (dal Comunicato Stampa dell’Università di Trnava)   (altro…)

Io sono ateo, ma tu devi essere matto

Un giorno viene a trovarmi un amico che mi confida un grosso dolore: i suoi genitori sono sull’orlo del divorzio, in seguito a una sbandata del papà durante un viaggio di lavoro all’estero. Oltre al dolore di vedere venir meno l’amore tra i suoi genitori, gli risulta insopportabile il pensiero che qualcun altro deciderà con quale genitore dovrà andare a vivere, separandosi così dall’unico fratello al quale è oltremodo affezionato.

Sono coinvolto in quella situazione e provo una profonda tristezza che non riesco ad allontanare. Per di più il mio amico non è credente e temo di peggiorare la situazione parlandogli di Dio. Rischierei di non essere capito. Ma come cristiano sento di dover trasmettere a tutti l’amore di Dio, spingendomi oltre ogni confine. Finalmente, con questa luce che rischiara le tenebre, riesco a riconoscere in C. il volto di Gesù crocifisso e abbandonato, e trovo la forza di dirgli: “Io, da cristiano, donerei a Dio il mio dolore; rimetterei il problema nelle sue mani, perché la sua volontà possa compiersi bene, con la fiducia che qualsiasi cosa mi riserverà il futuro, sarà il meglio per me“. La sua risposta è stata: “Io sarò ateo, ma tu devi essere proprio matto! “. Non mi perdo d’animo e insisto: “Coraggio, vale la pena provare; di’ semplicemente a Gesù: ‘Questo dolore lo metto nelle tue mani’; e poi sta sereno in attesa che gli eventi maturino“. Prima di tornare a casa, gli dico che può telefonarmi in ogni momento, se ha bisogno d’aiuto. Quando se ne va, la tempesta del suo cuore non è certamente placata. Il giorno successivo, con mia grande gioia, mi telefona dicendo di essersi trovato, costretto dalla disperazione, a donare a Dio il suo dolore. Lo sento più sollevato. Dopo altri due giorni, ricevo una seconda telefonata nella quale mi dice che non ci sarà né la separazione dal fratello, né il divorzio. La mamma ha trovato al forza di perdonare il papà e si sono riconciliati. S.D. – Italia – da I fioretti di Chiara e dei Focolari Ed. San Paolo (altro…)

giugno 2003

Sono le parole che Gesù risorto rivolge agli apostoli prima di salire al Cielo. Aveva compiuto la missione che il Padre gli aveva affidato: era vissuto, morto e risorto per liberare l’umanità dal male, riconciliarla con Dio, unificarla in una sola famiglia. Ora, prima di tornare al Padre, affida ai suoi apostoli il compito di continuare la sua opera e di essergli testimoni nel mondo intero.
Gesù sa bene che l’impresa è infinitamente al di sopra delle loro capacità, per questo promette lo Spirito Santo. Quando lo Spirito scenderà su di loro a Pentecoste trasformerà i semplici e timorosi pescatori di Galilea in coraggiosi annunciatori del Vangelo. Niente potrà più fermarli. A quanti vorranno impedire la loro testimonianza, risponderanno: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato”.

Attraverso gli apostoli, Gesù affida il compito della testimonianza alla Chiesa intera. E’ l’esperienza della prima comunità cristiana di Gerusalemme che, vivendo “con letizia e semplicità di cuore”, ogni giorno attirava nuovi membri . E’ l’esperienza dei membri della prima comunità dell’apostolo Giovanni, che annunciavano ciò che avevano udito, ciò che avevano veduto con i loro occhi, ciò che avevano contemplato e ciò che le loro mani avevano toccato, ossia il Verbo della vita…
Con il battesimo e la cresima anche noi abbiamo ricevuto lo Spirito Santo che ci spinge a testimoniare e annunciare il Vangelo. Anche a noi Gesù assicura:

«Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su voi…»

E’ lui il dono del Signore risorto. Abita in noi come nel suo tempio e ci illumina e ci guida. E’ lo Spirito di verità che fa comprendere le parole di Gesù, le rende vive e attuali, innamora della Sapienza, suggerisce le cose che dobbiamo dire e come dobbiamo dirle. E’ lo Spirito d’Amore che infiamma del suo stesso amore, rende capace di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, le forze, e di amare quanti incontriamo sul nostro cammino. E’ lo Spirito di fortezza che dà il coraggio e la forza per essere coerenti con il Vangelo e testimoniare sempre la verità. Soltanto con il fuoco dell’amore che egli infonde nei nostri cuori possiamo adempiere la grande missione che Gesù ci affida:

«(…) mi sarete testimoni (…)»

Come testimoniare Gesù? Vivendo la vita nuova che egli ha portato sulla terra, l’amore, e mostrandone i frutti. Debbo seguire lo Spirito Santo che, ogniqualvolta incontro un fratello o una sorella, mi fa pronta a “farmi uno” con lui o con lei, a servirli alla perfezione; che mi dà la forza di amarli se in qualche modo nemici; che mi arricchisce il cuore di misericordia per saper perdonare e poter capire le loro necessità; che mi fa zelante nel comunicare, quando è l’ora, le cose più belle del mio animo…
Attraverso il mio amore è l’amore di Gesù che si rivela e si trasmette. E’ un po’ come una lente che raccoglie i raggi del sole: avvicinando ad essa uno stelo, questo si accende perché, col concentrarsi dei raggi, la temperatura diventa più forte. Se invece si mette direttamente lo stelo di fronte al sole, questo non si accende. Così è a volte per le persone. Di fronte alla religione sembrano rimanere indifferenti, ma a volte – perché così Dio vuole – di fronte ad una persona che partecipa dell’amore di Dio, si accendono, perché essa fa da lente che raccoglie i raggi e accende e illumina.
Con e per quest’amore di Dio in cuore si può arrivare lontano, e partecipare a moltissime altre persone la propria scoperta:

«(…) fino agli estremi confini della terra»

I “confini della terra” non sono soltanto quelli geografici. Essi indicano anche, ad esempio, persone vicine a noi che non hanno avuto ancora la gioia di conoscere veramente il Vangelo. Fin lì deve spingersi la nostra testimonianza.
Vogliamo poi vivere la “regola d’oro”, presente in tutte le religioni: fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi.
Per amore di Gesù ci è domandato di “farci uno” con ognuno, nel completo oblìo di sé, finché l’altro, dolcemente ferito dall’amore di Dio in noi, vorrà “farsi uno” con noi, in un reciproco scambio di aiuti, di ideali, di progetti, di affetti. Solo allora potremo dare la parola, e sarà un dono, nella reciprocità dell’amore.
Che Dio ci faccia suoi testimoni davanti agli uomini affinché in Cielo, Gesù – come ci ha promesso – testimoni di noi davanti al Padre suo.

Chiara Lubich
 

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Kirchentag ecumenico

Kirchentag ecumenico

Presso il monumento simbolo di Berlino, la porta di Brandeburgo, si è aperto, giovedì 28 maggio, il primo Kirchentag ecumenico nazionale, con una liturgia principale presieduta dall’arcivescovo cattolico, cardinale Georg Sterzinsky, e dal vescovo luterano della città e del Land Brandeburgo, Wolfgang Huber. L’evento è storico. Per il luogo, per le dimensioni, per la spinta ecumenica dal basso che i quasi 200mila partecipanti vogliono dare. Presenti le massime autorità: dal presidente federale Johannes Rau al cancelliere Gerhard Schroeder, al sindaco Klaus Wowereit. Molto significativo quel che accade già un’ ora prima della liturgia. Aprendo il programma il presentatore dice: “Finalmente, finalmente, il momento tanto desiderato …”. Non può continuare, perché dalla folla si alza un grido di giubilo quasi una esplosione dei desideri di tutti, delle attese, delle speranze, dei dolori passati … “Il tempo era maturo”, è il pensiero che passa per la mente, vedendo la gente attorno ed ascoltando questo grido di gioia. Quando poi inizia la liturgia si alternano momenti di gioia, di entusiasmo, con un profondissimo raccoglimento. È ben presente la consapevolezza che il centro di tutto è Cristo stesso.

Johannes Rau, Presidente della Germania sottolinea l’importanza di un tale evento nella terra da dove è partita la riforma: “Ciò che accade qui in questi giorni è importante per tutta la società, molto oltre le Chiese cristiane.” Interrotto da tanti applausi il messaggio del Papa, tenuto in un linguaggio proprio “evangelico”: “Il Kirchentag deve diventare un grande segno ecumenico per il fatto che la comunione nella fede è più forte e più importante di quanto ci divide ancora.” Incoraggia poi ad alzare insieme la voce in difesa dei valori della famiglia e della vita. Poi passa alle sofferenze che ci sono ancora per la mancante unità tra i cristiani. “È necessario ripensare alla base della nostra fede. Sono contento che l’ Ökumenischer Kirchentag riprende ‘l’anno della Bibbia’ (iniziativa ecumenica di quest’anno in Germania). Vi incoraggio a pregare con la Bibbia, a leggere e meditare la parola di Dio ed a interpretare la nostra vita dal messaggio che Dio ci ha rivelato ed che è stato tramandato dalla comunità dei fedeli attraverso i secoli.” Sottolinea la necessità di conversione come condizione all’ecumenismo:“Dio vuole che siamo uno, affinché il mondo creda!”, e incoraggia a continuare tutti gli sforzi sul cammino ecumenico “con sensibilità e rispetto, con pazienza e coraggio, rispettando la verità e con autentico amore.” E conclude: “Se vi mettete insieme sotto la benedizione di Dio, allora potrete diventare ancora di più benedizione: gli uni per gli altri e per il mondo, soprattutto dove esso soffre ed è straziato.” Prende poi la parola Gerhard Schröder, cancelliere della Germania: “Nonostante la secolarizzazione, partirà un segnale da Berlino in questi giorni: la Chiesa è viva, è vitale. Ed è attraente soprattutto per giovani.” La folla passa per il Brandenburger Tor. Tanti esprimono la speranza che questo sia un atto simbolico per far crollare anche quel muro invisibile che divide ancora le nostre Chiese. La sera segue una grandissima festa per le strade del centro di Berlino organizzato dalle parrocchie ed altri gruppi, movimenti ed associazioni.. I cristiani sembra prendano possesso di questa città. E si mostrano in una veste moderna, giovanile, attraente, gioiosa, aperta … Proprio un cristianesimo che può ritornare di moda! Il motto e i 4 campi di interesse Il motto scelto per questi giorni, “Siate una benedizione”, viene approfondito anche nei quattro “campi di interesse” della Giornata Ecumenica delle Chiese: 1. Mostrare la fede – vivere in dialogo 2. Cercare l’unità – incontrarsi nella diversità 3. Rispettare la dignità umana – custodire la libertà 4. Vivere nel mondo – agire con responsabilità Ciascuno di questi “campi di interesse” comprende un grande numero di incontri, preghiere, tavole rotonde, conferenze principali e iniziative varie. Un libretto di 720 pagine illustra il vasto programma di quei giorni. (altro…)

La partecipazione del Movimento dei Focolari

Venerdì 30 (dalle 10.30 alle 12.30, Haus am Köllnischen Park, Sala 1, Am Köllnischen Park 6-7): “Verso una Spiritualità ecumenica” – Esperienze del Centro Ecumenico di Vita di Ottmaring. Oltre ad alcuni abitanti di Ottmaring, partecipano anche: Aldo Giordano, Segretario Generale del Consiglio della Conferenza Episcopale europea; Antje Heider-Rottwilm, Oberkirchenrätin (vescovo della chiesa evangelica), Hannover; Stefan Tobler, teologo riformato Sabato 31 (dalle 9 alle 10 – ICC, sala 1): lettura biblica su Gen. 1,26-2,3 Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari Tavola rotonda, dalle 14,30 alle 17,30, dal titolo: “Ecumenismo mondiale: cosa possiamo imparare dalle esperienze ecumeniche di altri Paesi?” (Fiera, Sala 9, padiglione 22) Tra i progetti presentati: “L’economia di Comunione” Incontro tra movimenti evangelici e cattolici: “La grazia dell’unità e il dono della diversità” organizzato dalla comunità tedesca del Rinnovamento dello Spirito e dal Movimento dei Focolari, dalle 14 alle 17 (Basilica di San Giovanni, Lilienthalstrasse 5, Kreuzberg) Centro di spiritualità Nel Centro di spiritualità, situato nei padiglioni 6 e 7, si può scoprire la diversità delle antiche e nuove spiritualità cristiane. Le nuove comunità ecclesiali si trovano nella sala 6.2b; fra esse: la Comunità dell’Arche di Regensburg, la Comunità Casteller Ring, Christusbruderschaft (Comunità di Cristo, comunità evangelica), il Movimento dei Focolari. Spettacoli Il Gen Rosso, giovedì 29 e venerdì 30, alle ore 21, presenta il Musical “Streetlight” nella sala 9, padiglione 22.

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Ha dato la vita per suo fratello

“Ha dato la vita per suo fratello”. Così i giornali intitolavano il tragico episodio della morte di don Nelson. E così è stato. Era parroco, direttore spirituale del seminario e cappellano dell’ospedale di Armenia, in Colombia. Una nipote che lavorava come sua segretaria racconta: “E’ morto vivendo la Parola del Vangelo: dare la vita per i fratelli. Lui sempre ci diceva che dovevamo vivere per gli altri, non per noi stessi”. I ladri, entrati nella canonica, avevano rinchiuso Nelson in un bagno per non essere disturbati. Suo fratello, sposato con figli, abita a meno di 200 metri dalla canonica. Qualcuno lo avvisa che in parrocchia sta succedendo qualcosa di strano, ed entra di nascosto da una porta secondaria: subito si è visto la pistola puntata. Nelson, sentendo suo fratello, approfitta della confusione, forza la porta del bagno e mettendosi in mezzo tra essi e il fratello dice ai ladri: “Non fategli male!”. I ladri sparano e lo prendono in pieno petto. Era il mattino del 22 marzo. Il giorno dopo, malgrado una bufera tropicale violentissima, la cattedrale era strapiena di gente che piangeva Nelson per l’amore da lui ricevuto. Un amore frutto di una maturità profonda e di una volontà costante, provata fin dai primi anni di vita. Ripercorriamo a grandi tratti la sua storia, attraverso gli stessi ricordi di don Nelson, raccolti qualche anno fa da un’intervista di Città Nuova durante un suo soggiorno in Italia per studiare pastorale sanitaria: «In famiglia eravamo in sette e vivevamo del lavoro di papà, un contadino. Eravamo molto poveri, ma ci affidavamo a Dio e quel po’ che avevamo eravamo lieti di condividerlo con chi aveva più bisogno di noi. Ricorderò sempre un certo melo del nostro orto i cui frutti, saporosissimi, ci erano vietati, essendo riservati esclusivamente agli ammalati della parrocchia». Per Nelson la povertà così vissuta, evangelicamente, si è tramutata in una scuola di vera umanità. Più difficile invece il suo rapporto con la malattia, con cui pure ha dovuto precocemente prendere confidenza: «Avevo sei anni quando, a causa di un virus che attacca il sistema nervoso centrale, sono rimasto paralizzato agli arti per diversi mesi. E’ un male sempre in agguato, che costringe a stare sotto cura continua. Con gli anni si sono aggiunte altre malattie e ho avuto ben quattro interventi agli occhi. Ne so qualcosa quindi di medicine, di terapie, di degenze ospedaliere. Ma allora, essendo così giovane, non capivo gran che il senso di questa sofferenza, che mi impediva di vivere come gli altri miei coetanei, e ne ero piuttosto spaventato». Fidanzato e con la prospettiva di formarsi una famiglia, si sente invece chiamato ad una donazione più universale. Capisce che forse la sua strada è un’altra. Così a 21 anni decide di farsi prete. Nei primi anni di seminario, a Manizales, la salute non sembra creargli problemi. Senonché, finiti gli studi di filosofia e all’inizio dell’anno di esperienza pastorale, un nuovo attacco del suo vecchio male lo costringe in ospedale, paralizzato: «Anche se i medici mi assicuravano che mi sarei ripreso e avrei potuto condurre una vita normale, sono piombato nella crisi più nera: vedevo tutto il mio futuro compromesso». Proprio in questo frangente, grazie ad un sacerdote amico che vive la spiritualità dei Focolari, approfondisce un aspetto della passione di Cristo: il suo abbandono in croce. Identificandosi in lui, riconoscendolo in ogni dolore personale ed altrui e accogliendolo, per amore, nella propria vita, sperimenta una vera rinascita interiore: “Ogni sofferenza fisica e morale ha preso senso per me: di qui una forza interiore insolita, un senso di pace e addirittura di gioia. Avevo scoperto il tesoro più prezioso, e anche se non fossi arrivato ad essere prete, non mi sarebbe mancato nulla per realizzarmi come cristiano». Dal 1983 al 1993 si donerà senza risparmio per la diocesi: viceparroco in una grande parrocchia di 10 mila anime, cappellano ospedaliero, formatore nel seminario maggiore di Armenia, alla cui fondazione ha contribuito. Una tappa fondamentale è quando, non senza aver molto esitato, Nelson decide di attuare un vecchio progetto: quello di frequentare presso il Camillianum di Roma un corso di pastorale sanitaria. E’ una scelta ’preparata’ dall’esperienza fatta finora sulla propria pelle, e inoltre va incontro ad una domanda per lui fondamentale: come vivere in modo “sano”, dal punto di vista spirituale, la malattia, e così pure la morte come passaggio da questa vita all’altra? «Da noi non erano molti i sacerdoti preparati in questo campo, e solo il desiderio di poter servire meglio i miei fratelli ammalati mi ha convinto ad affrontare per due anni, nelle mie condizioni, le incognite di una permanenza oltreoceano». Nell’agosto del ’93, ripresosi alquanto, Nelson inizia i suoi studi romani. Ma non è tutto: vivendo assieme ad un prete argentino e ad uno olandese, ha modo di approfondire anche nella pratica quella spiritualità dell’unità che già l’aveva attratto in Colombia. E’ una esperienza che lo affina, abilitandolo ad un apostolato particolare: quello fra gli ammalati di Aids. Non è facile avere a che fare con loro: sono persone di una sensibilità esasperata, che vivono il loro dramma nella piena consapevolezza di cosa le aspetta, e con cui non si può fingere. Ne conoscerà tanti in questo periodo, e con ognuno una parola, un silenzio, la condivisione profonda del dolore, l’aiuto per riconciliarsi con Dio. Tornando in Colombia Nelson, per desiderio del suo Vescovo, si occuperà di pastorale sanitaria a livello diocesano, ma la sua continua donazione non si è fermata lì. Il dare la vita non si improvvisa, e, come in tanti anni di esperienze con persone le più varie, Nelson ci ha salutato con un ultimo eroico atto d’amore.

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L’amore di Dio anche dietro una malattia

Negli ultimi tempi mi sono ammalata, e anche in questo, come in tanti altri momenti della mia vita ho trovato l’amore abbondante e generoso di Dio. Per la chemioterapia mi sono caduti i capelli. E’ vero che Gesù ha detto “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…”, ma in questi giorni ho sperimentato pure: “Ero senza capelli e mi avete dato i vostri”. Infatti tre giovani hanno tagliato i loro capelli per farmi una parrucca proprio dello stesso colore dei miei.

Alla malattia si aggiunge anche una difficoltà economica, non solo per l’elevato costo delle cure, ma anche perché non posso più svolgere un lavoro che mi era stato offerto, dare alcune lezioni private extra. Il cuore è in preda alla preoccupazione. Cerco di affidare tutto alla Madonna, e dentro Gesù mi chiede di avere fiducia. Sì, la fiducia che anche questa dolorosa prova fisica, i dubbi, le tentazioni, non sono altro che manifestazioni dell’amore di Dio che purifica il mio agire. La risposta è arrivata dopo pochi giorni: il pagamento della licenza di malattia era più alto del mio normale stipendio, e inoltre mi hanno dato una quota in più per quelle lezioni che non ho potuto dare! Era la prova che rimanendo nel suo amore, vivendo le sue parole, potremo chiedere quello che vogliamo e ci sarà dato, era sentirmi un tralcio innestato nella vera vite. Dentro di me un canto si è innalzato a Lui: “E’ impossibile non credere a te, è impossibile non fare di te l’ideale della mia vita”. G. – Brasile da I Fioretti di Chiara e dei Focolari – San Paolo Editrice – p. 27 (altro…)

Il mio nome sulla lista nera

Nessun burundese dimenticherà mai il 1993. L’assassinio del neo-presidente ha scatenato ancor più l’odio etnico, la rabbia, il desiderio di vendetta, specialmente in noi giovani. E anch’io, come tutti – uomini e donne, bambini e adulti – ho dovuto imparare ad usare il fucile, ma c’era una domanda che mi girava continuamente in testa: come cambiare questa situazione? Un giorno, proprio nel mio villaggio, c’è stato uno scontro fra militari del governo e ribelli: cinquanta i morti. Erano amici, gente che vedevo ogni giorno per strada. Non potevo accettarlo, la vendetta mi pareva l’unica soluzione. Dovevo prendere le armi e combattere per difendere la mia gente. Una domenica, per ripararmi dalla pioggia, mi sono rifugiato in chiesa e mi sono trovato in una sala dove si teneva un incontro sulla Parola di Dio. Invitato da qualcuno a trattenermi, ho iniziato ad osservare le persone: erano diverse dalle altre, raccontavano della loro vita che si intrecciava col Vangelo, parlavano di unità, di fraternità, ma soprattutto la vedevo vissuta tra loro. Ero sconvolto, ma volevo provarci, fare mia la sfida dell’amore. Avevo scelto l’università come banco di prova. In quelle aule, che frequentavo tutti i giorni, le divisioni erano più acute a causa della presenza di giovani di tutte le etnie. Tanti avevano perso i loro parenti in guerra e vivevano di odio e vendetta. Studiare in queste condizioni non era certo facile. Nonostante ciò, ogni mattina entrando a lezione salutavo tutti, anche se qualcuno mi prendeva per matto. Ho subìto accuse, critiche anche dalla mia stessa etnia, ero cosciente di muovermi sulle sabbie mobili, ma non ho cambiato il mio comportamento. Volevo dimostrare che il dialogo è più potente delle armi, che l’amore è la soluzione ai nostri problemi. Anche Gesù aveva passato lo stesso: anch’io come Lui volevo dare la mia vita per un mondo più unito. Fuori dall’università, intanto, con i miei amici non avevamo tempo da perdere: amare significava diffondere una cultura di pace, raccogliere vestiario e cibo per i poveri, organizzare momenti di dialogo, feste, incontri sportivi. Tutto per far vedere che vivere da fratelli è possibile. È stato solo due anni dopo che un mio compagno di facoltà ha trovato il coraggio di confessarmi di aver messo anche il mio nome sulla lista dei nemici da eliminare. È stato il mio comportamento a fargli cambiare idea. Ha buttato via la pistola che portava sempre con sé: aveva deciso di cambiare vita. Jovin, Burundi

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Convegno nazionale ’Polo Lionello, casa degli imprenditori’

E’ stata Loppiano, la cittadella internazionale dei Focolari, ad ospitare il 17-18 maggio prossimi, il Convegno nazionale di Economia di Comunione (EdC) dal titolo: “Polo Lionello, casa degli imprenditori” che ha visto la partecipazione di circa 400 tra imprenditori, operatori economici, dipendenti, studenti e professionisti provenienti da tutta l’Italia. Promosso dalla società E. di C. spa, società di gestione del Polo imprenditoriale e dall’Associazione Lionello Bonfanti per una Economia di Comunione, la manifestazione è stata inoltre patrocinata dalla Provincia di Firenze e dal Comune di Incisa in Valdarno.

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Cronaca inedita degli interventi di Maria nella storia

Cronaca inedita degli interventi di Maria nella storia

E’ una cronaca inedita che rivela la forza di pace di Maria in atto nella storia dei popoli, nei momenti di più grave sofferenza, quella che il prof. Tommaso Sorgi, direttore del Centro Igino Giordani presenta al Congresso Mariano. Evidenzia “l’efficacia anche politica del maneggiare come arma la corona del rosario”. Un solo esempio: parla di quanto accaduto nelle Filippine pochi anni fa. A metà degli anni ’80, i vescovi lanciano una campagna di preghiera per la propria conversione, necessaria per ottenere dal Cielo la liberazione dalla dittatura di Marcos. Vi aderiscono 5 milioni di Filippini. Il mondo assiste ad un capovolgimento: “Il dittatore parte in esilio e la rivoluzione del rosario libera il popolo, senza spargimento di sangue”. E’ il Magnificat in atto: Maria magnifica il Signore che “disperde i superbi e rovescia i potenti dai troni…”. Il Magnificat, dunque, “può essere assunto come modello dell’agire politico”. E’ la prospettiva aperta dal prof. Sorgi, proprio oggi, quando si fa urgente “capovolgere le categorie fondamentali del potere”. Sorgi propone “il Magnificat come ’magna charta’ sociale”. Ma quella di Maria – precisa – è una “regalità d’amore”, una “regalità materna”. La politica potrebbe così assumere “il calore di un servizio d’amore”, “l’anima” di cui ha “estremo bisogno”.

“I grandi paesi civili e democratici scelgono la guerra come metodo di risoluzione dei conflitti”. E’ la denuncia forte del prof. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, intervenuto nella seconda giornata del Convegno Mariano internazionale. Pone “un interrogativo che inquieta tutti”: “La guerra sarà di nuovo il futuro del mondo?”. Particolare è la sottolineatura che “la guerra è ancora un’attività in larga parte maschile”. Di qui, il prof. Riccardi mette in luce la forza di pace del “femminile”, mostrando in Maria colei che sotto la croce, “vinta” dalla violenza per l’uccisione del figlio, “nasconde tra le sue lacrime una forza di vita e di speranza” e “non si piega alla logica del vinto e del vincitore, dell’amico e del nemico”. “Il mistero della fede che vediamo in Maria – aggiunge – è che il forte può essere nel debole, il piccolo nel grande, la vita nel corpo della morte”. Oggi “Maria rappresenta la forza della pace in mezzo ai conflitti”. La “sollecitudine materna”, che va incontro alle necessità degli uomini “anche se inespresse”, mostrata da Maria alle nozze di Cana, viene sottolineata da Anna Pelli, con la sua riflessione su questo quadro evangelico, uno dei Misteri della luce che il Congresso sta approfondendo. Questa pagina del Vangelo si trova riflessa nell’esperienza raccontata da Carmen e Maricel. Una famiglia travagliata dal dolore: difficoltà economiche, alcol, droga, tensioni e ripercussioni sui figli, otto. In una baracca alla periferia di Manila. Una storia di resurrezione a partire dalla scoperta dell’amore di Dio e di Maria come modello da imitare. Carmen, la mamma, racconta come la sua vita è cambiata da quando è stata assunta al centro sociale di Bukas Palad e di come ha potuto ricominciare ad amare il marito, che da anni beveva e giocava. Maricel, una dei figli, è uscita dal giro della droga in cui si è trovata per sette anni, ha perdonato il papà – che nel frattempo aveva cambiato vita – e lo ha assistito negli ultimi giorni della sua vita. Un miracolo dell’amore, che si apre adesso verso altre famiglie povere del quartiere, alle quali Carmen e Maricel si dedicano lavorando come operatrici sociali a Bukas Palad.

 Il linguaggio dell’Arte, che oggi ha raggiunto un momento culminante, ha fatto penetrare ancor più profondamente in questo ‘Mistero della luce’, anzi ha portato nel cuore del Vangelo: il coreografo Stefanescu più che rappresentare la festa delle Nozze, ha preferito cogliere il senso più profondo del miracolo dell’acqua che si cambia in vino, simbolo del sangue stesso che Gesù presto avrebbe versato per compiere il più grande miracolo, la Resurrezione.

Un’altra pagina di questo intenso evento mariano è stata segnata dall’apporto dei nuovi carismi alla comprensione vitale di Maria e del Rosario. Si è aperta con la tavola rotonda dei rappresentanti di vari movimenti e comunità ecclesiali: Rinnovamento Carismatico nternazionale, Comunità di Sant’Egidio, Cursillos, Schoenstatt e Legionari di Cristo. “Godevo per la condivisione della testimonianza di tanti carismi, e mi sembrava di vedere Maria presente e viva in ciascuno e in seno alla Chiesa” ha scritto un ’navigatore’ del Paraguay, che ha seguito il Congresso via Internet. E dall’Argentina: “La carrellata degli esponenti dei diversi Movimenti è stata la testimonianza della varietà dei doni che fa bella la Chiesa”.

Nella mattinata, particolarmente profonda la testimonianza di don Pasquale Foresi, cofondatore dei Focolari e primo focolarino sacerdote. Sono emersi il volto del sacerdozio rinnovato dall’impronta di Maria e la fecondità di una vita spesa nella costruzione della sua Opera. (altro…)

Maria, parola di Dio vissuta

Maria, parola di Dio vissuta

“Io non sono d’accordo con gli attentati suicidi”. “Ed io non sono d’accordo con i bombardamenti sulle vostre città”. Due battute tra una giovane palestinese e un soldato israeliano ad un posto di blocco nei Territori palestinesi. E’ una cronaca “rovesciata” quella che viene raccontata dal grande palco nella sala del Centro Mariapoli di Castelgandolfo, dove è in corso il Congresso Mariano Internazionale promosso per l’anno del rosario indetto del Papa. Il suo intento era rilanciare questa preghiera mariana da lui definita “un compendio del Vangelo”, e riportare gli uomini di oggi alla ricerca di pace e di una nuova dimensione dello Spirito, e a “contemplare Cristo con gli occhi di Maria” ed essere come lui “costruttori di pace” e di “un mondo più vicino al disegno di Dio”.

E’ una cronaca, quella offerta dalle molte esperienze, che mostra la potenza del Vangelo capace di disinnescare l’odio con l’amore al nemico. E’ una via obbligata “dopo l’11 settembre, che ci ha messi di fronte a un bivio, e tocca a noi imboccare la via giusta”, come ha detto mons. Pietro Coda. E’ quanto ha testimoniato anche Dieudonné del Burundi: 12 i famigliari massacrati barbaramente, ma non per questo cambia il suo stile di vita. Decide di mettere in atto l’arte evangelica dell’amore anche nei confronti dei militari che sono spesso “senza pietà”: può capitare di incontrarli nel momento in cui si trovano nel bisogno, come è successo con un soldato ubriaco, sull’orlo di un ponte, da lui soccorso. Questo uno squarcio delle testimonianze incastonate nel 1^ dei cinque quadri in programma nel Convegno: i 5 misteri della luce che, insieme alle riflessioni teologiche, aiutano a penetrare nelle varie tappe della vita di Gesù e di Maria. Primo quadro, il Battesimo di Gesù: “E’ l’invito a riconoscere Gesù come figlio di Dio – ha commentato P. Fabio Ciardi – così che possa far annegare nelle acque del battesimo il nostro ‘uomo vecchio’ e farci rinascere a vita nuova, per ritrovarci tutti fratelli e sorelle nel cuore dell’unico Padre”. Come ha evidenziato mons. Domenico Sorrentino, prelato del Santuario di Pompei, tracciando la storia del Rosario, Giovanni Paolo II invita ad un passo in avanti rispetto al passato: “Non si limita ad affidare la pace all’intercessione di Maria, ma la presenta come frutto di questa preghiera che ’è preghiera di pace’, perché facendo contemplare Cristo”, “esercita un’azione pacificante”. Ed è un’esperienza di contemplazione quella che stanno vivendo a Castelgandolfo, non solo le oltre 1500 persone di 70 Paesi presenti in sala, ma che raggiunge i più diversi punti del mondo grazie al collegamento con 11 satelliti messi a disposizione con generosità dall’ Esa, Telepace, l’americana EWTN e la CRC del Canada che hanno permesso a molte TV nazionali e locali e tramite internet di trasmettere l’intero Congresso. 7000 i punti collegati con internet in questo primo giorno. 20.000 le persone calcolate. Solo qualche flash dai molti messaggi e-mail giunti da tutto il mondo: “Impressionante – scrivono da Amersfoort in Olanda – come l’alta spiritualità e la concretezza vadano insieme”. Da Edimburgo: “Stiamo vedendo la trasmissione. E’ piena di luce e ci fa sentire parte di essa”.

La profonda dimensione spirituale di questo evento mariano si annunciava sin dalle prime battute: “Ci soffermeremo sul Rosario che è un ripetuto canto di amore a Maria – ha detto il prof. Giuseppe Zanghì, direttore della rivista Nuova Umanità – ed è anche e soprattutto un aprire gli occhi dell’anima sui misteri della vita del Figlio di Maria. E mentre noi apriremo le nostre menti e i nostri cuori a Gesù, sarà Gesù a parlare di Maria ai nostri cuori e alle nostre menti con quel parlare che non termina in povere parole, ma in creature nuove”.

Uno dei molti aspetti di novità di questo evento mariano: l’apporto della dimensione carismatica alla comprensione vitale di Maria e del Rosario, contributo offerto con questo Congresso, in risposta al particolare messaggio consegnato a Chiara dal Papa in piazza S. Pietro lo stesso 16 ottobre 2002, giorno in cui rilanciava la preghiera del Rosario. Momento culmine, l’intervento di Chiara Lubich che ha comunicato i doni di luce delle origini di quell’Opera, il Movimento dei Focolari, che la Chiesa riconoscerà come “Opera di Maria”. Chiara rivive uno dei momenti più drammatici degli inizi: “Sotto un atroce bombardamento, bocconi a terra, coperta di polvere densa come l’aria, alzandomi da terra, quasi miracolata, in mezzo alle urla dei presenti, calma e piena di pace, ho avvertito d’aver provato nell’anima un profondo dolore mentre ero in pericolo di vita: quello di non poter più recitare, qui in terra, l’Ave Maria”. Più tardi comprenderà: “Quest’ Ave Maria” doveva essere fatta di parole vive, di persone che, quasi altre piccole Maria, dessero al mondo l’Amore”. Quell’Amore che è Gesù stesso che “oggi – ha aggiunto – possiamo ’generare’ spiritualmente, come promette il Vangelo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome (nel mio amore, spiegano i Padri) io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). Compito, questo, definito come “primario nella società secolarizzata di oggi” dal cardinale Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga, durante l’omelia. La fondatrice dei Focolari ha parlato della scoperta del nuovo volto di Maria, “d’una bellezza incomparabile: “tutta Parola di Dio, tutta rivestita della Parola di Dio”, e della chiamata di ogni cristiano a ripetere, come Maria, Cristo, Verità, Parola, con la personalità che Dio ha dato a ciascuno”. Una visione “ricca di conseguenze, ad esempio, nel campo ecumenico”. Mercoledì ne daranno testimonianza appartenenti alle Chiese luterana, evangelica riformata, rumeno ortodossa e copta ortodossa. Elemento ulteriore di novità che continuerà a percorrere tutto l’evento è il posto privilegiato degli spazi artistici: dai canti, alle musiche, alle danze di varie culture, ai brani letterari – da Dante a Sartre – perché di Maria “non si parla, si canta. L’amore fiorisce in poesia” come canta il Gen Verde, su una meditazione di Chiara. (altro…)

maggio 2003

Gesù sta per tornare al Padre. Nella sua morte e nella sua risurrezione, ormai imminenti, si attua la parabola del chicco di grano che, caduto in terra, muore e porta frutto nella spiga. Gesù compie la sua opera: sulla croce si dona comple-tamente (il chicco di grano che muore) e con la risurrezione dà vita ad un’umanità nuova (la spiga fatta di tanti chicchi). Ma Gesù vuole che la sua opera continui nei discepoli: anche loro dovranno amare fino a dare la vita e così generare la comunità. Per questo, parlando con loro nell’ultima Cena, li paragona a tralci di vite chiamati a portare frutto.
Concretamente come essere innestati nella vite? Gesù spiega che rimanere in lui significa rimanere nel suo amore , lasciare che le sue parole vivano in noi , osservare i suoi comandamenti , soprattutto il “suo” comandamento: l’amore reci-proco . In quell’ultima Cena ci ha dato anche il suo corpo e il suo sangue. Lui, in noi e tra noi, continuerà a portare frutto e a compiere la sua opera. Ma se rifiutia-mo questo rapporto d’amore siamo tagliati via:

«Ogni tralcio che in me non porta frutto, [il Padre mio] lo toglie.»

Questa azione drastica del Padre non può non risvegliare il timore di Dio. Non possiamo abusare del suo amore. Proprio perché Dio è Amore, è anche giu-sto. Se taglia è perché costata che il tralcio è già morto, si è condannato da sé stes-so: ha rifiutato la linfa e non porta più frutto. Si può cadere nell’errore di credere che portare frutto significhi attivismo, organizzazione delle opere, efficientismo… e si può dimenticare ciò che veramente vale: essere uniti a Gesù, vivere nella sua grazia, o almeno nella rettitudine della propria coscienza. Allora il Padre taglia via il tralcio perché, al di là delle apparenze, lì non c’è più vita.
Non c’è quindi più alcuna speranza? La vigna del Signore è misteriosa e lui sa anche innestare di nuovo il tralcio tagliato: ci si può sempre convertire, si può sempre ricominciare.

«… e ogni tralcio che porta frutto, [il Padre mio] lo pota perché porti più frutto.»

Da cosa vedrò che porto frutto?
A chiunque agisce bene non possono non arrivare le prove: sono le mani-festazioni dell’amore di Dio che purifica il nostro agire e fa in modo che si arrivi a portare più frutto, esattamente come avviene nella natura con la potatura. Ed ecco i dolori fisici e spirituali, le malattie, tentazioni, dubbi, senso di abbandono da par-te di Dio, situazioni le più diverse che parlano più di morte che di vita. Perché? Forse perché Dio vuole la morte? No, ché anzi, Dio ama la vita, ma una vita così piena, così feconda, che noi – con tutta la nostra tensione al bene, al positivo, alla pace – non potremo mai immaginare. Pota proprio per questo.

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto»

Questa Parola di vita ci assicura che le prove e le difficoltà non sono mai fine a sé stesse, vengono perché possiamo portare “più frutto”. E il frutto non è soltanto la fecondità apostolica, ossia la capacità di suscitare la fede e di edificare la comunità cristiana. Gesù ci indica anche altri frutti. Ci promette che se rima-niamo nel suo amore e le sue parole rimangono in noi, potremo chiedere quello che vogliamo e ci sarà dato , daremo gloria al Padre , avremo la pienezza della gioia .
Vale la pena affidarsi alle mani esperte del Padre e lasciarsi lavorare da lui.

Chiara Lubich

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Sulla scia di quel sì del 7 dicembre ’43

Più potente delle armi

Costa d'Avorio_1Mi ero trasferita ad Abidijan da alcuni mesi per continuare gli studi, quando è scoppiata la guerra civile nel nostro paese. In poco tempo, tensione e paura hanno preso il sopravvento, insieme a un clima di diffidenza e disperazione generale.

Eravamo tutti chiusi in casa, incollati alla radio che trasmetteva solo bollettini di morte e violenza; si diceva che nei gruppi armati ribelli c’erano anche molti stranieri e questo fatto ha alimentato un odio crescente verso gli immigrati dai paesi vicini. Con gli altri amici con i quali vivo e credo che costruire un mondo unito è possibile abbiamo deciso di non lasciarsi prendere in questa spirale di divisione e odio; Gesù ha detto “Ama il prossimo tuo come te stesso”: era questo il momento di crederci e vivere così per dare il nostro contributo a riportare la pace al nostro popolo. Abbiamo deciso di cominciare dalla zona più povera della città, una bidonville in maggioranza abitata da stranieri – e quindi presi di mira – che vivono quotidianamente in condizioni di emarginazione. Quando siamo arrivati abbiamo trovato cumuli di macerie dappertutto, le case distrutte dall’esercito, la gente terrorizzata, perché sospettata di nascondere armi e ribelli. Cosa potevamo fare per loro? Ancora una volta la risposta l’abbiamo trovata nel Vangelo: “Qualunque cosa avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatta a me”. Abbiamo avvicinato le persone e cercato di capire di cosa avessero bisogno. Quindi abbiamo raccolto vestiario e cibo e l’abbiamo distribuito. Poi abbiamo fatto conoscere anche a loro la nostra azione mondiale per la pace: il Time out, un minuto di preghiera o di silenzio ogni giorno, diffuso ormai tra migliaia di persone in tutto il mondo. Tanti di loro hanno preso parte anche alle nostre iniziative per la pace ed il responsabile civile del quartiere ci ha detto di aver visto la sua gente riprendere speranza. Ora quella era anche la “nostra” gente: sentivamo di essere ormai un’unica famiglia e la loro vita, il loro dolore è il nostro. Nel dicembre scorso la situazione è precipitata: nella capitale gli scontri si sono fatti violentissimi, i ribelli sono entrati anche in casa di alcuni di noi, distruggendo tutto e malmenando le persone. E per le strade decine, centinaia di morti ogni giorno. Tanti hanno iniziato a fuggire da Man: un esodo interminabile di migliaia di uomini, donne e bambini che avevano poco o nulla con se e nessun posto dove andare. Abbiamo così aperto le porte di Victoria, la cittadella del Movimento dei Focolari in Costa d’Avorio, a quasi 1500 persone che vi si sono rifugiate per diverse settimane. Sapevamo di trovarci proprio sulla linea del fronte tra le milizie ribelli e le truppe governative; ce lo ricordavano quei boati che squarciavano la notte: continue sparatorie e bombardamenti a pochi chilometri da noi ed ogni sera non si sapeva se all’indomani si sarebbe stati ancora vivi. L’elettricità era saltata, il pozzo era inservibile, le riserve di cibo scarseggiavano; l’ospedale della città era stato chiuso. Improvvisiamo un’infermeria in casa di alcuni di noi. C’era un solo medico…, molti i feriti, i malati, le donne in attesa di partorire. Eppure, in mezzo a tutto questo è nato un bambino a cui la mamma ha dato il nome di Marius, per ricordare che è nato sotto la protezione di Maria. Ad ogni ora del giorno e della notte continuavano ad arrivare famiglie, anziani o bambini che cercavano di sfuggire alla “strategia di pulizia” organizzata dai ribelli. Abbiamo anche allestito una mensa, condiviso il riso che ci restava; aperto le nostre case, preparato letti, distribuito indumenti. Una mattina, durante la S. Messa, dieci minuti terribili: rumori di mitragliatrici, esplosioni, sparatorie… Ma nessuno gridava o piangeva, c’era in tutti una grande sicurezza mentre recitavamo, una dopo l’altra, l’Ave Maria. Abbiamo continuato a recitare il rosario giorno e notte, sentivamo fortemente che solo Maria poteva ridonarci la pace. “Anche qui, come dappertutto scarseggia il cibo e non c’è nulla – ci dicevano in tanti – ma si respira un’aria diversa, insieme non abbiamo paura”. Ed era vero, la forza era in quel patto che avevamo fatto: che tutto crollasse, ma non l’amore fra di noi, quello era più potente delle bombe. Quell’amore risanava ferite dentro e fuori, portava a sperare, a perdonare, a trattare gli altri come loro venivano trattati. A fine gennaio un gruppo di ribelli è penetrato nella cittadella, sono stati accolti ed abbiamo dato loro del cibo, un luogo dove lavarsi, una stanza per riposare. Sembrava che questi soldati, alcuni di loro giovanissimi, avvertissero il clima di fratellanza che si respirava tra tutti e, come per miracolo, non si è verificato nessun incidente e non solo: ci hanno offerto la loro protezione. (Colombe, Costa d’Avorio) (altro…)