Movimento dei Focolari

Chiara Luce Badano, "Santità a 18 anni"

“Ho riscoperto il Vangelo sotto una nuova luce. Ho scoperto che non ero una cristiana autentica perché non lo vivevo sino in fondo. Ora voglio fare di questo magnifico libro il mio unico scopo. Non voglio e non posso rimanere analfabeta di un così straordinario messaggio. Come per me è facile imparare l’alfabeto, così deve essere anche vivere il Vangelo”. (Chiara Luce Badano)   “Chiara Luce! Quanta luce si legge sul suo volto, quanta luce nelle sue parole, nelle sue lettere, nella sua vita tutta protesa ad amare concretamente tanti! … Scelta radicale di Gesù crocefisso e abbandonato, la sua; scelta di ciò che fa male e che, se non si ama, può trascinare lo spirito in una galleria oscura. Con Lui ha vissuto, con Lui ha trasformato la sua passione in un canto nuziale”. (Chiara Lubich)       “La sua è una testimonianza significativa in particolare per i giovani. Basta considerare come ha vissuto la malattia, vedere l’eco suscitata dalla sua morte. Non si poteva lasciar cadere un esempio di questa portata. C’è bisogno di santità anche oggi. C’è bisogno di aiutare a trovare un orientamento, uno scopo alla vita, aiutare i giovani a superare le loro insicurezze, la loro solitudine, i loro enigmi di fronte agli insuccessi, al dolore, alla morte. I discorsi teorici non li conquistano, ci vuole la testimonianza”. “Nei colloqui con lei notavo una maturità di gran lunga superiore alle giovani della sua età. Aveva colto l’essenziale del cristianesimo: Dio al primo posto; Gesù, con cui aveva un rapporto spontaneo, fraterno; Maria come esempio; la centralità dell’amore; la responsabilità di annunciare il vangelo. Tutto questo, collaudato dall’esperienza della sofferenza e della morte, non temuta ma attesa, ha reso la sua vicenda veramente singolare”.   (altro…)

Parola di vita Marzo 2000

L'evangelista Marco – e con lui anche Matteo e Luca – ci riferiscono che Gesù un giorno ha preso in disparte Pietro, Giacomo e Giovanni e li ha condotti su di un alto monte. Lì, ad un certo momento, avvenne un fatto straordinario: Gesù si trasfigurò davanti a loro, le sue vesti divennero bianchissime ed apparvero Mosè ed Elia che discorrevano con lui. Una nube avvolse i tre apostoli e dalla nube si udì una voce, la voce del Padre celeste, la quale si rivolgeva loro appunto con queste parole:

«Questi è il figlio mio prediletto: ascoltatelo!»

Già all'inizio della sua missione, al battesimo nel Giordano, quella stessa misteriosa voce si era fatta udire: “Tu sei il Figlio mio, il prediletto: in te ho posto il mio amore”. Questa volta il Padre si rivolge ai discepoli di Gesù, e a tutti noi, per invitarci all'ascolto del Figlio. La parola chiave di questo mese è dunque: ascoltare. E quando il Figlio ha parlato? Dove troviamo la sua Parola? Nei Vangeli. Apriamoli, leggiamoli con amore. Il Vangelo è la Parola di Gesù. Egli però ci parla anche in altri modi. Ma come fare a riconoscere la sua voce, a distinguerla fra tante e a sintonizzarci sulla sua lunghezza d'onda? C'è un momento forte nel quale egli parla alla nostra anima: è nella preghiera, e quanto più cerchiamo di amare Dio nel nostro cuore tanto più la sua voce si fa sentire e ci guida dal più profondo del nostro essere. Ma anche ogni incontro della giornata può essere un'occasione di ascolto: mettendoci, di fronte ad ogni prossimo, in un silenzio d'amore che accoglie l'altro, chiunque esso sia, perché – Gesù ce lo ha rivelato – è lui stesso che si nasconde dietro ad ogni essere umano.  Come cambierebbero i nostri rapporti se si coltivasse di più questa rara qualità dell'ascolto, che può essere l'unico modo, a volte, con cui dimostrare la nostra attenzione verso chi ci sta vicino, anche se sconosciuto! Qui sta dunque il segreto: per disporci all'ascolto della voce di Dio, mettersi all'ascolto della sorella, del fratello.

«Questi è il figlio mio prediletto: ascoltatelo!»

La voce di Gesù ha anche un timbro chiaro e inconfondibile, parla forte e si fa sentire distintamente, quando è presente fra noi, per il nostro amore scambievole. La sua presenza fra due o più uniti nel suo nome fa, in qualche modo, da altoparlante della voce di Dio nel nostro cuore. E ascoltarlo perciò sarà più facile perché più sintonizzati sui suoi pensieri, sui suoi insegnamenti. Nel Vangelo di Luca abbiamo inoltre una frase di Gesù sull'ascolto di quelli che egli manda: “Chi ascolta voi ascolta me”. Erano i 72. Oggi nella Chiesa cattolica questa frase indica coloro ai quali ha affidato in modo particolare il suo messaggio: i suoi ministri, dai quali la Parola di Dio viene annunciata. Ma vi sono anche quei “testimoni” di Gesù che, ascoltando la sua Parola e mettendola in pratica nel modo più radicale, la fanno risuonare sempre di nuovo nel mondo e aprono i cuori all'ascolto.
Così, anche se una sola è la voce, molti sono i modi con cui si rivolge a noi: nell'intimo del cuore e per bocca dei fratelli e delle sorelle, dal pulpito di una chiesa, dalle pagine del suo Vangelo o nei carismi dei “testimoni”. La Parola di questo mese ci aiuterà ad ascoltare – e a vivere – quanto Gesù vorrà dirci.

Chiara Lubich

 

“Costruttori di comunione, fedeli alla spiritualità dell’unità”

“Nel corso del vostro incontro un posto privilegiato occupa la riflessione sulla preghiera di Gesù all’ultima cena   ‘affinché tutti siano una cosa sola’.  Fedeli alla spiritualità dell’unità ed attraverso un costante scambio di esperienze, proseguite nella vostra missione di costruttori di comunione all’interno delle Conferenze episcopali, insieme al presbiterio e nelle comunità diocesane. Mentre auguro ogni buon esito alla vostra riunione, accompagno i miei voti con la preghiera al Signore e a Maria, Madre dell’Unità”. Queste le parole pronunciate dal Santo Padre all’Udienza generale che ha segnato il culmine del 24° Convegno spirituale dei Vescovi amici del Movimento dei Focolari, svoltosi dal 19 al 25 febbraio al Centro Mariapoli di Castelgandolfo Esperienza di comunione “Chiesa nel terzo millennio: segno e strumento di unità” il tema che è stato sviluppato in questo Convegno promosso dal Card. Miloslav Vlk, arcivescovo di Praga attraverso una grande varietà di temi di spiritualità, contributi teologici, esperienze pastorali e personali, dialoghi plenari o in gruppi linguistici, momenti ricreativi e le concelebrazioni eucaristiche che concludevano ogni giornata. I 106 Vescovi, provenienti da oltre trenta paesi di ogni parte del mondo, hanno respirato insieme un’aria festosa e distesa di profonda comunione che in ultima analisi è stata esperienza del Cristo vivente. Per il futuro della Chiesa Il tema dell’unità è stato introdotto da un intervento di Natalia Dallapiccola, una delle prime compagne che con Chiara Lubich ha iniziato il Focolare. “Secondo la nostra esperienza – ha detto – il cammino verso l’unità passa per un amore reciproco vissuto con radicalità evangelica, fino a posporre il proprio io per l’altro, affinché Gesù stesso possa vivere in mezzo a ‘due o più che sono riuniti nel suo nome’, nel suo amore, come da Lui promesso”. Successivamente, due meditazioni teologiche proposte da Piero Coda e P. Jésus Castellano hanno delineato il volto della Chiesa del III millennio come “icona della Trinità” ed hanno evidenziato lo stile pastorale che ne deriva. Uno degli argomenti trattati è stato l’ecumenismo, considerato parte dei compiti imprescindibili di ogni Vescovo. Si sono evocati passi recenti come la Dichiarazione cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione ad Augsburg e la celebrazione ecumenica per l’apertura della Porta Santa a San Paolo fuori le mura. E si è parlato di spiritualità ecumenica. Toccante, per i Vescovi, la testimonianza di una laica e un sacerdote, entrambi focolarini anglicani, che hanno riferito dei riflessi della spiritualità dell’unità nella loro vita e nella loro Chiesa. Ma anche altri dialoghi, proposti dal Concilio Vaticano II, sono stati approfonditi da riflessioni ed esperienze di grande attualità. Nella scia del Giubileo Chiara Lubich, nel suo intervento, ha schiuso prospettive forti e luminose su salute e malattia, anzianità, morte, risurrezione, come esperienze fondamentali dell’esistenza cristiana, tematiche di particolare rilevanza in questo Anno giubilare che ha per centro il mistero dell’incarnazione. “Nella vita si possono fare tante cose, dire tante parole – ha affermato – ma la voce del dolore, magari sorda e sconosciuta agli altri, del dolore offerto per amore è la parola più forte, quella che ferisce il Cielo”. Nella prospettiva cristiana, infatti, la malattia non è semplice disfacimento, ma gradino verso la Vita, prova in vista della Prova finale. E “non è per fare pensieri neri, ma d’oro, che pensiamo alla morte”, perché la morte non è che l’incontro con il Signore. Un arcivescovo indiano, che partecipava per la prima volta al Convegno, riassumeva così la sua impressione: “Sono convinto che una spiritualità dell’unità, vissuta da tutto il Popolo di Dio, è il futuro della Chiesa.” (altro…)

Quello stage al giornale

Un mese di stage presso un quotidiano, nella redazione cronaca di Firenze. Un posto vinto inaspettatamente e l’occasione di farmi le ossa sul campo dopo cinque anni di studi teorici. Fin dal primo giorno lavoro a pieno ritmo, anche se a volte come uno che annaspa per non affogare. E mi rendo conto della responsabilità etica e civile che comporta fare il giornalista. Come pure che prima della notizia, dello scoop, viene la persona. Il primo giorno mi mandano ad intervistare parenti e amici di un giovane rimasto ucciso in una rissa, fuori della discoteca. Avrei preferito rispettare un momento così doloroso e sacro. Ma davanti al “dovere di cronaca” ho cercato di farmi uno con quelle persone, entrando nella loro storia in punta di piedi. M’invitano a raccogliere le opinioni di residenti e commercianti di un quartiere, rivoluzionato dal nuovo piano di traffico; cerco di ‘calarmi’ nella loro situazione.     Nell’articolo dico la verità, anche se molto scomoda per l’assessore al traffico.  Evito però di riportare certe dichiarazioni, che potrebbero costare loro care, anche se erano uno scoop. Molti mi ringraziano per l’ascolto attento, per la sollecitudine, per l’onestà. Ho potuto poi constatare quanto in redazione domini il pregiudizio secondo cui le notizie positive non interessano ai lettori. Quindi si cerca caparbiamente il negativo, anche quando non c’è. Eppure quando ho scritto un articolo sui giudizi molto positivi dei degenti in alcuni reparti dell’ospedale, … sorpresa: sono stati pubblicati. E non è stato l’unico caso. Ho visto poi quanto la cosiddetta “obiettività” del giornalista significhi dirittura morale e onestà intellettuale, completezza e accuratezza nell’esporre i fatti. Come quando ho ‘scoperchiato’, quasi incidentalmente, gravi disservizi in un ente pubblico, che hanno scatenato un polverone (un ministro è anche intervenuto sul giornale). Lì ho sentito il dovere di interpellare tutte le voci in causa: impiegati, direttore, responsabile politico. Così quando dovevo scrivere su un incontro, ad alto livello, fra un gruppo di managers e sindacalisti cileni e i sindacati italiani: anziché il solito rimpasto della notizia di agenzia, ho voluto documentarmi bene sulla situazione di questo Paese per amarlo come fosse il mio. Le personalità cilene sono rimaste così contente che hanno incorniciato l’articolo. Anche il console del Cile mi ha ringraziata e, in rappresentanza del quotidiano, mi ha invitata alla cena con la delegazione cilena. Ma il tempo per il mio stage scade. Sono serena per il futuro: le porte aperte o chiuse saranno i segni del percorso. Intanto il quotidiano mi ha proposto di mantenere la collaborazione. I. R.   (altro…)

Parola di vita Febbraio 2000

L'apostolo Paolo ha un modo di comportarsi, nella sua straordinaria missione, che si potrebbe esprimere così: farsi tutto a tutti. Egli, infatti, cerca di comprendere tutti, di entrare nella mentalità di ciascuno, per cui si fa giudeo con i giudei. E con i non giudei – coloro cioè che non avevano una legge rivelata da Dio – diventa come uno che non ha legge. Egli aderisce alle usanze giudaiche ogni volta che ciò serve a rimuovere ostacoli, a riconciliare animi, e, operando nel mondo greco-romano, assume le forme del vivere e della cultura congeniali a tale ambiente. Qui dice:

«Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».

Ma chi sono questi “deboli”? Sono cristiani che, perché hanno una coscienza fragile e poca conoscenza delle cose, sono facili a scandalizzarsi. Così poteva succedere per la questione delle carni immolate agli idoli. Si poteva mangiarle o no? Paolo sa che c'è un Dio solo e che gli idoli non esistono. Di conseguenza, non esistono carni sacrificate agli idoli. Ma i “deboli”, abituati ad un certo modo di ragionare e di poca istruzione, potevano pensare il contrario e rimaner disorientati. Paolo si pone nella gracile mentalità di questi cristiani e, per non turbarli, pensa che non è il caso di cibarsi di quelle carni.

«Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».

Ma cosa spinge Paolo ad un tale atteggiamento? Pur  nella libertà del cristianesimo che egli annuncia, avverte l'esigenza, anzi l'imperativo, di farsi schiavo di qualcuno; dei suoi fratelli, di ogni prossimo, perché il suo modello è il Crocefisso. Dio, incarnandosi, s'è reso vicino ad ogni uomo, ma sulla croce s'è fatto solidale con ciascuno di noi peccatori, con la nostra debolezza, con la nostra sofferenza, con le nostre angosce, con la nostra ignoranza, con i nostri abbandoni, con i nostri interrogativi, con i nostri pesi… Anche Paolo vuole vivere così, e per questo afferma:

«Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno».

E allora, come vivere anche noi questa nuova Parola di vita? Lo sappiamo: il perché della vita e dei suoi giorni è arrivare a Dio. E non da soli ma con i fratelli e le sorelle. Anche su di noi cristiani, infatti, è scesa una chiamata di Dio simile a quella rivolta a Paolo. Anche noi, come l'Apostolo, dobbiamo “guadagnare” qualcuno, “salvare ad ogni costo qualcuno”. La strada? “Farsi uno” con i prossimi, siano essi piccoli o adulti, ignoranti o dotti, ricchi o poveri, uomini o donne, connazionali o stranieri. Ci sono quelli che incontri per strada, con cui parli al telefono, per i quali lavori… Bisogna amare tutti. Ma preferire i più deboli. Farsi “debole con i deboli, per guadagnare i deboli”. Rivolgersi a chi è fiacco nella fede, agli indifferenti, a chi si professa ateo, a chi denigra la religione. Se ci faremo uno con loro, sperimenteremo l'infallibile metodo apostolico di Paolo: daremo una testimonianza di Dio che li affascinerà. Perciò oso dire a te che leggi: hai una moglie (o un marito) che non ama affatto la Chiesa e le è piacevole stare ore e ore alla televisione? Falle compagnia, come puoi, quanto puoi, interessandoti a quanto più ama seguire. Hai un ragazzo che ha fatto del calcio il suo idolo, disinteressandosi d'ogni altra cosa sì da dimenticare come si prega? Appassionati di sport più di lui. Hai un'amica che ama viaggiare, leggere, istruirsi ed ha gettato al vento ogni principio religioso? Cerca di capirla nei suoi gusti, nelle sue esigenze. Fatti uno, uno con tutti; in tutto, quanto puoi, tranne il peccato. Se peccano, dissociati. Vedrai che il farsi uno con i prossimi non è tempo perso; è tutto guadagnato. Un giorno – e non sarà troppo lontano – essi vorranno sapere ciò che interessa a te. E, grati, scopriranno, adoreranno e ameranno quel Dio che è stato la molla di questo tuo comportamento cristiano.

Chiara Lubich

 

La benedizione di Giovanni Paolo II a Chiara Lubich

Ho appreso con gioia che il prossimo 22 gennaio, in occasione del Suo 80° genetliaco, l’Amministrazione Comunale di Roma intende conferirle solennemente la cittadinanza onoraria. In tale felice ricorrenza, desidero farle giungere anch’io fervidi auguri di ogni bene, mentre mi unisco al Suo rendimento di grazie a Dio per l’inestimabile dono della vita. Dopo averla chiamata con il Battesimo a diventare sua figlia amata, Egli ha voluto unirla più intimamente a Cristo povero, casto e obbediente mediante la totale consacrazione al suo amore, per essere con cuore indiviso messaggera di unità e di misericordia tra tanti fratelli e sorelle, in ogni angolo del mondo. Sulle orme di Gesù, crocifisso e abbandonato, Ella ha dato vita al Movimento dei Focolari, per aiutare uomini e donne del nostro tempo a sperimentare la tenerezza e la fedeltà di Dio, vivendo tra loro la grazia della comunione fraterna, così da essere annunciatori gioiosi e credibili del Vangelo. Mentre affido alla protezione di Maria, Madre dell’unità, la Sua persona ed il bene compiuto in questi lunghi anni, invoco su di Lei la forza e la luce dello Spirito Santo perché possa continuare ad essere testimone coraggiosa di fede e di carità non soltanto tra i Membri dei Focolari, ma anche tra tutti coloro che incontra sul Suo cammino. Nel rinnovare cordiali voti di giorni, sereni e illuminati dalla grazia divina, Le imparto di cuore, in segno di costante affetto, una speciale Benedizione Apostolica, volentieri. estendendola a quanti Le sono cari. Joannes Paulus II                                (altro…)

Cittadinanza onoraria romana a Chiara Lubich

Apponendo la firma sul libro d’oro del Campidoglio, Chiara Lubich ha così siglato il suo auspicio per la città: “Gloria a Roma, per la gloria di Dio”. Ben sintetizza ciò che è avvenuto quella mattina in Campidoglio. “Io questo lo chiamerei proprio un evento. Ha un significato profondo”. Così la filosofa Ales Bello. Se la presidente del Consiglio comunale, on. Luisa Laurelli, il prof Andrea Riccardi e il sindaco Rutelli nei discorsi ufficiali avevano, con tonalità diverse, posto in primo piano la vita, la spiritualità e l’opera di Chiara Lubich sullo sfondo della missione universale di Roma, la neo-cittadina romana, nel suo intervento, ha capovolto i termini: protagonista era Roma, “la vocazione unica di universalità e di unità di questa città indefinibile, reale e misteriosa insieme”. In una intervista aveva appena dichiarato: “Ho ricevuto altre cittadinanze, ma questa è senz’altro quella che amo di più, perché Roma è Roma. Non solo è ricca di storia, arte, cultura, ma soprattutto è come un prezioso scrigno che contiene il cuore della cattolicità. ‘Roma è l’unità’, come ha detto Papa Paolo VI. Roma è chiamata a concorrere a realizzare nel mondo la fraternità universale”. E dal nuovo impegno assunto personalmente insieme a tutto il Movimento dei focolari di “dedicarci d’ora in poi a questa città più e meglio”, ha esteso a tutte le personalità presenti una singolare richiesta di aiuto: “diffondere insieme ovunque quell’arte di amare che emerge dal Vangelo, perché Roma diventi per il mondo quel braciere di fuoco e di luce che non può non essere, se deve cooperare a portarvi l’unità”. Molti erano i politici, di tutti gli schieramenti, presenti nella storica Aula Giulio Cesare: non solo i consiglieri e gli assessori comunali, ma a livello europeo e nazionale: da Romano Prodi, presidente  della Commissione europea, ai segretari di  Partito: Castagnetti  (P. Popolare), e Fini  (Alleanza Nazionale), al capogruppo al  Senato di Forza Italia, Enrico La Loggia, al presidente della Regione Lazio Badaloni, 10 magistrati, tra cui Caselli, 23 sindaci. Ed ancora personalità del mondo ebraico, islamico e buddista, delle diverse Chiese cristiane presenti a Roma; 4 cardinali, 20 vescovi, e rappresentanti di Movimenti ecclesiali. C’è chi, come il vescovo Boccaccio, ha osservato “il volto assorto di quanti ascoltavano, di ogni estrazione”. Sulla stampa sono comparsi titoli non certo usuali, del tipo: “Amate per primi, pure i politici – ll messaggio di Chiara Lubich”, come si leggeva sul Messaggero. E sul Corriere della Sera: “Bisogna amare anche i politici”. Ed era proprio questo l’auspicio del Papa, nella lettera letta dal Nunzio apostolico Montezemolo in cui invocava su Chiara “la forza e la luce dello Spirito Santo, perché possa continuare ad essere testimone coraggiosa di fede e di carità non soltanto tra i membri dei Focolari, ma anche tra tutti coloro che incontra sul suo cammino”. (altro…)

Apertura della Porta ‘Ecumenica’

Poco prima delle 11:30 quelle sei mani, del metropolita Athanasios, del primate inglese Carey e del papa, che hanno spinto insieme, con forza, la Porta Santa di San Paolo, hanno dato inizio al rito ecumenico probabilmente di maggior peso dell’ intero Giubileo.

“L’amore di Cristo” aveva detto poco prima Giovanni Paolo II’ ‘ci chiama alla comunione e alla carità perfetta, al di la’ dei nostri peccati e delle nostre divisioni”. L’ apertura della quarta ed ultima Porta Santa delle basiliche romane è stata preceduta da un lungo rito, cominciato sotto il grande chiostro che precede l’atrio della chiesa, alle 11. 

ll Papa con Athanasios e Carey

Preghiere in inglese, francese, greco; cardinali e metropoliti ortodossi insieme con esponenti luterani ed anglicani. Vesti violette e rosse cattoliche, strascichi degli stessi colori, bastoni d’ebano e avorio, gli anglicani in rosso, il papa con un grande mantello color oro. Un insieme, che vede riuniti esponenti di 22 chiese cristiane, quale non si era mai visto dopo il Concilio, un insieme di grande impatto, sottolineato dallo straordinario applauso che ha accolto, dall’ interno della basilica, l’apertura della Porta. ”Ascolta o Padre – ha detto ancora il papa, prima dell’apertura della Porta – la nostra preghiera e unisce i cuori dei fedeli nella lode del tuo nome e nel comune impegno di conversione, perché, superata ogni divisione fra i cristiani, la tua Chiesa si ricomponga in comunione perfetta, e nella gioia del Cristo cammini verso il tuo Regno”. Il rito, che non è una Messa, perché la celebrazione comune dell’ Eucarestia non è ancora possibile nella attuale situazione dei rapporti tra cristiani, è presieduto dal papa. Ma fin dall’inizio rappresentanti delle altre chiese e comunioni presenti intervengono nei vari momenti della celebrazione. Almeno 15 di loro partecipano attivamente alla proclamazione dei testi o nel compiere alcuni gesti rituali. Così, prima dell’ apertura della Porta, le preghiere del papa si sono inframmezzate con quelle di anglicani, ortodossi e luterani. Così la processione che ha percorso il colonnato di fronte alla Porta Santa aveva un ordine di precedenze che vedeva insieme tutti i rappresentanti delle diverse chiese. Così in tre hanno spinto la Porta (per tre volte, per riuscire ad aprirla). E se il primo ad entrare è stato Giovanni Paolo II, a porgergli il Vangelo è stato un diacono ortodosso; e se a mostrare il Vangelo all’ esterno della chiesa è stato il papa, a mostrarlo all’interno è stato Athanasios e a benedire ad ovest e ad est sono stati Carey ed un altro metropolita ortodosso. (ANSA). 18-01-2000 11:50

 

 

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“Il nascondimento di Dio”

Il brano che segue, preparato di recente da Chiara Lubich per un incontro con amici ebrei, rispondeva ad una domanda sul significato del dolore, e del dolore legato all’amore. “È un argomento difficile, il più difficile da affrontare specialmente per me, ora, davanti a persone che fanno parte di un popolo che ha sperimentato come nessuno in questo secolo la sofferenza, il dolore indescrivibile della Shoah, quell’immane tragedia che è stata forse la prova più grande che abbia mai dovuto subire il popolo ebraico o qualsiasi altro popolo. Tanto che uno dei vostri grandi pensatori, Martin Buber, ha potuto coniare la metafora dell’Eclissi di Dio, perché Auschwitz ha messo in discussione la fede stessa. “Il problema del dolore è antico quanto l’uomo che ha cercato di dargli una quantità di risposte attingendo alla sapienza umana, alla filosofia, alla psicologia. Ma il problema rimane e soprattutto rimane la realtà del dolore. Cercherò di dirvi come noi lo abbiamo affrontato, premettendo che la nostra è stata un’esperienza fatta nel solco della tradizione cristiana. “Non sono stati i duri tempi di guerra che ci hanno portato ad una riflessione sul dolore. Anzi dobbiamo dire che la fede nell’amore di Dio era così luminosa e gioiosa da farci quasi scomparire gli orrori della guerra, anche se vivevamo gomito a gomito con tutti e condividevamo le tragedie di chi ci stava accanto. Finché un giorno la nostra attenzione fu richiamata su quel grido in aramaico di Gesù sulla croce: Elì, Elì, lemà sabactàni?, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?, che è l’inizio del Salmo 22. Ci fu detto che quello era stato il più grande dolore di Gesù, perché abbandonato da tutti si sentì abbandonato anche da Dio. “Ora questo fatto ci ha fatto pensare. Come mai, abbiamo detto, il Padre ha permesso che Gesù provasse un dolore così grande? Non amava egli il Figlio infinitamente? Ed abbiamo capito: l’ha permesso perché c’era su Gesù un disegno d’amore particolare: Egli doveva soffrire per tutti gli uomini e poi risorgere. E gli uomini, che avrebbero creduto in lui, sarebbero risorti con lui. Gesù, asceso al Cielo, avrebbe goduto per tutta l’eternità anche di ciò che lui aveva fatto in terra. La storia di Gesù ci ha così illuminato su ogni storia umana dolorosa. Anche noi siamo figli di Dio. Anche su di noi c’è uno splendido disegno. Merita soffrire per raggiungerlo. “Mi sembra che la meditazione sul dolore che ha provato Gesù nell’abbandono non sia estranea nemmeno alla vostra tradizione e alla vostra storia. Mi ha molto colpito infatti un passo del Talmud che mi permetto di riportare: “Chiunque non prova il nascondimento del volto di Dio, non fa parte del popolo ebraico” (TB, Hagigah 5b). In tutta la storia ebraica, da Abramo in poi, ci sono momenti e situazioni che sembrano segnati dal “nascondimento del volto di Dio”. Non per nulla nei Salmi spesso si esprime angoscia sull’esperienza che “Dio nasconde il suo volto”. “Ma nascondimento di Dio non vuol dire assenza di Dio. Forse su questa terra rimarrà sempre un mistero perché Dio ha permesso questo buio, ma l’eclissi non permane. La Shoah, questo trauma che ha segnato la storia dell’umanità, oltre a quella del popolo ebraico, non è stata la vittoria definitiva del male. Allora è possibile la nascita di una nuova vita? E che appaia nuovamente il volto di Dio dopo un’eclissi così spaventosa? Con questa speranza “il ricordo”, che è così importante, può servire a dare una svolta alla storia e a costruire un mondo nuovo. “Il mio augurio e la mia preghiera è che si ricordi la Shoah sempre di più come un passaggio e come la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, proprio per quell’alleanza da Dio mai revocata con il Suo popolo. E noi vi saremo accanto ogni giorno in questo vostro cammino che è anche nostro”. (Da Città Nuova n.2 – 2000)   (altro…)

«Ho scoperto l’Ecumenismo»

Sono italiana e frequento il secondo anno di Psicologia all’Università di Swansea, e sono cattolica. Vivo con altre cinque studentesse, da Spagna, Italia e Grecia. Ci conosciamo molto bene ed abbiamo condiviso molte cose, ma non parlavamo mai di religione. Una domenica, mi stavo preparando per andare a messa, quando Natasha, una delle ragazze greche, mi ha chiesto dove stavo andando. Ho esitato a rispondere, dato che molti studenti disprezzano quelli che vanno in chiesa. Ero tentata di cambiare argomento o di dire una bugia. Ma mi sono resa conto che sarebbe stato dire una bugia a Gesù in lei. Così le ho detto la verità, le ho parlato della mia fede e di come Dio è la cosa più importante. Ero pronta a che lei prendesse malamente quanto dicevo, e sono stata invece sorpresa nel sentire che anche lei era cristiana! Era greco-ortodossa e – dato che non ci sono chiese greco-ortodosse in Swansea – doveva andare a Cardiff, a circa un’ora di autobus, quando voleva andare in chiesa. Ci siamo messe d’accordo che – quando lei non fosse potuta andare a Cardiff – sarebbe venuta a Messa con me. Non dimenticherò mai la gioia che avevo in cuore quella sera, quando abbiamo pregato Dio insieme, al di là delle nostre differenti denominazioni. Essendo italiana, non avevo mai avuto prima questa esperienza. In Italia sono pressoché tutti cattolici. Prima di quel giorno non avevo mai capito realmente l’ecumenismo, e quanto sia importante. La domenica successiva, dopo la Messa, il sacerdote è venuto alla porta della chiesa a salutare le persone, e ha chiesto a Natasha da dove veniva. Quando ha sentito che era greca e ortodossa, ci ha invitato a prendere una tazza di thè. E’ stato molto sorpreso che la maggior parte degli studenti dell’università non avevano in Swansea nessuna celebrazione delle rispettive liturgie. Subito le ha detto che conosceva il prete ortodosso di Cardiff e che gli avrebbe suggerito di celebrare la liturgia ortodossa nella chiesa cattolica di Swansea. Ora più di cinquecento membri della Chiesa greco-ortodossa celebrano la loro liturgia ogni due settimane nella nostra chiesa. Per me quella domenica è stata grande esperienza. Mi sono resa conto di come è importante amare Gesù in ogni persona che incontro durante la giornata e scegliere Lui in ogni momento. Non avrei mai potuto immaginare le conseguenze di averlo fatto quel giorno. L.S.   (altro…)

Un sogno per il 2000

Se osservo ciò che lo Spirito Santo ha fatto con noi e con tante altre “imprese” spirituali e sociali oggi operanti nella Chiesa, non posso non sperare che Egli agirà ancora e sempre con tale generosità e magnanimità. E ciò non solo per opere che nasceranno ex-novo dal suo amore, ma per lo sviluppo di quelle già esistenti come la nostra. E intanto per la nostra Chiesa sogno un clima più aderente ad essa come Sposa di Cristo; una Chiesa che si mostri al mondo più bella, più una, più santa, più carismatica, più conforme al suo modello Maria, quindi mariana, più dinamica, più familiare, più intima, più configurata a Cristo suo Sposo. La sogno faro dell’umanità. E sogno in essa una santità di popolo, mai vista. Sogno che quel sorgere – che oggi si costata – nella coscienza di milioni di persone d’una fraternità vissuta, sempre più ampia sulla terra, diventi domani, con gli anni del 2000, una realtà generale, universale. Sogno con ciò un retrocedere delle guerre, delle lotte, della fame, dei mille mali del mondo. Sogno un dialogo d’amore sempre più intenso fra le Chiese così da vedere ormai vicina la composizione dell’unica Chiesa. Sogno l’approfondirsi d’un dialogo vivo e attivo fra le persone delle più varie religioni legate fra loro dall’amore, “regola d’oro” presente in tutti i loro libri sacri. Sogno un avvicinamento ed arricchimento reciproco fra le varie culture nel mondo, sicché diano origine ad una cultura mondiale che porti in primo piano quei valori che sono sempre stati la vera ricchezza dei singoli popoli e che questi s’impongano come saggezza globale.  Sogno che lo Spirito Santo continui ad inondare le Chiese e potenzi i “semi del Verbo” al di là di esse, cosicché il mondo sia invaso dalle continue novità di luce, di vita, di opere che solo Lui sa suscitare. Affinché uomini e donne sempre più numerosi s’avviino verso strade rette, convergano al loro Creatore, dispongano anima e cuore al suo servizio. Sogno rapporti evangelici non solo fra singoli, ma fra gruppi, Movimenti, Associazioni religiose e laiche; fra i popoli, fra gli Stati, sicché si trovi logico amare la patria altrui come la propria. E logico il tendere ad una comunione di beni universale: almeno come punto d’arrivo. Sogno un mondo unito nella varietà delle genti con una sola autorità alternantesi. Sogno perciò già un anticipo di Cieli nuovi e terre nuove come è possibile qui in terra. Sogno molto, ma abbiamo un millennio per vederlo realizzato. da Città Nuova 10/1/2000 (altro…)

Parola di vita Gennaio 2000

E’ un inno di lode e di riconoscenza a Dio. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio, Padre di Gesù Cristo, che egli ha risuscitato dai morti. “Con lui”, Gesù, “ha risuscitati e fatti sedere nei cieli” [1] anche noi, che siamo “opera sua” e “suo corpo” [2]. La benedizione di Dio su Abramo (“in te saranno benedette tutte le nazioni della terra” [3]) si compie in Gesù. Gesù ha attirato su di sé la benedizione paterna, rivestito di quell’amore al quale il Padre non può non rispondere perché egli è la sua stessa Parola fattasi carne. E' la sua Parola vivente, il suo Verbo che ha assunto la nostra natura umana per stare fra noi e comunicarci la Vita vera. Per fare di noi un solo corpo con lui e comunicarci il suo Spirito per il quale possiamo chiamare Dio Padre, Abbà! E noi come possiamo vivere in maniera degna della benedizione del Padre? Come attirare su di noi quella benedizione che dona gioia e fecondità a tutto ciò che pensiamo? Vivendo da figli, nel Figlio, essendo come lui Parola viva. Vivendo la Parola, infatti, veniamo trasformati nella Parola, in Cristo.

«Benedetto sia Dio… che ci ha benedetti… in Cristo».

Il Vangelo non è un libro di consolazione ove ci si rifugia nei momenti dolorosi per averne una risposta, ma è un codice che contiene le leggi della vita, di ogni momento della vita; leggi che non vanno solo lette e osservate, ma messe in pratica, cioè profondamente assimilate così da vivere come Cristo, da essere un altro Cristo in ogni istante. Così non possiamo pensare la Parola come una pura, semplice, dolce espressione di saggezza umana. La Parola di Dio è qualcosa di più di un messaggio. Quando egli parla dice se stesso, dona se stesso. “Dio non dona mai meno di se stesso”, ricorda Agostino di Ippona [4]. E poiché Dio è Amore ogni sua Parola è amore. Accogliere e vivere la Parola fa essere amore come Dio è Amore. Per la Parola, dunque, dovrebbero cambiare tutti i nostri rapporti: quello con Dio e quelli con il prossimo, perché essa ha in sé una forza dinamica, creatrice. Vivendo la Parola nasce e si compone la comunità cristiana fra persone che si amano e formano un solo popolo: il popolo di Dio. E su questo popolo scende la benedizione di Dio, e cioè su tutti noi, nella misura in cui sappiamo trattarci da fratelli e sorelle nell’unico Padre superando tutti gli individualismi, i pregiudizi, le divisioni. E' quello che dobbiamo fare in questo mese nel quale cristiani di molte parti del mondo si uniscono nella celebrazione della Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani, formando questo unico popolo. Consci di tale dono, non meritato da parte nostra, cerchiamo di vivere insieme, all'inizio del terzo millennio, come parole di Dio vive. Oltre che dare gloria a Dio, saremo con la nostra vita una forte implorazione per un altro suo dono: quello della piena e visibile comunione fra le Chiese.

Chiara Lubich

[1] Cf Ef 2,6
[2] Cf Ef 2,10 e 1,23
[3] Cf Gen 22,18
[4] Enchiridion ad Laurentium de fide et spe et caritate, XII, 40, Opera omnia, XIII, 2
 

 

Incontro di personalità del mondo ecumenico a Gerusalemme

Nuovo apporto al dialogo ecumenico in Terra Santa

a conclusione del Convegno dei Vescovi   Incontro personalità di varie Chiese a Gerusalemme – 9 dicembre 1999    “Ogni Chiesa, nella comunione con le altre, non solo non perde, ma può donare le proprie ricchezze”: così ha affermato il Metropolita rumeno ortodosso Serafim durante l’incontro di personalità del mondo ecumenico di Gerusalemme che si è svolto nel pomeriggio del 9 dicembre nell’Istituto Ecumenico di Tantur, per invito del Movimento dei Focolari. Presente in sala un uditorio d’eccezione: Patriarchi e loro vicari, Vescovi, sacerdoti e personalità laiche di 10 Chiese, fra cui numerosi rappresentanti delle Chiese orientali. In tutto 150. Presente anche il gruppo di Vescovi di varie Chiese amici dei Focolari, riuniti in Convegno ad Amman e giunti in pellegrinaggio in Terra Santa.    Profondo l’ascolto della breve presentazione dei Focolari, delle testimonianze sui riflessi della spiritualità dell’unità in campo ecumenico di Vescovi di cinque Chiese e della videoregistrazione di Chiara Lubich – impossibilitata da una banale indisposizione ad essere presente di persona – dell’intervento nella chiesa evangelica di s. Anna ad Augsburg, dove lo scorso anno aveva parlato dei cardini di una spiritualità ecumenica.    Un intenso momento di preghiera, animato da rappresentanti di varie Chiese ed incentrato nella lettura del testamento di Gesù “Che siano uno… affinché il mondo creda”, ha concluso questo incontro che, per la grande rappresentatività e l’inedita apertura reciproca è stato – come affermato da personalità del posto – “una vera benedizione del Cielo”, “un apporto originale nel progressivo cammino dei rapporti ecumenici in Terra Santa”.     (altro…)

"La Presenza di Cristo tra i cristiani e tra le Chiese via alla piena comunione"

Da Amman alla Terra Santa

A pochi giorni dalla VII Assemblea della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace (WCRP) che ha riunito ad Amman leaders e rappresentanti delle grandi religioni mondiali, avrà luogo un altro incontro internazionale, questa volta sul fronte ecumenico. E’ il 18° Convegno di vescovi appartenenti a varie Chiese cristiane, amici del Movimento dei Focolari, che si svolgerà dal 3 al 10 dicembre 1999. Inizierà e si concluderà nella capitale giordana. L’8 e il 9 dicembre i vescovi si recheranno in pellegrinaggio in Terra Santa, nello spirito di quell’unità che Gesù ha invocato per i suoi. Titolo e obiettivo del Convegno: “Promuovere la Presenza di Cristo fra i cristiani e tra le Chiese – via alla piena comunione” . Saranno una trentina i vescovi, rappresentanti della Chiesa ortodossa, siro-ortodossa, anglicana, evangelico-luterana e cattolico-romana provenienti dai cinque Continenti. Si incontreranno per una intensa settimana di comunione e di vita fraterna.

Una spiritualità ecumenica a molteplici effetti

Il convegno intende approfondire uno dei cardini della spiritualità dell’unità, spiccatamente ecumenica: la presenza del Risorto tra “due o più riuniti nel suo nome” e gli effetti di rinnovamento e di comunione che ne derivano fra le Chiese. Si susseguiranno interventi di vescovi ortodossi, anglicani e evangelico-luterani, di Chiara Lubich e di laici delle varie Chiese, esperienze di vita cristiana e di irradiazione evangelica. In programma anche i più recenti sviluppi dei dialoghi dottrinali, come la        Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla Dottrina della Giustificazione firmata di recente ad Augsburg. Il convegno si aprirà poi agli orizzonti del dialogo interreligioso, con l’aggiornamento sull’Assemblea della Conferenza mondiale delle religioni per la pace appena conclusa nella stessa Amman e degli ultimi sviluppi del dialogo del Movimento con le altre religioni.

Un’iniziativa per promuovere la vita d’unità tra i leaders di diverse Chiese

Questi incontri, che rivestono carattere informale, ebbero inizio nel 1982 quando il Papa Giovanni Paolo II ricevette un gruppo di vescovi cattolici amici del Movimento dei Focolari e li invitò ad estendere la loro esperienza di fraterna comunione anche a leaders di altre Chiese. Promossi dall’allora vescovo di Aachen, mons. Klaus Hemmerle, questi convegni si svolgono sin da allora annualmente, con l’approvazione dei responsabili delle rispettive Chiese. Luogo dell’incontro sono stati in passato Roma, Istanbul, Londra, Trento e la cittadella ecumenica di Ottmaring nei pressi di Augsburg in Germania. A partire dal 1994, dopo la morte del Vescovo Hemmerle, l’Arcivescovo di Praga, Card. Miloslav Vlk, ha assunto il coordinamento di queste riunioni. Frutto principale di quest’iniziativa è la profonda comunione spirituale che si instaura, all’insegna del comandamento nuovo di Gesù “Amatevi gli uni gli altri”, fra leaders delle diverse Chiese. Viene così in rilievo non tanto quello che ancora divide le Chiese ma soprattutto il molto che già le unisce. E si prende coscienza come le varie sensibilità e le ricchezze delle differenti tradizioni cristiane possano diventare un dono per tutta la cristianità. (06-12-1999) (altro…)

«Amare il nemico del mio popolo»

Noi indigeni siamo la maggioranza della popolazione guatemalteca, il 60%. E siamo sempre noi quelli che abbiamo, in sofferenza, il peso maggiore. Il mio popolo vive in piccole comunità con costumi e lingue propri, ma emarginate e in condizione d’inferiorità e dipendenza economica. Sono la maggiore di 12 figli. Fin da piccola avevo delle responsabilità nella famiglia e ho dovuto lavorare molto presto per sostenerla. Alla dura realtà della mia infanzia si aggiungevano le percosse di papà: sfogava su di me i problemi con il nonno, nella cui casa abitavamo. Era così amaro il nostro rapporto da arrivare a pensare che non fossi figlia sua. Crescendo, si sviluppava in me una totale ribellione verso di lui e verso tutto ciò che faceva. A ciò si aggiungeva la dolorosa presa di coscienza d’essere diversa: ero indigena. Avevo otto anni, cominciavo a frequentare la scuola. Un giorno una compagna dice alle altre: “A quella (ero io) non parlatele: è indigena”. Io, però, non mi sentivo diversa da loro: potevo sorridere, parlare, amare, sentire le cose che loro sentivano. Anche all’interno del nostro gruppo etnico c’era divisione e quelli che riuscivano ad emergere disprezzavano gli altri. Sognavo di studiare diritto per difendere il mio popolo dall’oppressione, vendicando le ingiustizie e il disprezzo ricevuti. Ancora alla scuola media, però, ho dovuto interrompere gli studi per sostenere la mia famiglia. Sono stata assunta in una fabbrica tessile dove lavoravo da 11 a 15 ore al giorno: un ambiente pieno di rivalità. Sfruttamento e stanchezza, comunque, li affrontavo volentieri pur di evitare ai miei fratelli la sofferenza e il disprezzo che avevo subito io. Poco alla volta ho ripreso a studiare di notte, ma più del sacrificio sentivo una gran forza di lottare per raggiungere io e la mia famiglia una posizione migliore. Ad una Mariapoli, l’incontro con l’Ideale, la scoperta di un mondo nuovissimo che mai avrei pensato esistesse. Mi colpiva soprattutto vedere che persone di differente condizione sociale, di razze differenti si amavano, pronte a dare la vita a vicenda. Vedevo comporsi una società nuova dove davvero ciascuno è uguale all’altro: tutti con la stessa dignità di figli di Dio. Ed è iniziata una piccola, ma vera, rivoluzione. Una cosa, però, non riuscivo a superare: il rancore verso papà. Capivo di dovergli chiedere scusa…”Nulla è impossibile a Dio” Nulla è impossibile a Dio”. A Lui potevo chiedere qualsiasi cosa… E’ stato un momento fortissimo di riconciliazione e ho sentito entrare in me un amore nuovo e più profondo. C’era ancora da far crollare la barriera verso quanti disprezzavano il mio popolo. Capivo che Dio mi chiedeva di andare oltre queste ferite. Attraverso un’esperienza concreta di perdono è entrata in me la libertà d’amare tutti, senza distinzione: e non solo perdonare, ma essere disposta a dar la vita per chi, da sempre, si era mostrato mio nemico, nemico del mio popolo. Aprendomi all’altro, lo sperimento, si arricchisce il mio essere guatemalteca e allo stesso tempo mi scopro parte di un popolo nuovo, quello di Dio. A. E. Guatemala   (altro…)

Parola di vita Dicembre 1999

La domanda di Maria, all'annuncio dell'Angelo: “Com'è possibile questo?” ebbe come risposta: “Nulla è impossibile a Dio” e, a riprova di ciò, le venne portato l'esempio di Elisabetta, che nella sua vecchiaia aveva concepito un figlio. Maria credette e divenne la Madre del Signore. Dio è onnipotente: questo suo nome si incontra frequentemente nella Sacra Scrittura ed è usato quando si vuole esprimere la potenza di Dio nel benedire, nel giudicare, nel dirigere il corso degli eventi, nel realizzare i suoi disegni. C'è un solo limite all'onnipotenza di Dio: la libertà umana, che si può opporre alla di lui volontà rendendo l'uomo impotente, mentre sarebbe chiamato a condividere la stessa forza di Dio.

«Nulla è impossibile a Dio»

E' questa una Parola che viene opportunamente a concludere per la Chiesa cattolica l'anno del Padre prima del Giubileo del 2000. E' una Parola, infatti, che ci apre ad una confidenza illimitata nell'amore di Dio-Padre, perché, se Dio è e il suo essere è Amore, la fiducia completa in lui non ne è che la logica conseguenza. Tutte le grazie sono in suo potere: temporali e spirituali, possibili e impossibili. Ed egli le dà a chi le chiede e anche a chi non chiede, perché, come dice il Vangelo, egli, il Padre, “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni” e a noi tutti chiede di agire come lui, con lo stesso amore universale, sostenuto dalla fede che:

«Nulla è impossibile a Dio»

Come vivere dunque questa Parola nella vita di ogni giorno? Noi tutti dobbiamo affrontare di quando in quando situazioni difficili, dolorose, sia nella nostra vita personale, sia nei rapporti con gli altri. E sperimentiamo a volte tutta la nostra impotenza perché avvertiamo in noi degli attaccamenti a cose e persone che ci rendono schiavi di legami da cui vorremmo liberarci. Ci troviamo spesso di fronte ai muri dell'indifferenza e dell'egoismo e ci sentiamo cadere le braccia di fronte ad avvenimenti che sembrano superarci. Ebbene, in questi momenti, la Parola di vita può venirci in aiuto. Gesù ci lascia fare l'esperienza della nostra incapacità, non già per scoraggiarci, ma per aiutarci a capire meglio che “nulla è impossibile a Dio”; per prepararci a sperimentare la straordinaria potenza della sua grazia, che si manifesta proprio quando vediamo che con la nostre povere forze non possiamo farcela.

«Nulla è impossibile a Dio»

Ripetendoci questo nei momenti più critici, ci verrà dalla Parola di Dio quell'energia che essa racchiude in sé, facendoci partecipare in qualche modo della stessa onnipotenza di Dio. Ad un patto, però, e cioè che si viva la sua volontà, cercando di irradiare attorno a noi quell'amore che è deposto nei nostri cuori. Così saremo all'unisono con l'Amore onnipotente di Dio per le sue creature, al quale tutto è possibile, ciò che concorre a realizzare i suoi piani sui singoli e sull'umanità. Ma c'è un momento speciale per poter vivere questa Parola e per sperimentarne tutta l'efficacia: è nella preghiera. Gesù ha detto che qualsiasi cosa chiederemo al Padre in nome suo egli ce la concederà. Proviamo dunque a chiedergli ciò che ci sta più a cuore con la certezza di fede che a lui nulla è impossibile: dalla soluzione di casi disperati, alla pace nel mondo; dalle guarigioni da malattie gravi, alla ricomposizione di conflitti familiari e sociali. Se poi siamo in più a chiedere la stessa cosa, in pieno accordo per l'amore reciproco, allora è Gesù stesso in mezzo a noi che prega il Padre e, secondo la sua promessa, otterremo. Con tale fede nell'onnipotenza di Dio e nel suo Amore, anche noi chiedemmo un giorno per N. che quel tumore, visto su una radiografia, “scomparisse”, quasi fosse un errore o un fantasma. E così avvenne. Questa fiducia sconfinata che ci fa sentire nelle braccia di un Padre al quale tutto è possibile, deve accompagnare sempre le vicende della nostra vita. Non è detto che otterremo sempre ciò che chiederemo. La sua è l'onnipotenza di un Padre e la usa sempre e soltanto per il bene dei suoi figli, che essi lo sappiano o no. L'importante è vivere coltivando la certezza che a Dio nulla è impossibile e questo ci farà sperimentare una pace mai provata.

Chiara Lubich

 

Incontro annuale del Comitato esecutivo della Federazione Luterana Mondiale

Il giorno successivo alla Firma sulla Dichiarazione Congiunta, il Presidente della Federazione Luterana Mondiale, il vescovo Christian Krause, ha accolto, sempre ad Augsburg, Chiara Lubich all’incontro annuale del comitato esecutivo della Federazione. “Niente è più urgente nel mondo di una potente corrente d’amore” affermava Chiara Lubich, tratteggiando i cardini di una spiritualità ecumenica già in atto in vari punti della cristianità, incentrata su questo amore che si fa reciproco tra cristiani e tra le Chiese. “Laddove i cristiani vivono così – aveva continuato – cresce la coscienza di formare sin d’ora, al di là di qualsiasi barriera confessionale, un unico popolo cristiano. E questo dialogo del popolo sarebbe necessario per accogliere e far sì che il dialogo teologico porti frutto“. Parole accolte “come incoraggiamento, particolarmente in questo momento della storia, in questo luogo storico, Augsburg“, dal vescovo Krause, che ha espresso “la certezza che ora il terreno è pronto per far sì che possiamo scoprirci come dono gli uni per gli altri“. “Penso – ha aggiunto – che la giornata di ieri ha confermato quanto da lei sottolineato: se fosse stata solo un accordo tra teologi che non incidesse sul popolo, non succederebbe niente“. Augsburg – 1° novembre 1999 (altro…)

Novembre 1999

La predicazione di Gesù si apre col discorso della montagna. Davanti al lago di Tiberiade su una collina nei pressi di Cafarnao, seduto, come usavano fare i maestri, Gesù annuncia alle folle l’uomo delle beatitudini. Più volte nell’Antico Testamento risuonava la parola “beato” e cioè l’esaltazione di colui che adempiva, nei modi più vari, la Parola del Signore. Le beatitudini di Gesù riecheggiavano in parte quelle che i discepoli già conoscevano; ma per la prima volta essi sentivano che i puri di cuore, non solo, come cantava il Salmo, erano degni di salire sul monte del Signore, ma addirittura potevano vedere Dio. Quale era dunque quella purezza così alta da meritare tanto? Gesù l’avrebbe spiegato più volte nel corso della sua predicazione. Cerchiamo perciò di seguirlo per attingere alla fonte dell’autentica purezza.

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio»

Anzitutto, secondo Gesù, vi è un mezzo sovrano di purificazione: “Voi siete già mondi in virtù della Parola che vi ho annunziato”. Non sono tanto degli esercizi rituali a purificare l’animo, ma la sua Parola. La Parola di Gesù non è come le parole umane. In essa è presente Cristo, come, in altro modo, è presente nell’Eucaristia. Per essa Cristo entra in noi e, finché la lasciamo agire, ci rende liberi dal peccato e quindi puri di cuore. Dunque la purezza è frutto della Parola vissuta, di tutte quelle Parole di Gesù che ci liberano dai cosiddetti attaccamenti, nei quali necessariamente si cade, se non si ha il cuore in Dio e nei suoi insegnamenti. Essi possono riguardare le cose, le creature, se stessi. Ma se il cuore è puntato su Dio solo, tutto il resto cade. Per riuscire in questa impresa, può essere utile, durante la giornata, ripetere a Gesù, a Dio, quell’invocazione del Salmo che dice: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene!”. Proviamo a ripeterlo spesso, e soprattutto quando i vari attaccamenti vorrebbero trascinare il nostro cuore verso quelle immagini, sentimenti e passioni che possono offuscare la visione del bene e toglierci la libertà. Siamo portati a guardare certi cartelloni pubblicitari, a seguire certi programmi televisivi? No, diciamogli: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene” e sarà questo il primo passo che ci farà uscire da noi stessi, ri-dichiarando il nostro amore a Dio. E così avremo acquistato in purezza. Avvertiamo a volte che una persona o un’attività si frappongono, come un ostacolo, fra noi e Dio e inquinano il nostro rapporto con Lui? E’ il momento di ripeterGli: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene”. Questo ci aiuterà a purificare le nostre intenzioni e a ritrovare la libertà interiore.

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio»

La Parola vissuta ci rende liberi e puri perché è amore. E’ l’amore che purifica, con il suo fuoco divino, le nostre intenzioni e tutto il nostro intimo, perché il “cuore” secondo la Bibbia è la sede più profonda dell’intelligenza e della volontà. Ma c’è un amore che Gesù ci comanda e che ci permette di vivere questa beatitudine. E’ l’amore reciproco, di chi è pronto a dare la vita per gli altri, sull’esempio di Gesù. Esso crea una corrente, uno scambio, un’atmosfera la cui nota dominante è proprio la trasparenza, la purezza, per la presenza di Dio che, solo, può creare in noi un cuore puro. E’ vivendo l’amore scambievole che la Parola agisce con i suoi effetti di purificazione e di santificazione. L’individuo isolato è incapace di resistere a lungo alle sollecitazioni del mondo, mentre nell’amore vicendevole trova l’ambiente sano, capace di proteggere la sua purezza e tutta la sua autentica esistenza cristiana.

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio»

Ed ecco il frutto di questa purezza, sempre riconquistata: si può “vedere” Dio, cioè capire la sua azione nella nostra vita e nella storia, sentire la sua voce nel cuore, cogliere la sua presenza là dove è: nei poveri, nell’Eucaristia, nella sua Parola, nella comunione fraterna, nella Chiesa. E’ un pregustare la presenza di Dio che comincia già da questa vita “camminando nella fede e non ancora in visione” fino a quando “vedremo faccia a faccia” eternamente. Chiara Lubich (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 125

Editoriale IL POSTO DEI CARISMI NELLA CHIESA – di Piero Coda – Quale posto hanno nella vita e nella missione della Chiesa i movimenti e le nuove comunità ecclesiali e, più in generale, quei carismi che il Concilio definisce “grazie speciali” e “doni straordinari”? Giovanni Paolo II, in occasione del Convegno celebrato a Roma in preparazione della Pentecoste ’98, ha voluto sottolineare che la dimensione istituzionale e quella carismatica “sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù, perché concorrono insieme a rendere presente il mistero di Cristo e la sua opera salvifica nel mondo”. Nel presente editoriale si cerca di approfondire brevemente il significato e le implicazioni di quest’importante affermazione. Nella luce dell’ideale dell’unità LA FAMIGLIA È IL FUTURO – di Chiara Lubich – Riportiamo il discorso tenuto dall’A. a Lucerna il 16 maggio 1999, in occasione del 19° Congresso Internazionale per la famiglia: “La famiglia è il futuro”. LA CULTURA DEL DARE – di Vera Araujo – L’individualismo che contraddistingue la modernità frutta un tipo di società chiusa, indifferente e inconsapevole dei bisogni e delle attese degli altri. Tale società è segnata dalla cultura dell’avere, dell’accumulare, dell’accaparrare, dell’avere, del consumare e dello sprecare. La cultura dell’avere partorisce una concezione antropologica monca, rivestita di non-valori, di sentimenti negativi. La società che ne deriva è quella “complessa” che mercifica tutta l’esistenza, incapace di instaurare rapporti interpersonali profondi. La risposta a tale cultura non può essere che la cultura del dare, una cultura che esprime la verità sull’uomo, come “homo donator”, la cui vera identità si esprime nell’essere dono in tutte le espressioni del suo vivere. L’articolo percorre le tracce della “cultura del dare” nel mistero stesso di Dio che si dona, nel suo disegno salvifico e nel messaggio evangelico. Si delineano così lo “stile” del dare e i suoi contenuti. L’articolo prosegue attingendo al pensiero dei Padri della Chiesa e, infine, viene messo in rilievo il contributo che il carisma dell’unità porta nella comprensione e nella metodologia del dare: “Guarda dunque ad ogni fratello donandoti a lui per donarti a Gesù e Gesù si donerà a te. E’ legge d’amore “date e vi sarà dato”, chè chi ama trabocca e tutto dona, sazio solo d’amare”.La cultura del dare è poi vista come il fondamento antropologico del progetto “Economia di comunione” che chiama le imprese a vivere la cultura del dare al loro interno e, poi, coi bisognosi con cui condividono gli utili. Saggi e Ricerche MOVIMENTI ECCLESIALI E LORO COLLOCAZIONE TEOLOGICA – di Joseph Cardinal Ratzinger – Per gentile concessione dell’A. pubblichiamo il testo del discorso da lui tenuto in occasione del Convegno preparatorio all’incontro delle comunità ecclesiali con Giovanni Paolo II in piazza san Pietro, alla vigilia della Pentecoste del 1998. IL DOLORE, UN GRIDO VERSO L’OLTRE – di Aldo Giordano – “Il tema del dolore è bruciante e misterioso, ma inevitabile. Esso è sempre di impressionante attualità: c’è il dolore dei singoli e c’è il dolore dei popoli. A livello personale esso emerge nella sua radicalità con il volto della morte delle persone amate (…). A livello storico esso ritorna come tragedia estrema nel grido di popolazioni intere che sono esposte al destino del massacro, dello sradicamento sistematico e delle violenze più inaudite”. L’autore, con “timore e tremore”, attraverso gli strumenti della riflessione filosofica, percorre i vari livelli dell’esperienza umana implicati nella questione del dolore. Questo cammino conduce alla progressiva radicalizzazione della domanda, del “perché”. Il momento sorprendente di svolta del discorso avviene quando questo “perché”, che esplode nel dolore umano, s’incontra con il “perché” del Dio Crocifisso fuori le mura. Se la lacerazione causata dal dolore diviene per il Cristo lo spazio per l’accadere di un Amore che vince la signoria della morte, anche le ferite sperimentate dall’uomo non potranno divenire spazio del realizzarsi di un amore già segnato dall’eterno? CHE COS’È PENSARE? UNA RIFLESSIONE ALLA LUCE DI GESÙ ABBANDONATO – di Giuseppe Maria Zanghí – Giovanni Paolo II ha ricordato che la civiltà contemporanea riuscirà a sopravvivere e a svilupparsi nella misura in cui saprà elaborare un’autentica civiltà del pensiero. L’A. si interroga su cosa sia il pensare esplorando sinteticamente alcune possibili risposte, e suggerendo infine una proposta di soluzione. Spazio letterario DIZIONARIETTO DI PAROLE INCOSCIENTI – III – di Giovanni Casoli “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Libri VERSO UNA IMPOSTAZIONE COMUNIONALE DELLA TEOLOGIA MORALE. L’ETICA ECCLESIALE DI STANLEY HAUERWAS – di Christian Hennecke – La teologia è in ricerca di un nuovo paradigma. Soprattutto nella teologia morale si avverte che di fronte alle esigenze del tempo di oggi è necessario un ripensamento degli stessi fondamenti del’etica. Su questo sfondo il contributo di S. Hauerwas, uno dei più importanti teologi negli USA, può dare degli spunti e delle prospettive interessanti. Nel suo lavoro egli cerca di radicare l’ethos cristiano nel vissuto della comunità. Si inserisce così nella ricerca soprattutto dei filosofi anglosassoni per oltrepassare le strette di un liberalismo sfrenato. Accogliendo le istanze del comunitarismo, la riflessione di Hauerwas porta ad un rinnovamento della stessa teologia morale fondamentale.   (altro…)

Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione

Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione

Ha segnato un avvenimento storico

la firma il 31 ottobre ad Augsburg (Germania), nella Chiesa di s. Anna, della Dichiarazione congiunta tra la Chiesa cattolica e la Federazione Luterana Mondiale sulla Dottrina della Giustificazione. E’ caduto così un pilastro teologico portante della divisione tra le due Chiese. La questione della giustificazione aveva scatenato – 450 anni fa – una polemica che portò a condanne reciproche, giunte sino ad oggi. Fu questa una delle cause fondamentali della separazione. Dopo 30 anni di lavoro della Commissione teologica internazionale luterano-cattolica, grazie alle preghiere e all’impegno di molti, è stato possibile superare anche gli ultimi ostacoli. La Dichiarazione congiunta afferma, tra l’altro, l’esistenza “di un consenso tra luterani e cattolici su verità fondamentali di tale dottrina”. Si considerano così decadute le reciproche condanne del passato sulla giustificazione. “Il documento – afferma il Card. Ratzinger – dice che le scomuniche del Concilio di Trento in questo settore non toccano la dottrina così come è esposta oggi” (Intervista a “30 Giorni”, giugno ’99). “Non vi è stato nessun rinnegamento del passato, – precisa un comunicato del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani (21.6.99) –  ma piuttosto un comune passo in avanti nella comprensione del mistero della salvezza in Cristo, reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Non si tratta di una disputa teologica del XVI secolo che oggi non ha più interesse. La giustificazione è una questione attualissima che risponde a domande vitali dell’uomo: Che cos’è che rende il cristiano giusto davanti a Dio? Chi lo salva e dà piena realizzazione alla sua vita? L’essere giusti è frutto della sola nostra buona volontà? Qual è la salvezza che la fede cristiana promette? La firma verrà apposta su: la “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (1997)” la “Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica”, e l’ “Allegato” (11 giugno 99) La solenne cerimonia della firma dell’avvenuto consenso sarà preceduta, sabato 30 ottobre, da varie iniziative collaterali, tra cui una manifestazione promossa dal Centro Ecumenico di Ottmaring (Movimento dei Focolari e Bruderschaft von Gemeinsamen Leben, fraternità evangelica) nella chiesa luterana di St. Ulrich ad Augsburg. Alcune personalità daranno la loro testimonianza su quanto significa nella loro vita il fatto di essere “giustificati da Dio”. Parleranno il Vescovo emerito evangelico-luterano di Lübech, Ulrich Wilckens, Frère Richard di Taizé, Chiara Lubich, Andrea Riccardi. La firma è stata apposta da parte cattolica dal Card. E.I. Cassidy e dal Vescovo W. Kasper, Presidente e Segretario del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani e, da parte luterana, dal Vescovo Ch. Krause e dal Dott. I. Noko, Presidente e Segretario Generale della Federazione Luterana Mondiale, oltre che da sei Vice-presidenti della Federazione, su: la “Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (1997)” la “Dichiarazione ufficiale comune della Federazione Luterana Mondiale e della Chiesa cattolica”, e l’ “Allegato” (11 giugno 99) Per saperne di più: www.rechtfertigung.de  in tedesco e inglese www.justification.org (altro…)

Incontro con 1700 giovani nella Chiesa luterana di St. Ulrich ad Augsburg

Interventi di: Chiara Lubich, Andrea Riccardi, e del Vescovo emerito luterano Wilckens, presente  l’arcivescovo Kasper,  allora segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani (Augsburg – 30 ottobre 1999) Una preoccupazione comune, espressa da tanti – dal card. Ratzinger ai vescovi Krause e Kasper, segretario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani – è come spiegare alla gente di oggi, soprattutto ai giovani, la Giustificazione. Una prima risposta è stata data alla vigilia stessa dell’avvenimento, nella Chiesa luterana di St. Ulrich ad Ausgburg. Erano circa 1700 i giovani, riuniti per iniziativa del Centro Ecumenico di Ottmaring, presente anche il Vescovo Kasper. “Un pomeriggio così variopinto mi ha presentato un volto del tutto nuovo della Chiesa” l’impressione a caldo di una giovane signora, medico, che si era allontanata dalla fede. E tutto in quella chiesa parlava con il linguaggio dei giovani: “Sopra la balaustra campeggiavano un arcobaleno di palloncini. Trampolieri con uno striscione hanno dato il benvenuto ai giovani. Ritmi rock e brani di musical invece che le note dell’organo” – osserva il quotidiano Augsburger Allgemeine – “La chiesa evangelica gremita fino all’ultimo posto ospita un forum delle diverse tradizioni cristiane. Un incontro che lascia un’impressione duratura nei presenti. Un incontro intenso, aperto schietto“. Alla luce del documento di consenso di Augsburg sulla Giustificazione, la domanda centrale è: “Che cosa rende preziosa la tua vita?”. Scroscianti applausi dopo l’appello appassionato di Chiara Lubich: “Se noi ci amiamo a vicenda, cristiani cattolici e evangelici, allora ad Augsburg inizia la rivoluzione cristiana.” La fondatrice dei Focolari, aveva testimoniato con passione Dio amore, facendo vedere la bellezza, la forza, la coerenza di una vita immersa nel Suo Amore che ci libera e salva da ogni baratro piccolo o grande in cui possiamo essere caduti. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’ Egidio, aveva fatto un esempio efficace: “Immaginate dei carcerati nel braccio della morte. E’ l’ora della condanna. Arriva un poliziotto: ‘Non sarai condannato!’. Tutti salvi, tutti liberi, tutti graziati. Anche noi siamo prigionieri dell’angoscia, dell’egoismo, della ricchezza e della solitudine. Anche noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica: ‘Siamo liberi, amati, giustificati’”. Un esempio personale è portato dal vescovo luterano di Lubecca, Ulrich Wilckens: diciassettenne, negli ultimi giorni della guerra del ’45, doveva difendere la patria. Da solo si trovava in una trincea con una “paura folle”. Paura superata “come per un miracolo” per merito della fede, riconfermata dalla Sacra Scrittura che, in formato tascabile, portava con sé. E’ festa. Festa – come Wilckens ha definito questo momento storico – per “il ricongiungersi di una famiglia dove i genitori erano divorziati e si ritrovano“. E proprio i giovani sono forse i più sensibili a questa riconciliazione. Dopo questi avvenimenti, simbolicamente fissati dall’abbraccio del pastore Noko e del vescovo cattolico Kasper al momento della storica firma che ha suscitato grande emozione in tutti, l’impressione a caldo di una giovane evangelica esprime la certezza che “sì, un pezzo di muro tra le Chiese è crollato, d’ora in poi si accelereranno i tempi per l’unità.” (altro…)

Ottobre 1999

Questa Parola la si trova già nell’Antico Testamento. Per rispondere ad una domanda insidiosa, Gesù si inserisce nella grande tradizione profetica e rabbinica che era alla ricerca del principio unificatore della Torah, e cioè dell’insegnamento di Dio contenuto nella Bibbia. Rabbi Hillel, un suo contemporaneo, aveva detto: “Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te, questa è tutta la legge. Il resto è solo spiegazione”. Per i maestri dell’ebraismo l’amore del prossimo deriva dall’amore a Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, per cui non si può amare Dio senza amare la sua creatura: questo è il vero motivo dell’amore del prossimo, ed è “un grande e generale principio nella legge”. Gesù ribadisce questo principio e aggiunge che il comando di amare il prossimo è simile al primo e più grande comandamento, quello cioè di amare Dio con tutto il cuore, la mente e l’anima. Affermando una relazione di somiglianza fra i due comandamenti Gesù li salda definitivamente e così farà tutta la tradizione cristiana; come dirà lapidariamente l’apostolo Giovanni: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Prossimo – lo dice chiaramente tutto il Vangelo – è ogni essere umano, uomo o donna, amico o nemico, al quale si deve rispetto, considerazione, stima. L’amore del prossimo è universale e personale al tempo stesso. Abbraccia tutta l’umanità e si concreta in colui-che-ti-sta-vicino. Ma chi può darci un cuore così grande, chi può suscitare in noi una tale benevolenza da farci sentire vicini – prossimi – anche coloro che sono più estranei a noi, da farci superare l’amore di sé, per vedere questo sé negli altri? E’ un dono di Dio, anzi è lo stesso amore di Dio che “è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Non è quindi un amore comune, non una semplice amicizia, non la sola filantropia, ma quell’amore che è versato sin dal battesimo nei nostri cuori: quell’amore che è la vita di Dio stesso, della Trinità beata, al quale noi possiamo partecipare. Dunque l’amore è tutto, ma per poterlo vivere bene occorre conoscere le sue qualità che emergono dal Vangelo e dalla Scrittura in genere e che ci sembra poter riassumere in alcuni aspetti fondamentali. Per prima cosa Gesù, che è morto per tutti, amando tutti, ci insegna che il vero amore va indirizzato a tutti. Non come l’amore che viviamo noi tante volte, semplicemente umano, che ha un raggio ristretto: la famiglia, gli amici, i vicini… L’amore vero che Gesù vuole non ammette discriminazioni: non distingue tanto la persona simpatica dall’antipatica, non c’è per esso il bello, il brutto, il grande o il piccolo; per questo amore non c’è quello della mia patria o lo straniero, quello della mia Chiesa o di un’altra, della mia religione o di un’altra. Tutti ama quest’amore. E così dobbiamo fare noi: amare tutti. L’amore vero, ancora, ama per primo, non aspetta di essere amato, come in genere è dell’amore umano: si ama chi ci ama. No, l’amore vero prende l’iniziativa, come ha fatto il Padre quando, essendo noi ancora peccatori, quindi non amanti, ha mandato il Figlio per salvarci. Quindi: amare tutti e amare per primi. E ancora: l’amore vero vede Gesù in ogni prossimo: “L’hai fatto a me” ci dirà Gesù al giudizio finale. E ciò vale per il bene che facciamo e anche per il male purtroppo. L’amore vero ama l’amico e anche il nemico: gli fa del bene, prega per lui. Gesù vuole anche che l’amore, che egli ha portato sulla terra, diventi reciproco: che l’uno ami l’altro e viceversa, sì da arrivare all’unità. Tutte queste qualità dell’amore ci fanno capire e vivere meglio la parola di vita di questo mese.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso».

Sì, l’amore vero ama l’altro come se stesso. E ciò va preso alla lettera: occorre proprio vedere nell’altro un altro sé e fare all’altro quello che si farebbe a sé stessi. L’amore vero è quello che sa soffrire con chi soffre, godere con chi gode, portare i pesi altrui, che sa, come dice Paolo, farsi uno con la persona amata. E’ un amore, quindi, non solo di sentimento, o di belle parole, ma di fatti concreti. Chi ha un altro credo religioso cerca pure di fare così per la cosiddetta “regola d’oro” che ritroviamo in tutte le religioni. Essa vuole che si faccia agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. Gandhi la spiega in modo molto semplice ed efficace: “Non posso farti del male senza ferirmi io stesso”. Questo mese, dunque, deve essere un’occasione per rimettere a fuoco l’amore del prossimo, che ha così tanti volti: dal vicino di casa, alla compagna di scuola, dall’amico alla parente più stretta. Ma ha anche i volti di quell’umanità angosciata che la TV porta nelle nostre case dai luoghi di guerra e di catastrofi naturali. Una volta erano sconosciuti e lontani mille miglia. Ora sono divenuti anch’essi nostri prossimi. L’amore ci suggerirà volta per volta cosa fare, e dilaterà a poco a poco il nostro cuore sulla misura di quello di Gesù. Chiara Lubich (altro…)

Settembre 1999

Gesù con queste sue parole risponde a Pietro che, dopo aver ascoltato cose meravigliose dalla sua bocca, gli ha posto questa domanda: “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? fino a sette volte?”. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Pietro, probabilmente, sotto l’influenza della predicazione del Maestro, aveva pensato di lanciarsi, buono e generoso com’era, nella sua nuova linea, facendo qualcosa di eccezionale: arrivando a perdonare fino a sette volte. Nel giudaismo infatti si ammetteva un perdono di due, tre volte, al massimo quattro. Ma Gesù rispondendo: “… fino a settanta volte sette”, dice che per lui il perdono deve essere illimitato: occorre perdonare sempre.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Questa Parola fa ricordare il canto biblico di Lamech, un discendente di Adamo: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. Così inizia il dilagare dell’odio nei rapporti fra gli uomini del mondo: ingrossa come un fiume in piena. A questo dilagare del male, Gesù oppone il perdono senza limite, incondizionato, capace di rompere il cerchio della violenza. Il perdono è l’unica soluzione per arginare il disordine e aprire all’umanità un futuro che non sia l’autodistruzione.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Perdonare. Perdonare sempre. Il perdono non è dimenticanza che spesso significa non voler guardare in faccia la realtà. Il perdono non è debolezza, e cioè non tener conto di un torto per paura del più forte che l’ha commesso. Il perdono non consiste nell’affermare senza importanza ciò che è grave, o bene ciò che è male.  Il perdono non è indifferenza. Il perdono è un atto di volontà e di lucidità, quindi di libertà, che consiste nell’accogliere il fratello e la sorella così com’è, nonostante il male che ci ha fatto, come Dio accoglie noi peccatori, nonostante i nostri difetti. Il perdono consiste nel non rispondere all’offesa con l’offesa, ma nel fare quanto Paolo dice: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. Il perdono consiste nell’aprire a chi ti fa del torto la possibilità d’un nuovo rapporto con te, la possibilità quindi per lui e per te di ricominciare la vita, d’aver un avvenire in cui il male non abbia l’ultima parola.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Come si farà allora a vivere questa Parola? Pietro aveva chiesto a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare a mio fratello?”; “… a mio fratello”. E Gesù, rispondendo, aveva di mira, dunque, soprattutto i rapporti fra cristiani, fra membri della stessa comunità. E’ dunque prima di tutto con gli altri fratelli e sorelle nella fede che bisogna comportarsi così: in famiglia, sul lavoro, a scuola o nella comunità di cui si fa parte. Sappiamo quanto spesso si vuole compensare con un atto, con una parola corrispondente, l’offesa subita. Si sa come per diversità di carattere, o per nervosismo, o per altre cause, le mancanze di amore sono frequenti fra persone che vivono insieme. Ebbene, occorre ricordare che solo un atteggiamento di perdono, sempre rinnovato, può mantenere la pace e l’unità tra fratelli. Ci sarà sempre la tendenza a pensare ai difetti delle sorelle e dei fratelli, a ricordarsi del loro passato, a volerli diversi da come sono… Occorre far l’abitudine a vederli con occhio nuovo e nuovi loro stessi, accettandoli sempre, subito e fino in fondo, anche se non si pentono. Si dirà: “Ma ciò è difficile”. Si capisce. Ma qui è il bello del cristianesimo. Non per nulla siamo alla sequela di Cristo che, sulla croce, ha chiesto perdono al Padre per coloro che gli avevano dato la morte, ed è risorto. Coraggio. Iniziamo una vita così, che ci assicura una pace mai provata e tanta gioia sconosciuta. Chiara Lubich   (altro…)

Agosto 1999

Questa Parola fa parte di un avvenimento semplice e altissimo al tempo stesso: è l’incontro fra due gestanti, fra due madri, la cui simbiosi spirituale e fisica con i loro figli è totale. Sono esse la loro bocca, i loro sentimenti. Quando parla Maria, il bambino di Elisabetta fa un balzo di gioia nel suo ventre. Quando parla Elisabetta sembra che le parole le siano messe sulle labbra dal Precursore. Ma mentre le prime parole del suo inno di lode a Maria sono rivolte personalmente alla madre del Signore, le ultime sono dette in terza persona: “Beata colei che ha creduto”. Così la sua “affermazione acquista carattere di verità universale: la beatitudine vale per tutti i credenti, concerne coloro che accolgono la Parola di Dio e la mettono in pratica e che trovano in Maria il modello ideale” (1).

«E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore.»

E’ la prima beatitudine del Vangelo che riguarda Maria, ma anche tutti coloro che la vogliono seguire e imitare. C’è uno stretto legame, in Maria, tra fede e maternità, come frutto dell’ascolto della Parola. E Luca qui ci suggerisce qualcosa che riguarda anche noi. Più avanti nel suo Vangelo Gesù dice: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (2). Anticipando quasi queste parole, Elisabetta, mossa dallo Spirito Santo, ci annuncia che ogni discepolo può diventare “madre” del Signore. La condizione è che creda alla Parola di Dio e che la viva.

«E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore.»

Maria, dopo Gesù, è colei che meglio e più perfettamente ha saputo dire “sì” a Dio. E’ soprattutto questa la sua santità e la sua grandezza. E se Gesù è il Verbo, la Parola incarnata, Maria, per la sua fede nella Parola è la Parola vissuta, ma creatura come noi, uguale a noi. Il ruolo di Maria come madre di Dio è eccelso e grandioso. Ma Dio non chiama solo la Vergine a generare Cristo in sé. Seppure in altro modo, ogni cristiano ha un simile compito: quello di incarnare Cristo fino a ripetere, come san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (3). Ma come attuare ciò? Con l’atteggiamento di Maria verso la Parola di Dio e cioè di totale disponibilità. Credere dunque, con Maria, che si realizzeranno tutte le promesse contenute nella Parola di Gesù e affrontare, come Maria, se occorre, il rischio dell’assurdo che alle volte la sua Parola comporta. Grandi e piccole cose, ma sempre meravigliose, accadono a chi crede nella Parola. Si potrebbero riempire dei libri con i fatti che lo provano. Chi può dimenticare quando, in piena guerra, credendo alle parole di Gesù “chiedete e vi sarà dato”4 abbiamo chiesto tutto quello di cui tanti poveri in città avevano bisogno e vedevamo arrivare sacchi di farina, scatole di latte, di marmellata, legna, vestiario? Anche oggi accadono le stesse cose. “Date e vi sarà dato” (5) e i magazzini della carità sono sempre pieni, essendo regolarmente svuotati. Ma ciò che colpisce di più è come le parole di Gesù sono vere sempre e dovunque. E l’aiuto di Dio arriva puntuale anche in circostanze impossibili, e nei punti più isolati della terra, come è accaduto poco tempo fa ad una madre che vive in grande povertà. Un giorno si è sentita spinta a dare i suoi ultimi soldi ad una persona più povera di lei. Credeva a quel “date e vi sarà dato” del Vangelo. E aveva una grande pace nell’animo. Poco dopo è arrivata la sua bambina più piccola e le ha mostrato un dono appena ricevuto da un anziano parente che, per caso, era passato di lì: nella sua manina c’erano i soldi moltiplicati. Una “piccola” esperienza come questa ci spinge a credere nel Vangelo; e ciascuno di noi può provare quella gioia, quella beatitudine che viene dal vedere realizzate le promesse di Gesù. Quando, nella vita di tutti i giorni, nella lettura delle Sacre Scritture ci incontreremo con la Parola di Dio, apriamo il nostro cuore all’ascolto, con la fede che ciò che Gesù ci chiede e promette si avvererà. Non tarderemo a scoprire, come Maria e come quella madre, che Egli mantiene le sue promesse. Chiara Lubich 1) G.Rossé, Il Vangelo di Luca, Roma, 1992, p.67. 2) Lc 8,21. 3) Gal 2,20. 4) Mt 7,7. 5) Lc 6,38. (altro…)

Luglio 1999

In questa brevissima parabola, Gesù colpisce fortemente l’immaginazione dei suoi ascoltatori. Tutti sapevano il valore delle perle che, assieme all’oro, erano allora quanto di più prezioso si conoscesse. In più, le Scritture parlavano della sapienza e cioè della conoscenza di Dio come di qualcosa da non paragonare “neppure a una gemma inestimabile”. Ma viene in rilievo nella parabola l’avvenimento eccezionale, sorprendente e inatteso che rappresenta per quel commerciante l’aver adocchiato, forse in un bazar, una perla che solo ai suoi occhi esperti aveva un valore enorme e dalla quale perciò poteva ricavare un ottimo profitto. Ecco perché, avendo fatto i suoi calcoli, decide che valeva la pena di vendere tutto per comprare la perla. E chi non avrebbe fatto lo stesso al suo posto? Ecco dunque il significato profondo della parabola: l’incontro con Gesù, e cioè con il Regno di Dio fra noi – ecco la perla! -, è quell’occasione unica che bisogna prendere al volo, impegnando fino in fondo tutte le proprie energie e ciò che si possiede.

«Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va’, vende tutti i suoi averi e la compra».

Non è la prima volta che i discepoli si sentono messi di fronte ad un’esigenza radicale e cioè a quel tutto che bisogna lasciare per seguire Gesù: i beni più preziosi quali gli affetti familiari, la sicurezza economica, le garanzie per il futuro. Ma la sua non è una richiesta immotivata e assurda. Per un “tutto” che si perde c’è un “tutto” che si trova, inestimabilmente più prezioso. Ogni volta che Gesù domanda qualcosa, promette anche di dare molto, molto di più, in misura sovrabbondante. Così con questa parabola ci assicura che avremo tra le mani un tesoro che ci farà ricchi per sempre. E, se può sembrare un errore lasciare il certo per l’incerto, un bene sicuro per un bene solo promesso, pensiamo a quel mercante: egli sa che quella perla è molto preziosa ed attende fiducioso ciò che gli procurerà trafficandola. Così chi vuol seguire Gesù sa, vede, con gli occhi della fede, quale immenso guadagno sarà condividere con lui l’eredità del Regno per aver tutto lasciato almeno spiritualmente.  A tutti gli uomini Dio offre nella vita un’occasione del genere perché la sappiano afferrare.

«Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va’, vende tutti i suoi averi e la compra».

E’ un invito concreto a mettere da parte tutti quegli idoli che nel cuore possono prendere il posto di Dio: carriera, matrimonio, studi, una bella casa, la professione, lo sport, il divertimento. E’ un invito a mettere Dio al primo posto, al vertice di ogni nostro pensiero, di ogni nostro affetto perché tutto nella vita deve convergere a lui e tutto da lui deve discendere. Facendo così, cercando il Regno, secondo la promessa evangelica, il resto ci sarà dato in sovrappiù. Accantonando tutto per il Regno di Dio riceviamo il centuplo in case, fratelli, sorelle, padri e madri, perché il Vangelo ha una chiara dimensione umana: Gesù è uomo-Dio e insieme al cibo spirituale ci assicura il pane, la casa, il vestito, la famiglia. Forse dovremmo imparare dai “piccoli” a fidarci di più della Provvidenza del Padre, che non fa mancare nulla a chi dà, per amore, tutto quel poco che ha. In Congo un gruppo di ragazzi fabbricano da alcuni mesi cartoline artistiche con la scorza di banana, vendute poi in Germania. In un primo momento trattengono tutto il ricavato (qualcuno mantiene con ciò l’intera famiglia). Ora hanno deciso di mettere il 50% in comune e 35 giovani disoccupati hanno ricevuto un aiuto. E Dio non si lascia vincere in generosità: due di questi ragazzi hanno dato una tale testimonianza nel negozio ove sono impiegati, che diversi commercianti, in cerca di personale, si sono rivolti a quel negozio. Ben in undici hanno così trovato un lavoro fisso. Chiara Lubich (altro…)

Incontro internazionale di 41 movimenti ecclesiali a Speyer

… Il Convegno di Speyer – hanno sottolineato i promotori – è frutto della comunione che sta nascendo tra i movimenti. “Troviamo – ha osservato Chiara Lubich, presidente del Movimento dei Focolari – un’attesa incredibile per questa comunione, grande entusiasmo”. Chiara ha ricordato gli effetti suscitati dall’incontro di Pentecoste a Roma: “Ogni indifferenza reciproca era sparita, ogni prevenzione svanita, ogni resistenza sciolta”. Simili iniziative si sono ripetute quest’anno nelle varie chiese locali, alla presenza del vescovo. “Il nostro cuore – ha detto Chiara – si è allargato maggiormente su tutta la Chiesa, alla quale è stato donato ogni carisma. Con gioia si è vista nelle giornate l’occasione di svelare ciò che la Chiesa particolare ha nel suo seno: queste nuove forze, non sempre conosciute, perché ne goda e prenda nuovo coraggio”. da SIR 44 – 9.VI.1999 – pag.16 (altro…)

Messaggio del Papa Giovanni Paolo II

Osservatore Romano – 9 giugno 1999

I Movimenti e le nuove Comunità ecclesiali si impegnino “per una testimonianza comune “

«I doni del Signore si tramutino in impegno per tetimomonianza comune». E’ l’esortazione rivolta da Giovanni Paolo II nel Messaggio inviato ai partecipanti al Convegno internazionale dei Movimenti e delle nuove Comunità ecclesiali promosso a Speyer (Germania), ad un anno dallo storico incontro svoltosi in Vaticano alla Vigilia di Pentecoste 1998. Ecco il testo del Messaggio del Papa: «Carissimi Fratelli e Sorelle! I. L’amore di Dio Padre, la grazia del Signore nostro Gesù Cristo e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi! Con queste parole saluto tutti voi, che partecipate al Convegno internazionale dei movimenti e delle nuove comunità ecclesiali, che si sta svolgendo a Speyer. Un saluto particolare rivolgo a S.E. Mons. Anton Schlembach, che vi ha generosamente accolti nella sua diocesi, a Sua Eminenza il Cardinale Miloslav Vlk, ed agli altri Vescovi e sacerdoti, amici dei movimenti, che vi accompagnano in questi giorni. Un caro pensiero va ai promotori del Convegno: Chiara Lubich, Andrea Riccardi e Salvatore Martìnez. Avete voluto ritrovarvi insieme, rappresentanti di vari movimenti e nuove comunità, un anno dopo l’incontro organizzato dal Pontificio Consiglio per i Laici in Piazza San Pietro, alla vigilia di Pentecoste del 1998. Quell’evento è stato un dono grande per tutta la Chiesa. In un clima di fervente preghiera, abbiamo potuto sperimenta- re la presenza dello Spirito Santo. Una presenza resa tangibile dalla “testimonianza comune”, che i movimenti hanno saputo dare di intesa profonda e di unità nel rispetto della diversità di ciascuno. E stata una significativa epifania della Chiesa, ricca dei carismi e dei doni che lo Spirito non cessa di elargirle. 2. Ogni dono del Signore, voi lo sapete bene, interpella la nostra responsabilità e non può non tramutarsi in impegno per un compito da osservare fedelmente. E proprio questa, del resto, la motivazione fondamentale del Convegno di Speyer. Ascoltando ciò che lo Spirito dice alle Chiese (cfr Ap 2.7) alla vigilia del Grande Giubileo della Redenzione, voi volete assumervi direttamente ed insieme con gli altri movimenti la responsabilità del dono ricevuto quel 30 maggio 1998. Il seme, sparso in abbondanza, non può andare perduto, ma deve produrre frutto all’interno delle vostre comunità, nelle parrocchie e nelle diocesi. E bello e dà gioia vedere come i movimenti e le nuove comunità sentano l’esigenza di convergere nella comunione ecclesiale, e si sforzino con gesti concreti di comunicarsi i doni ricevuti, di sostenersi nelle difficoltà e di cooperare per affrontare insieme le sfide della nuova evangelizzazione. Sono, questi, segni eloquenti di quella maturità ecclesiale che auspico caratterizzi sempre più ogni componente ed articolazione della comunità ecclesiale. 3. Lungo questi anni ho avuto modo di constatare quanto importanti siano i frutti di conversione, di rinascita spirituale e di santità che i movimenti recano alla vita delle Chiese locali. Grazie al dinamismo di queste nuove aggregazioni ecclesiali, tanti cristiani hanno riscoperto la vocazione radicata nel Battesimo e si sono dedicati con straordinaria generosità alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Per non pochi è stata l’occasione di riscoprire il valore della preghiera, mentre la Parola di Dio è diventata il loro pane quotidiano e l’Eucaristia il centro della loro esistenza. Nell’Enciclica Redemptoris missio ricordavo, come novità emersa in non poche Chiese nei tempi recenti, il grande sviluppo dei “movimenti ecclesiali”, dotati di dinamismo missionario: “Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle Chiese locali e sono accolti cordialmente da Vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e parrocchiali – scrivevo – i movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova evangelizzazione e per l’attività missionaria propria- mente detta. Raccomando, quindi, di diffonderli e di avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra ì giovani, alla vita cristiana e all’evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di esprimersi” (n. 72). Auguro di cuore che il Convegno di Speyer sia per ciascun di voi e per tutti i vostri movimenti un’occasione di crescita nell’amore di Cristo e della sua Chiesa, secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo, che esorta ad aspirare “ai carismi più grandi” (1 Cor 12, 31). Affido i lavori del vostro incontro a Maria, Madre della Chiesa, e vi accompagno con le mie preghiere, mentre a ciascuno di voi ed alle vostre famiglie imparto una speciale Benedizione». Giovanni Paolo II Dal Vaticano, 3 Giugno 1999. (altro…)

Convegno SPEYER 1999

Convegno SPEYER 1999

Il 7 e 8 giugno 1999 si sono incontrati a Speyer in Germania fondatori e responsabili di oltre 40 Movimenti e nuove comunità da 16 Paesi d’Europa dell’Est e dell’Ovest tra cui Comunione e Liberazione, Cursillos, Comunità dell’Arche, Schoenstatt, Movimento dei Focolari, Comunità di Sant’ Egidio, Rinnovamento nello Spirito. “E’ stata un’esperienza straordinaria di comunione ecclesiale. Veramente dopo il 30 maggio dell’anno scorso è stata una ulteriore spinta da parte dello Spirito Santo per intensificare il nostro cammino insieme e soprattutto il nostro sforzo di essere veramente al servizio dell’evangelizzazione del mondo, alle soglie del Terzo Millennio”. S.E. Mons. Stanislao Rylko, segretario del Pontificio Consiglio per i Laici Questa è una delle iniziative a cui  ha fatto riferimento il Papa a Pentecoste ’99, ricordando il grande incontro in piazza S. Pietro alla vigilia di Pentecoste ’98. “E’ stato un incontro che ha prodotto frutti preziosi. Si sono moltiplicate, infatti, le iniziative miranti ad alimentare nei movimenti e nelle comunità il senso di comunione, allo scopo di far crescere la collaborazione fra loro e anche in seno alle Chiese locali e alle parrocchie”. E ancora ringraziava “il Signore per questa promettente primavera della Chiesa, ricca di speranza“. Dalla grande manifestazione dello scorso anno in piazza S. Pietro, infatti, si è intessuta una rete di rapporti tra i fondatori e responsabili di alcuni dei più grandi Movimenti ecclesiali. In apertura è stato letto il messaggio del Papa da S.E. mons. Stanislao Rylko, Segretario del Pontificio Consiglio per i Laici. Durante il convegno si è intensificata la conoscenza reciproca e sono stati trattati alcuni temi, come: i movimenti nella storia della Chiesa e la nuova Pentecoste nella Chiesa. E’ stata approfondita la nuova pagina aperta dal Papa sulla coessenzialità di carismi e istituzione. Si è parlato delle iniziative di comunione e collaborazione e dei frutti che ne sono scaturiti. Presente anche il Card. Miloslav Vlk, presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali Europee. Co-promotori sono stati il Movimento dei Focolari, la Comunità di Sant’ Egidio, il Rinnovamento nello Spirito.  

RASSEGNA STAMPA

OSSERVATORE ROMANO: Messaggio del S.Padre SIR: Incontro internazionale di 41 Movimenti a Speyer SIR: Diversi ma uniti RADIO VATICANA: Comunione e nuovo impegno – Interviste al Vescovo Stanislao Rylko e Chiara Lubich

INTERVENTI

Perché ci siamo radunati qui: la comunione tra i Movimenti – dagli interventi di Chiara Lubich I Movimenti nella storia della Chiesa – Andrea Riccardi Lo Spirito Santo e la nuova Pentecoste nella Chiesa – Oreste Pesare I carismi e la coessenzialità – prof. Piero Coda I Movimenti e le nuove frontiere – Mons. Vincenzo Paglia I Movimenti nella Chiesa – P. J. Castellano Cervera Il post-Pentecoste ’98: le Giornate comuni – d. Silvano Cola Per la moratoria della pena di morte – Mathias Leinweber Movimenti ecclesiali insieme: in Portogallo vince la vita – Antonio Borges (altro…)

Giugno 1999

Leggendo questa Parola di Gesù vengono in rilievo due tipi di vita: la vita terrena che si costruisce in questo mondo, e la vita soprannaturale data da Dio, attraverso Gesù, vita che non finisce con la morte e che nessuno può togliere. Di fronte all’esistenza, allora, si possono avere due atteggiamenti: o attaccarsi alla vita terrena, considerandola come l’unico bene, e saremo portati a pensare a noi stessi, alle nostre cose, alle nostre creature; ci chiuderemo nel nostro guscio, affermando solo il proprio io, e troveremo come conclusione alla fine, inevitabilmente, solo la morte. Oppure, diversamente, credendo che abbiamo ricevuto da Dio un’esistenza ben più profonda e autentica, avremo il coraggio di vivere in modo da meritare questo dono fino al punto di saper sacrificare la nostra vita terrena per l’altra.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Quando Gesù ha detto queste parole pensava al martirio. Noi, come ogni cristiano, dobbiamo essere pronti, per seguire il Maestro e rimanere fedeli al Vangelo, a perdere la nostra vita, morendo – se necessario – anche di morte violenta, e con la grazia di Dio ci sarà data con ciò la vera vita. Gesù per primo ha “perso la sua vita” e l’ha ottenuta glorificata. Egli ci ha preavvertito di non temere “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. Oggi ci dice:

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Se leggi attentamente il Vangelo, vedrai che Gesù torna su questo concetto per ben sei volte. Ciò sta a dimostrare che importanza esso abbia e in quale considerazione Gesù lo tenga. Ma l’esortazione a perdere la propria vita non è per Gesù soltanto un invito a sostenere anche il martirio. E’ una legge fondamentale della vita cristiana. Occorre esser pronti a rinunciare a fare di se stessi l’ideale della vita, a rinunciare alla nostra indipendenza egoistica. Se vogliamo essere veri cristiani dobbiamo fare di Cristo il centro della nostra esistenza. E cosa Cristo vuole da noi? L’amore per gli altri. Se faremo nostro questo suo programma, avremo certamente perso noi stessi e trovato la vita. E questo non vivere per sé, non è certamente, come qualcuno può pensare, un atteggiamento rinunciatario e passivo. L’impegno del cristiano è sempre assai grande e il suo senso di responsabilità è totale.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Fin da questa terra si può fare l’esperienza che nel dono di se stessi, nell’amore vissuto, cresce in noi la vita. Quando avremo speso la nostra giornata al servizio degli altri, quando avremo saputo trasformare il lavoro quotidiano, magari monotono e duro, in un gesto d’amore, proveremo la gioia di sentirci più realizzati.

«Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».

Seguendo i comandi di Gesù, che sono tutti imperniati sull’amore, dopo questa breve esistenza troveremo anche quella eterna. Ricordiamo quale sarà il giudizio di Gesù nell’ultimo giorno. Egli dirà a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti… perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito…”. Per farci partecipi dell’esistenza che non passa, guarderà unicamente se avremo amato il prossimo e riterrà fatto a sé quanto abbiamo fatto ad esso. Come vivremo allora questa Parola? Come perderemo sin da oggi la nostra vita per trovarla? Preparandoci al grande e decisivo esame per il quale siamo nati. Guardiamoci attorno e riempiamo la giornata di atti di amore. Cristo si presenta a noi nei nostri figli, nella moglie, nel marito, nei compagni di lavoro, di partito, di svago, ecc. Facciamo del bene a tutti. E non dimentichiamo quelli di cui veniamo a conoscenza ogni giorno sui giornali o attraverso amici o per mezzo della televisione… Facciamo per tutti qualcosa, secondo le nostre possibilità. E quando quelle ci sembrassero esaurite, potremo ancora pregare per loro. E’ amore che vale. Chiara Lubich (altro…)

Maggio 1999

Nell’ultimo discorso di Gesù, l’amore è al centro: l’amore del Padre per il Figlio, l’amore per Gesù che è osservanza dei suoi comandamenti. Coloro che ascoltavano Gesù non facevano fatica a riconoscere nelle sue parole un’eco dei Libri sapienziali: “l’amore è osservanza delle sue leggi” e “facilmente è contemplata – la Sapienza – da chi l’ama”. E soprattutto quel manifestarsi a chi lo ama trova il suo parallelo veterotestamentario in Sap 1,2, dove si dice che il Signore si manifesterà a coloro che credono in lui. Ora il senso di questa Parola, che proponiamo, è: chi ama il Figlio è amato dal Padre, ed è riamato dal Figlio che si manifesta a lui.

«Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Tale manifestazione di Gesù chiede però di amare. Non si concepisce un cristiano che non abbia questo dinamismo, questa carica d’amore nel cuore. Un orologio non funziona, non dà l’ora – e si può dire che non è neppure un orologio – se non è carico. Così un cristiano, che non è sempre nella tensione di amare, non merita il nome di cristiano.  E questo perché tutti i comandamenti di Gesù si riassumono in uno solo: in quello dell’amore per Dio e il prossimo, nel quale vedere e amare Gesù. L’amore non è mero sentimentalismo ma si traduce in vita concreta, nel servizio ai fratelli, specie quelli che ci stanno accanto, cominciando dalle piccole cose, dai servizi più umili. Dice Charles de Foucauld: “Quando si ama qualcuno, si è molto realmente in lui, si è in lui con l’amore, si vive in lui con l’amore, non si vive più in sé, si è ‘distaccati’ da sé, ‘fuori’ di sé”. Ed è per questo amore che si fa strada in noi la sua luce, la luce di Gesù, secondo la sua promessa: “A chi mi ama … mi manifesterò a lui”. L’amore è fonte di luce: amando si comprende di più Dio che è amore. E questo fa sì che si ami ancora di più e si approfondisca il rapporto con i prossimi. Questa luce, questa conoscenza amorosa di Dio è dunque il suggello, la riprova del vero amore. E la si può sperimentare in vari modi, perché in ciascuno di noi la luce assume un colore, una sua tonalità. Ma ha delle caratteristiche comuni: ci illumina sulla volontà di Dio, ci dà pace, serenità, e una comprensione sempre nuova della Parola di Dio. E’ una luce calda che ci stimola a camminare nella via della vita in modo sempre più sicuro e spedito. Quando le ombre dell’esistenza ci rendono incerto il cammino, quando addirittura fossimo bloccati dall’oscurità, questa Parola del Vangelo ci ricorderà che la luce s’accende con l’amore e che basterà un gesto concreto d’amore anche piccolo (una preghiera, un sorriso, una parola), a darci quel barlume che ci permette di andare avanti. Quando si va in bicicletta di notte, se ci si ferma si piomba nel buio, ma se ci si rimette a pedalare la dinamo darà la corrente necessaria per vedere la strada. Così è nella vita: basta rimettere in moto l’amore, quello vero, quello che dà senza aspettarsi nulla, per riaccendere in noi la fede e la speranza. Chiara Lubich   (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 122

Editoriale FORUM: L’ABBANDONO DI GESÙ, PER UNA CULTURA DELL’UNITÀ – L’articolo presenta la tavola rotonda svoltasi all’Incontro internazionale Seminaristi e Rettori di seminario,presso il Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, il 31 dicembre 1998. Vi hanno partecipato Giuseppe Maria Zanghí, Gérard Rossé, Piero Coda, Jesús Castellano Cervera; moderatore Hubertus Blaumeiser. Nella luce dell’ideale dell’unità LAUREA IN PSICOLOGIA A CHIARA LUBICH – MALTA 26 FEBBRAIO 1999 – Presentiamo la lezione svolta dall’A. presso l’università di Malta, in occasione dell’assegnazione della Laurea che le è stata conferita. ALCUNE RIFLESSIONI SUL CONOSCERE TEOLOGICO NELLA PROSPETTIVA DEL CARISMA DELL’UNITA’ – di Piero Coda – In questa conversazione l’Autore tocca essenzialmente tre punti: nel primo, s’impegna a chiarire che cos’è la teologia nella tradizione cristiana, approfondendone i contenuti e il metodo di approccio ad essi suggeriti dal carisma dell’unità; nel secondo e nel terzo si sofferma su quelli che Chiara Lubich è solita definire i due “pilastri” fondamentali della teologia che scaturisce dal carisma: l’unità e Gesù Abbandonato, vedendoli in questo caso non tanto come temi ma come “metodo” del fare teologia. Saggi e Ricerche BABELE/KOINE’: LO SPAZIO POLITICO TRA MONDIALITA’ E COMUNITA’. PARTE II: LA DIMENSIONE “INFRAMONDIALE” – di Pasquale Ferrara – Continuando il viaggio affascinante alla scoperta delle grandi direttrici del mutamento internazionale, l’Autore presenta altre due sezioni dello studio sul “nuovo mondo” emerso dalla dissoluzione dei granitici equilibri dei blocchi. Nella prima, proprio in considerazione della necessità di una “rifondazione” delle relazioni internazionali e degli strumenti analitici dopo la fine della guerra fredda, l’Autore propone, dopo un’esposizione delle riflessioni internazionalistiche sul “sistema” delle relazioni tra gli attori internazionali istituzionali e sulla “sorte”, in questo quadro, dello “stato-nazione”, l’ipotesi di un nuovo schema concettuale che consenta di “interpretare” i cambiamenti in corso, e tentare di ricondurre le trasformazioni in atto ad una plausibile chiave di lettura unificante. Nella parte conclusiva, si individua nella “sfida” del pluralismo culturale l’elemento critico, ma insieme qualificante, della riflessione politologica contemporanea, nel segno della continuità, ormai ineludibile, dell’ambito politico “interno” con quello internazionale, transnazionale e sovranazionale. Si tenterà poi di prospettare alcune ipotesi organizzative nella direzione dell’allargamento, ormai urgente, dell’angusta nozione di cittadinanza e della “mappa dei diritti” nelle società contemporanee. Per questo ripensamento dello spazio politico, sarà necessario enucleare alcuni concetti-guida, pochi iniziali (e “indiziali”) riferimenti per una “politica inframondiale” o “uniplurale”, le cui caratterizzazioni e le cui forme realizzative richiedono una mobilitazione di competenze e di saperi. LA PERSONA IN RELAZIONE: “CORNICI” E RAPPORTO FRA CULTURE – di Settimio Luciano – L’A. nell’articolo accenna al ritorno della “categoria” di persona nel linguaggio filosofico. Per esprimere la profondità e complessità dell’apertura costitutiva umana, che fonda la molteplicità di relazioni intrattenute da una persona nel confronto interno con la propria cultura e con altre culture, è arricchente servirsi della metafora della “cornice”: La considerazione sulla cornice diventa rilevante per approfondire la comunicazione se si pensa che il messaggio (il contenuto della comunicazione) viene ricevuto o donato in un determinato quadro e questo è rilevante per il messaggio stesso. Tale riflessione non permette solo di esplicare la complessità delle relazioni presentandole all’interno di una cornice, ma può diventare utile per spiegare la molteplicità delle culture e la possibilità di comunicare fra esse: aiuta, quindi, a illuminare cosa significhi rivolgersi a culture diverse dalla propria per esservi ospitati e abitarvi. Spazio letterario DIZIONARIETTO – PRIMA PARTE – di Giovanni Casoli – “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Libri UN IMPORTANTE STUDIO BIBLICO SU GESU’ CRISTO– di Gerard Rossé – Scrivere una Cristologia neotestamentaria non è un fatto banale. Un tale impegno costituisce normalmente il punto d’arrivo di tanti anni di studio, di approfondimento, una tappa importante nella vita di un biblista, segno di maturità raggiunta nel campo. L’A. presenta il saggio di Cristologia di R. Penna, uscita in due volumi (l’ultimo pubblicato nei primi mesi del 1999) che dimostra la maturità dell’esegeta.   (altro…)

Dio Bellezza e il Movimento dei Focolari

Dio Bellezza e il Movimento dei Focolari

Carissimi artisti e artiste del nostro Movimento e fuori, un abbraccio a tutti come prima cosa. L’inizio di questo nostro convegno sulla bellezza e l’arte coincide, nel giorno e nell’ora – 23 aprile 1999, ore 11 -, con la promulgazione, ad opera di sua Eminenza il card. Poupard, della lettera di Giovanni Paolo II agli artisti. Una coincidenza meravigliosa. Non è difficile scorgervi il dito di Dio, Signore della storia, e anche della piccola, ma sua, storia del nostro Movimento. Questa lettera è dedicata: “A quanti con appassionata dedizione cercano nuove ‘Epifanie’ della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica”. Quindi anche a voi. Ed ora il tema. Il febbraio scorso una settantina di Vescovi nostri, amici del Movimento dei Focolari ha visitato Loppiano. Al loro rientro, qui, al Centro Mariapoli di Castel Gandolfo, desiderando – come sono soliti – pormi delle domande, dissero: “Durante la nostra visita a Loppiano abbiamo sperimentato in maniera travolgente il ‘bello’, che fiorisce con grande trasparenza e purezza nel Movimento dei Focolari. Come spieghi tu questo fiorire di espressioni artistiche sempre più elevate?” La domanda non mi ha sorpreso, ma mi ha confermato che quella nostra cittadella sta a dimostrare, con le sue artiste ed i suoi artisti, che l’arte è di casa nel nostro Movimento. E’ proprio così. E ciò spiega il titolo di questa mia conversazione; titolo che concentra il mio dire unicamente su un preciso programma. Non ho intenzione, infatti, e non sono nemmeno in grado, di parlare dell’arte in generale, delle varie scuole che l’hanno espressa durante i secoli, e così via. Il mio intrattenimento con voi, ora sull’arte si limita al rapporto che essa ha con la nostra realtà ecclesiale e sociale, la quale abbraccia non solo l’aspetto religioso della vita, ma tutti gli aspetti umani, non esclusa l’arte. Non v’è dubbio che anche per noi la Bellezza assoluta è Dio, Dio che è eterno. E l’artista autentico partecipa, in qualche modo, di questa qualità di Dio. Lo fa attraverso le sue opere, che – se veramente opere d’arte – sopravvivono a lui, alla sua vita terrena, giacché portano in sé qualcosa di eterno: segno evidente che esse sono in relazione con la Bellezza suprema ed eterna, con Dio o con l’anima umana creata da lui immortale. Di conseguenza l’opera d’arte, con i suoi pennelli, con gli scalpelli, con le note, con i versi…, non può non essere vista come una sorta d’incarnazione, una rinnovata incarnazione, come scrive Simone Weil nel suo libro L’ombra e la grazia: “Nell’arte vera c’è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l’incarnazione è possibile” . Ma, se è così, l’arte non può non elevare, non può non portare in alto, in quel cielo da cui è discesa. E di questo effetto ne parla Platone nel Convivio se, in qualche modo, bellezza ed arte hanno lo stesso destino. Egli definisce la bellezza: “un raggio che, dalla faccia di Dio, come da sole bellissimo, si tramanda e si partecipa alla natura creata; e, resa questa bella e graziosa con i suoi colori, fa ritorno al medesimo fonte da cui è uscito.” Di questa sublime capacità di elevare, propria dell’arte, ne ho fatto anch’io, recentemente, una piccola esperienza, che non penso fuori luogo narrarvi qui come atto di amore; esperienza che mi ha pure chiarito la funzione della bellezza, così avvertita oggi. Un giorno, durante un viaggio in macchina ho voluto ascoltare l’Ave Maria di Gounod. Eseguita magistralmente, ricordava un velo finissimo ricamato qua e là delicatissimamente. Quell’ascolto ha elevato il mio spirito, sì da aprirmi all’unione con Dio ed in lui con Maria, da Gounod sublimemente esaltata. Era la festa della maternità divina e io l’ammiravo bellissima oltre ogni dire. Se Dio – pensavo – l’ha immaginata madre sua in Gesù, Verbo incarnato, splendore del Padre, quale grado di bellezza può aver mai raggiunto? Non lo potevo immaginare! E le ho parlato del mio arrivo da lei, forse non lontano. Ed ho avvertito che la sua presenza faceva sparire decisamente, in me e attorno a me, tutto ciò a cui posso essere ancora legata, anche di bello e di buono, su questa terra. E’ bastato, infatti, il pensiero di lei e la sua bellezza per stampare come un sigillo nel mio cuore: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene”. Ed ho capito che quelle virtù, che ogni giorno le chiedo d’insegnarmi, necessarie perché tali parole diventino realtà, lei me le dava, non elencandomele, non spiegandomele, non infervorandomi a viverle, ma mostrandosi. Sì, è la bellezza, di cui Maria è esemplare divino, che salverà il mondo. E tutto ciò ho compreso perché una musica, ascoltata, era opera d’arte.  Ma da quando e come la bellezza ha avuto cittadinanza nel nostro Movimento? Sin dall’inizio, da subito. A ciò che si comunicava, illuminati dai primi bagliori del carisma, che cominciava a palesare un certo divino disegno sulla Chiesa e sull’umanità, la reazione di chi ascoltava non era: “Che vero!” “Che buono!” No! Era: “Che bello!” “Bello” certamente perché ciò che si diceva aveva attinenza con Dio bellezza. Era sapienza? E belle, poi, veramente più belle, ci apparivano spesso le persone che parlavano del nostro grande Ideale: era impressione comune. La bellezza ha preso sede nel nostro Movimento anche perché la parola che il nostro carisma iniziava a dire al mondo era una sola: unità, e unità significa altissima armonia. Ed è stata questa vocazione all’armonia che ha caratterizzato, fin nei dettagli concreti, la nuova cultura che stava per fiorire, effetto del carisma. Essa richiedeva, ad esempio, che bello, di buon gusto fosse anche persino il vestire delle persone; bello, armonioso, accogliente l’arredamento delle case, dei centri, delle cittadelle. Il Figlio dell’Uomo sembrava ripeterci: “Guardate i gigli del campo…” . E il bello e la nostra considerazione del bello si sono affacciati poi, di tempo in tempo, quando, ad esempio, estatici di fronte ad uno scritto, ad una pittura, ad una scultura, non si poteva non esprimere incanto e profonda ammirazione. Ecco – per dare un solo saggio – una nota pagina sulla “Madonna di Michelangelo”, che accoglie chiunque entra in San Pietro, dove, fra il resto, si sottolinea un concetto già espresso: “E’ l’anima umana, riflesso del Cielo, che l’artista trasfonde nell’opera, e in questa ‘creazione’, frutto del suo genio, l’artista trova una seconda immortalità: la prima in sé – nella sua anima -, come ogni altro uomo nato quaggiù; la seconda nelle sue opere, attraverso le quali si dona nel corso dei tempi all’umanità. L’artista è forse il più vicino al santo. Perché se il santo è tale portento che sa donare Dio al mondo, l’artista dona, in certo modo, la creatura più bella della terra: l’anima umana.” Perché conscia poi del grande valore dell’arte, concludo: “E giacché a te, Madonnina, ho parlato, a te chiedo un dono: sazia questa sete di bellezza che il mondo sente: manda grandi artisti, ma plasma con essi grandi anime, che col loro splendore avviino gli uomini verso il più bello tra i figli degli uomini: il tuo dolce Gesù”. Voi tutti conoscete più o meno la lunga storia di oltre cinquant’anni del nostro Movimento, le sue finalità, la sua spiritualità, l’universalità delle chiamate, la sua consistenza, la diffusione, i suoi dialoghi a 360 gradi, le sue opere concrete… E, fra queste ultime, ecco quelle artistiche, più o meno pregiate; fiorite qua e là da nostre artiste e artisti che, senza far strepito, in Italia, così come in altre nazioni d’Europa ed anche in Asia, in America del Sud, in Australia hanno mantenuta ben salda – pur esprimendosi in arte – la loro posizione nell’Opera, la loro particolare vocazione in essa. Di qui gli incoraggiamenti brucianti, dati di tempo in tempo: “Grazie, perché col vostro sforzo contribuite a dire al mondo che Dio è bello! Questa è sempre stata la passione, una delle passioni del nostro Movimento sin dall’inizio: gridare con la vita, con le parole, con le arti che Dio è Bellezza e non solo Verità e non solo Bontà. Anche per questo il Movimento è nato come una pacifica contestazione verso modi di pensare di allora”. Ha una lunga e ricca storia il nostro Movimento, e questa storia è segnata da tre tappe. Dio, infinità Bontà – Si sa, infatti, che Dio non è solo bello; egli è anche buono e vero. E non si dà bellezza, non si dà autentico bello, se esso non è anche verità e bontà. Nel nostro Movimento questa coincidenza è stata sempre sottolineata e ci è stato dato di approfondirla in modo originale. In un primo tempo, durato decenni, lo Spirito Santo ci ha spinto ad imitare Dio nel suo essere buono, amore. In Dio Amore era concentrato, infatti, sin dall’inizio, il nostro Ideale. Dio, infinita bontà, che siamo stati chiamati, in certo modo, a rivivere, divenendo così un minuscolo sole accanto al Sole. Dio Verità – In un secondo tempo, dopo che tale stile della nostra vita si era precisato e ben stagliato, lo Spirito ci ha chiamato ad un altro compito: cercare di ricavare dal nostro vivere, dalla nostra spiritualità, personale e comunitaria insieme, la dottrina che vi soggiace: la sua verità. Era – parlando francescanamente – “Parigi”, città degli studi, che s’aggiungeva ad “Assisi”, città della vita. Una realtà, Parigi, però che non si è mai temuto distruggesse Assisi, secondo il noto detto. Anzi l’esperienza quasi decennale della nostra Scuola Abbà, che vi si dedica, conferma come la luce della verità aiuti sommamente la vita, la vita d’amore. Dio Bellezza – In un terzo tempo, quello in cui viviamo, avvertiamo che lo Spirito Santo ci spinge a manifestare non solo la bontà di Dio nella nostra vita, non solo la verità, ma anche la bellezza. E abbiamo chiamato quest’epoca col nome di un’altra città: “Hollywood”. E’ un Hollywood che non annienta Assisi e Parigi, ma che le suppone, che non è se stessa, se non essendo anche le altre due. Gesù in noi, infatti, vuol essere Vita (Assisi), Verità (Parigi), Via (Hollywood). E molti segni annunciano quest’ultimo tempo ed il congresso che celebriamo in questi giorni ne è una delle prove. Esso non poteva svolgersi prima. I nostri artisti, infatti, non sono tali se non hanno già maturato in sé le esperienze della bontà e della verità. Un altro sintomo, fra i molti, che non è fuori luogo menzionare qui, è questo. Ultimamente, ma non è la prima volta, una settantina fra attori, registi, produttori, scrittori, tecnici della città di Hollywood, quella vera, si sono radunati con alcune persone del nostro Movimento in una villa di Los Angeles, in un clima di entusiasmo e di festa, desiderosi di apprendere il nostro spirito e di portarlo ad Hollywood. Uno scrittore cinematografico ebreo presente, così ha concluso l’incontro: “Facciamoci coraggio e viviamo quello che abbiamo sentito oggi qui: diamo il primo posto a Dio ad Hollywood, sul nostro set, nei nostri lavori”. Ora attendono di ritornare fra noi. Lì dunque, artisti che arrivano a Dio; qui persone che amano e conoscono Dio e ambiscono essere veri artisti. Non c’è differenza in fondo: nell’una e nell’altra maniera il nostro terzo tempo cammina. Ma… chi è l’artista? Esagera Salvatore Fiume – pittore contemporaneo – quando, confondendo l’ispirazione artistica con lo Spirito Santo, afferma che l’artista è come uno che scrive sotto dettatura: Dio detta e lui dipinge, scolpisce, fa musiche, poesie, architetture, romanze e concetti filosofici. Quando l’opera è completa – dice -, con ingenua improntitudine la firma . Ma non è nemmeno troppo lontano dalla verità, se lo stesso Concilio Vaticano II invitava gli artisti così: “Non chiudete il vostro spirito al soffio dello Spirito Santo”  . Senz’altro non si è artisti se non muniti d’un autentico talento. Non si è artisti se non si conosce l’ispirazione artistica. Ma anche lo Spirito Santo non è lontano da essi. Giovanni Paolo II lo ha affermato: “Quando scorriamo certe stupende pagine di letteratura e di filosofia o gustiamo ammirati qualche capolavoro d’arte o ascoltiamo brani di musica che hanno del sublime, ci è spontaneo riconoscere in queste manifestazioni del genio umano un qualche luminoso riflesso dello Spirito di Dio” . E come sono i nostri artisti? Com’è la nostra arte? Com’è l’arte secondo la cultura del nostro popolo? Sappiamo che il Vaticano II afferma: “Siano riconosciute dalla Chiesa anche le nuove tendenze artistiche adatte ai nostri tempi” . E’ un imperativo valido anche per noi, ed è ciò a cui i nostri artisti cercano di adeguarsi. Ora – si sa – abbiamo un’arte moderna; essa ha le sue esigenze, nuove e interessanti, le sue ragioni che non mancano di fascino. Spero se ne parli in questi giorni. Pur tuttavia, come è avvenuto per tutti i generi d’arte nei secoli, c’è chi non la interpreta sempre bene e con l’arte può fare anche del male. Noi abbiamo detto: è bello Dio, ma è anche buono e vero. Il vero artista non può considerare il bello staccato dal buono e dal vero. Il bello, infatti, che non contiene in sé… (applausi). Il bello infatti che non contiene in sé il vero e il buono, è un nulla, è un vuoto. Afferma Vladimir Soloviev: “La bellezza senza la verità e il bene è solo idolo” . Ma, se il bello contiene il bene, nulla di peccaminoso, di scandaloso, di ciò che è male può essere appannaggio dell’arte, nemmeno di passaggio, nemmeno con l’intenzione di farvi trionfare il bello. Il fine, anche qui, non giustifica i mezzi. Senz’altro l’arte potrà presentare il brutto, il dolore, l’angoscia, il dramma, la tragedia. Tutto ciò può essere espresso in un’opera d’arte e lo ha sempre potuto. Anzi, afferma un gruppo di artisti espressionisti: “Le gioie, i dolori degli uomini, dei popoli stanno dietro alle iscrizioni, ai quadri, ai templi, dietro alle cattedrali e alle maschere, dietro alle opere musicali, agli spettacoli e alle danze. Dove questi non formano il fondamento, dove forme vengono fatte vuote, senza ragione, lì non c’è nemmeno l’arte” . Gesù in croce abbandonato non era certamente bello. Egli, infatti, Verbo di Dio, artista sommo, incarnandosi, ha assunto tutto della nostra natura umana, sino a farsi peccato, ma mai peccatore. Per cui “non ha apparenza né bellezza – dice Isaia – per attirare i nostri sguardi, né splendore per provare in lui diletto” . Eppure in Lui – ce lo dice la fede – era già presente la gloria della risurrezione. E’ Gesù crocifisso e abbandonato il modello degli artisti e soprattutto dei nostri artisti, che, come lui, sapranno sempre offrire, anche nelle situazioni più tristi, un raggio di speranza. Il Santo Padre agli artisti ha detto: “Tutti i grandi artisti si sono imbattuti, talvolta per tutta la vita, nel problema della sofferenza e della disperazione. Ciononostante molti hanno lasciato trasparire dalla loro arte qualcosa della speranza che è più grande della sofferenza e della decadenza. Esprimendosi nella letteratura o nella musica, plasmando la materia, dipingendo, essi hanno evocato il mistero di una nuova salvezza, di un mondo rinnovato. Anche nella nostra epoca questo deve essere il messaggio di artisti autentici, che vivono sinceramente tutto ciò che è umano e persino il tragico dell’uomo, ma che sanno con precisione svelare nel tragico stesso la speranza che ci è data” . I nostri artisti poi dovranno ricordare che l’arte, perché novella incarnazione, è misteriosa; non può non essere tale. Per questo è pudica, non svela tutto. Vedendo certe deviazioni in arte vien da ritornare con nostalgia ai grandi artisti di ieri, scomparsi magari da anni, ma le cui opere sopravvivono ancora adesso. E’ il caso del dramma della monaca di Monza ne I Promessi Sposi per la quale Manzoni ha speso due sole parole: “La sventurata rispose” . Il Movimento – come si è detto – porta una nuova cultura. Essa è caratterizzata nei suoi più vari ambiti da nuovi paradigmi che derivano dalla visione trinitaria dell’uomo e del mondo. Lo si sta costatando, in questi ultimi anni, nel campo della teologia, della filosofia, della sociologia, dell’economia, della politica; ultimamente della psicologia. Non può quindi mancare nel regno dell’arte. Questa nuova concezione del vivere umano nelle sue diverse espressioni è possibile perché gli uomini e le donne del Movimento si sforzano di assumere sempre uno stile di vita personale e comunitario insieme, come esige la nostra spiritualità collettiva. Vale perciò anche per chi si dedica all’arte: “Prima di tutto il mutuo amore fra voi”. E, come per ogni cultura apparsa sulla terra, anche per la nostra, l’arte svelerà sue peculiari caratteristiche. Noi dobbiamo attenderci un’arte nuova. E quali saranno queste sue qualità? Esse non potranno non essere espressione del suo aspetto personale e di quello collettivo. E’ vero perciò, e lo ribadisco ora, quanto ho affermato l’estate scorsa: non è sempre necessario, per fare una nuova opera d’arte, che essa sia frutto d’un collettivo con la presenza di Gesù  in mezzo agli artisti. E’ necessario che egli sia posto fra i singoli una volta, per divenire così un’anima sola, perché poi, distinti, il tutto sia in ciascuno. Ma è possibile anche quanto affermo ora. Dice Camus: “Chi ha scelto il destino di essere artista perché si sente diverso, ben presto impara che non fruirà della propria arte e della diversità stessa se non cerca la similitudine con gli altri. L’artista si forgia in questo perpetuo andirivieni fra se stesso e gli altri, a mezza strada tra la bellezza – dalla quale non può astrarsi – e la società – dalla quale non può strapparsi -” . E allora, giacché la vicinanza con gli uomini non toglie nulla all’artista, anzi lo arricchisce, si può pensare anche ad un’arte frutto d’un gruppo di artisti dediti alla medesima espressione artistica, uniti nel nome di Gesù, espressa poi nelle opere dall’uno o dall’altro. Perché occorre chiedersi: se questo modo di agire è possibile in altri campi, perché non si può usare in quello dell’arte? E non potrà, questo modo di agire, essere foriero di impensate e nuove opere d’arte? Noi lo vediamo nella Scuola Abbà: quale vantaggio per ogni scienza una tale maniera di porsi al suo servizio! Come il soffio dello Spirito Santo già presente nel singolo può ingigantire! Nella Scuola Abbà, infatti, c’è un “di più”: un “di più” di umano e di divino. L’atmosfera lì è sacra. Senza esagerare, sembra spesso di essere in Paradiso. Ma chiede un prezzo: la morte totale di ogni io perché un altro Io, e questo maiuscolo, trionfi in tutti ed in ciascuno. E’ ciò che abbiamo imparato nel ’49 quando una luce sfolgorante ci ha abbagliato. C’è, a queste intuizioni o ispirazioni, un commento a più voci di persone presenti alla Scuola Abbà. Una dice: “A chi ama Gesù abbandonato è richiesto il distacco dal modo di pensare, dal pensare stesso: è questo il non-essere della mente. Ma ciò vale anche per la volontà, la memoria e la fantasia – sinonimo ora di ispirazione artistica -. Noi raggiungiamo queste morti ‘perdendo’ – sapendo spostare anche quella che si pensa la propria ispirazione -“. Un’altra voce della Scuola Abbà si esprime così: “Parliamo anche della fantasia perché, forse, a differenza di altre spiritualità, noi sottolineiamo ‘il bello’. La fantasia però va perduta nell’unità, ma per avere poi una sorta di nuova ‘ispirazione’, e poter vedere, con essa, in certo modo, il Cielo, e anche – in maniera nuova – tutte le cose della terra”. Una terza voce assicura: “Uno degli effetti della nostra spiritualità sarà un’arte nuova. A proposito di questa arte nuova, noi tante volte abbiamo lasciato che le persone dedite all’arte, presenti nel Movimento, fossero libere di lavorare ciascuna per conto suo, dato che, in genere, è molto difficile che gli artisti possano intendersi fra loro. Invece, se ci fosse fra loro l’unità, vedremmo apparire opere d’arte mai viste”. E un’ultima voce aggiunge: “E’ classico, proprio della vita spirituale, questo perdere tutto e ritrovare tutto…, ma non si trova facilmente negli autori spirituali che bisogna perdere persino la fantasia per avere una fantasia nuova; si dice in genere solo che bisogna perdere la fantasia. Qui, invece, si trova poi una fantasia nuova. Questo si può capire meglio oggi, dopo il Vaticano II, quando si afferma che tutto l’umano è reso cristiano. La fantasia non è più una cosa che allontanerebbe dalla vita ascetica richiesta per la santità. Noi abbiamo precorso queste posizioni del Vaticano II”. E si aggiunge: “C’è qui anche la radice di una rinnovata e grande arte cristiana”. Sta nascendo quindi fra noi un’arte nuova. O forse è già nata. Lo potrete costatare voi dalle esperienze che gli artisti narreranno. E qui viene da ricordare la “Risurrezione di Roma”: “Bisogna far rinascere Dio in noi, tenerlo vivo e traboccarlo sugli altri con fiotti di Vita e risuscitare i morti. E – poi – tenerlo vivo fra noi, amandoci (…). Allora tutto si rivoluziona: politica ed arte, scuola e religione, vita privata e divertimento. Tutto” . Il Movimento dei Focolari ha a che fare con la bellezza anche perché deve rispecchiare, in certo qual modo, nei singoli e nel suo insieme, Maria. Maria è la tota pulchra, la tutta bella. Maria è, infatti, l’espressione compiuta della redenzione operata dal Cristo. E’ la creatura nella quale l’immagine del Creatore risplende in maniera unica. Per questo è oggetto dell’attenzione e dell’ammirazione degli artisti, particolarmente sensibili alla bellezza e al richiamo del soprannaturale; è oggetto quindi di ispirazione per la pittura e la scultura, per la musica e la letteratura… . Dante nel suo Paradiso dirà di lei: “La faccia che a Cristo più s’assomiglia” ; Boccaccio le canta: “Adorni il ciel con tuoi lieti sembianti” . E Petrarca: “Di sol vestita, coronata di stelle, al sommo sole piacesti sì che ‘n te sua luce ascose” . Tasso la vede: “Stella onde nacque la serena luce, luce di non creato e sommo Sole” . Maria, la bellissima, avvolga col suo splendore i nostri artisti! Concludiamo. Ogni Movimento a fondamento religioso, come il nostro, che ha segnato la storia, è fiorito in arti religiose nuove. Speriamo veramente che così sia anche del nostro, se è vero che è opera di Dio. Ma è vero: tempo fa me lo scolpì nel cuore il Papa quando disse: “Opera di Maria? Opera di Dio”. A voi artisti e artiste l’onore e l’onere d’esserne la sua espressione artistica. Chiara Lubich Castel Gandolfo, 23 aprile 1999 (altro…)

Aprile 1999

Per coloro che ascoltavano Gesù l’immagine della porta era familiare, dal sogno di Giacobbe, alla Gerusalemme dalle porte antiche che Dio ama in modo particolare. Ma sono le parole del Salmo 118,20: “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti” che Gesù fa sue, dando ad esse una nuova pienezza di significato. Egli è la porta della salvezza, che introduce ai pascoli dove i beni divini sono liberamente offerti. Egli è l’unico mediatore e per mezzo suo gli uomini hanno accesso al Padre. “Egli è la porta del Padre – dice Ignazio d’Antiochia – attraverso la quale entrano Abramo e Isacco e Giacobbe e i profeti e gli apostoli e la Chiesa”.

«Io sono la porta…».

Sì, l’immagine della porta doveva far breccia nel cuore degli ebrei che, varcando quella della Città Santa e quella del Tempio, avevano la sensazione dell’unità e della pace, mentre i profeti facevano sognare una Gerusalemme nuova dalle porte aperte a tutte le nazioni. E Gesù si presenta come colui che realizza le promesse divine, e le aspettative di un popolo la cui storia è tutta segnata dall’alleanza, mai revocata, con il suo Dio. L’idea della porta assomiglia e si spiega bene con l’altra immagine usata da Gesù: “Io sono la via, nessuno va al Padre se non attraverso di me”. Dunque lui è veramente una strada e una porta aperta sul Padre, su Dio stesso.

«Io sono la porta…».

Cosa significa concretamente nella nostra vita questa Parola? Sono tante le implicazioni che si deducono da altri passi del Vangelo che hanno attinenza con il brano di Giovanni, ma fra tutte scegliamo quella della “porta stretta” attraverso la quale sforzarsi di entrare per entrare nella vita. Perché questa scelta? Perché ci sembra quella che forse più ci avvicina alla verità che Gesù dice su se stesso e più ci illumina sul come viverla. Quando diventa, egli, la porta spalancata, pienamente aperta sulla Trinità? Là dove la porta del Cielo sembra chiudersi per lui, egli diviene la porta del Cielo per tutti noi. Gesù abbandonato è la porta attraverso la quale avviene lo scambio perfetto tra Dio e l’umanità: fattosi nulla, unisce i figli al Padre. E’ quel vuoto (il vano della porta) per cui l’uomo viene in contatto con Dio e Dio con l’uomo. Dunque lui è la porta stretta e la porta spalancata nello stesso tempo, e di questo possiamo farne esperienza.

«Io sono la porta…».

Gesù nell’abbandono si è fatto per noi accesso al Padre. La parte sua è fatta. Ma per usufruire di tanta grazia anche ognuno di noi deve fare la sua piccola parte, che consiste nell’accostarsi a quella porta e nel passare al di là. Come? Quando ci sorprende la delusione o siamo feriti da un trauma o da una disgrazia imprevista o da una malattia assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù che tutte queste prove, e mille altre ancora, ha impersonato. Sì, egli è presente in tutto ciò che ha sapore di dolore. Ogni nostro dolore è un suo nome. Proviamo, dunque, a riconoscere Gesù in tutte le angustie, le strettoie della vita, in tutte le oscurità, le tragedie personali e altrui, le sofferenze dell’umanità che ci circonda. Sono lui, perché egli le ha fatte sue. Basterà dirgli, con fede: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene”, basterà fare qualcosa di concreto per alleviare le “sue” sofferenze nei poveri e negli infelici, per andare al di là della porta, e trovare al di là una gioia mai provata, una nuova pienezza di vita. Chiara Lubich (altro…)

Marzo 1999

Gesù pronunciò queste parole in occasione della morte di Lazzaro di Betania, che poi Egli al quarto giorno risuscitò. Lazzaro aveva due sorelle: Marta e Maria. Marta, appena seppe che arrivava Gesù, gli corse incontro e gli disse: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Gesù le rispose: “Tuo fratello risusciterà”. Marta replicò: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. E Gesù dichiara: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Gesù vuol fare intendere chi egli è per l’uomo. Gesù possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la Vita, quella Vita che non muore. Se hai letto il Vangelo di Giovanni, avrai trovato che Gesù ha pure detto: “Come il Padre ha la Vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la Vita in se stesso” (cf 5,26). E poiché Gesù ha la Vita, la può comunicare.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Anche Marta crede alla risurrezione finale: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”.  Ma Gesù, con la sua affermazione meravigliosa: “Io sono la risurrezione e la vita”, le fa capire che non deve attendere il futuro per sperare nella risurrezione dei morti. Già adesso, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella Vita divina, ineffabile, eterna, che non morirà mai. Se Gesù è in loro, se egli è in te, non morirai. Questa Vita nel credente è della stessa natura di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova. E questa straordinaria Vita, che già esiste anche in te, si manifesterà pienamente nell’ultimo giorno, quando parteciperai, con tutto il tuo essere, alla risurrezione futura.

«Io sono la risurrezione e la vita».

Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resterà per te, come per tutti, un’esperienza unica, fortissima e forse temuta. Ma non significherà più il non senso di un’esistenza, non sarà più l’assurdo, il fallimento della vita, la tua fine. La morte, per te, non sarà più realmente una morte.

«Io sono la risurrezione e la vita».

E quando è nata in te questa Vita che non muore? Nel battesimo. Lì, pur nella tua condizione di persona che deve morire, hai avuto da Cristo la Vita immortale. Nel battesimo, infatti, hai ricevuto lo Spirito Santo che è colui che ha risuscitato Gesù. E condizione per ricevere questo sacramento è la tua fede, che hai dichiarato attraverso i tuoi padrini. Gesù, infatti, nell’episodio della risurrezione di Lazzaro, parlando a Marta, ha precisato: “Chi crede in me, anche se muore vivrà” (…) “Credi tu questo?” (Gv 11,26). “Credere”, qui, è un fatto molto serio, molto importante: non implica solo accettare le verità annunciate da Gesù, ma aderirvi con tutto l’essere. Per avere questa vita, devi dunque dire il tuo sì a Cristo. E ciò significa adesione alle sue parole, ai suoi comandi: viverli. Gesù lo ha confermato: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). E gli insegnamenti di Gesù sono riassunti nell’amore. Non puoi, quindi, non essere felice: in te è la Vita!

«Io sono la risurrezione e la vita».

In questo periodo in cui ci si prepara alla celebrazione della Pasqua, aiutiamoci a fare quella sterzata, che occorre sempre rinnovare, verso la morte del nostro io perché Cristo, il Risorto, viva sin d’ora in noi. Chiara Lubich   (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 121

Editoriale LA PASSIONE PER LA VERITA’ – di Piero Coda – La sfiducia nella verità è, alla fine, sfiducia nella persona umana, nella sua capacità di ricercare con l’intelligenza e di aderire con la libertà a quella verità che la fa diventare pienamente ciò ch’è chiamata ad essere secondo il disegno di Dio. Dietro l’ultima enciclica di Giovanni Paolo II, Fides et ratio, c’è la stessa passione per l’uomo che, sin dalla Redemptor hominis, ha animato tutto il suo pontificato. Si tratta di una difesa del significato umanistico della filosofia e insieme dell’invito ad aprirsi con fiducia e gratitudine all’orizzonte nuovo, e pieno, di verità donato dalla rivelazione e, di conseguenza, a un rapporto d’amicizia e di cooperazione – pur nella distinzione dei ruoli e nell’autonomia dei metodi – con la teologia. Di fronte alla tentazione della frammentazione e allo smarrimento del senso, il Papa stimola dunque a intraprendere con coraggio la via d’una visione unitaria e organica del sapere che abbia al suo centro la persona umana gratuitamente e liberamente orientata al ritrovamento di sé nel mistero del Verbo incarnato. Nella luce dell’ideale dell’unità Lezione tenuta per la consegna del dottorato honoris causa in “ECONOMIA e commercio” – di Chiara Lubich – Il 29 gennaio 1999 l’Università Cattolica del “Sacro Cuore”, ha consegnato, presso la Sede della Facoltà di Ecomia e Commercio di Piacenza, la Laurea Honoris Causa a Chiara Lubich. ASPETTI DELLA MARIOLOGIA NELLA LUCE DELL’INSEGNAMENTO DI CHIARA LUBICH – di Marisa Cerini – Marisa Cerini, già nota ai lettori della Rivista di cui era membro di Redazione, è recentemente scomparsa. L’articolo propone l’ultimo suo studio-conversazione su alcuni aspetti della mariologia che emergono dal pensiero di Chiara. Già pubblicato nel n. 110 di questa Rivista, tale studio era stato da lei recentemente rielaborato all’interno di una prospettiva teologica che vuole assumere il mistero dell’Uni-Trinità di Dio quale sua fonte e suo modello. Saggi e Ricerche L’EDUCAZIONE ALLA PROSOCIALITA’ – di Roberto Roche – La prosocialità sta emergendo all’interno della psicologia evolutiva e sociale per le positive conseguenze e i benefici che produce a vantaggio di tutti i componenti di un sistema sociale. I benefici per i recettori delle azioni prosociali sono stati abbondantemente investigati, mentre è meno conosciuta la loro incidenza sugli autori, che, in una definizione rigorosa, non possono ricevere ricompense esterne, estrinseche o materiali. In quest’articolo l’A., Professore presso l’Università catalana di Barcellona, desidera analizzare i possibili benefici relazionali e intrapsichici che può supporre l’azione prosociale, sia per i recettori sia, specialmente, per gli autori, nell’ambito della salute mentale e, a livello più generale nell’ambito della convivenza collettiva. BABELE/KOINE’. LO SPAZIO POLITICO TRA MONDIALITA’ E COMUNITA’ – PARTE PRIMA: DOPO IL MURO – di Pasquale Ferrara – A circa un decennio dalla caduta del Muro di Berlino, la ricerca di un introvabile “nuovo ordine mondiale” rimane uno dei temi centrali del dibattito sull’assetto delle relazioni internazionali in questo scorcio di secolo. L’Autore, prendendo le mosse dalle riflessioni condotte da studiosi ed esperti svolte in diversi ambiti disciplinari (storiografia, relazioni internazionali, antropologia culturale, economia internazionale), si propone di disegnare un percorso tra le .”strutture di pensiero” che caratterizzano questa ricerca, giungendo alla formulazione di alcune indicazioni interpretative centrate sul rapporto tra pluralismo culturale e forme politiche. Lo studio si articola in tre sezioni. Nella prima – qui presentata – si tenta una panoramica, necessariamente lacunosa, ma abbastanza indicativa, della riflessione internazionalistica e “culturale” sul cambiamento di civiltà innescatosi dal 1989. Si tratta, in realtà, di una riflessione che talvolta ha assunto la portata di un’ermeneutica del Novecento, tesa a identificare il “senso” del XX secolo e a prospettare le linee evolutive del III millennio. IN CERCA DEL TESTO – di Piero Capelli – Nel suo articolo Il Pentateuco, il Deuteronomista e Spinoza (“Nuova Umanità” XIX [1997/5] 113, pp. 571-589) P. Sacchi ha osservato che il lavoro critico su un testo letterario (biblico, nella fattispecie) deve avere come presupposto appunto l’esistenza di un oggetto che chiamiamo “testo” : il che implica l’esistenza di un autore seppur implicito (secondo la definizione di W.C. Booth). Malgrado le difficoltà di una definizione del “testo” su questi piani (cf gli studi di P. Schäfer sulla letteratura rabbinica), va definito anche nel suo esistere all’interno di un sistema (la letteratura) come inizio di un processo di storia degli effetti, spesso di straordinaria complessità. Spazio letterario GOCCE D’ANIMA – di Claudio Guerrieri “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Per il dialogo IL DIALOGO POSSIBILE. INTERVISTA A MONS. ANTONIO PETEIRO FREIRE, ARCIVESCOVO DI TANGERI – a cura di Luce Mauro Pesce – In un paese come il Marocco, l’Islam si incontra dappertutto, a tutti i livelli della vita sociale, politica, morale, economica, familiare e naturalmente religiosa: è un mondo coi suoi valori, con il suo Libro, coi suoi profeti. Nell’articolo, Mons Antonio Peteiro, sollecitato dalle domande dell’intervistatore, ci dona l’esperienza di quindici anni di vita a contatto col mondo islamico nord-africano. Libri VISIONE DI DIO E VISIONE DEL MONDO NELLA SOFIOLOGIA DI S. BULGAKOV. ALCUNE RIFLESSIONI SU “L’ALTRO DI DIO” DI P. CODA – di L’ubomír Zák – La recente pubblicazione de “L’altro di Dio2. Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov (Città Nuova, Roma 1997) di P. Coda è un importante evento che conferma il sempre crescente interesse della teologia italiana, ma non solo, per il patrimonio teologico e filosofico di S.N. Bulgakov, uno dei pensatori ortodossi più originali di questo secolo. Proseguendo nel suo cammino di ricerca teologica scandita dai volumi Evento pasquale. Trinità e storia (1984) e Il negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel (1987), Coda mostra come nella teologia bulgakoviana, illuminata dal simbolo della Sofia, la kenosi del Cristo e il suo abbandono sulla croce possono diventare centrale chiave ermeneutica per penetrare nel mistero trinitario dell’Amore di Dio e nel destino di divinizzazione dell’uomo creato a sua immagine. Caratterizzato da un’interpretazione attenta e penetrante di Bulgakov e da una profonda sensibilità ecumenica, L’altro di Dio si presenta come uno stimolante contributo alla ricerca dei nuovi percorsi necessari per un ripensamento della teologia in generale e dell’ontologia trinitaria in particolare.   (altro…)

“Una silenziosa rivoluzione antropologica”; “Una psicologia aperta al Trascendente”

“Chiara Lubich e i suoi seguaci hanno acceso una rivoluzione silenziosa che non esiterei a definire ‘antropologica’, viste le conseguenze personali e sociali che ha operato.” Così il prof. Mark Borg relatore della laudatio alla cerimonia di conferimento della laurea h.c. in Lettere e Psicologia a Chiara Lubich, all’Università di Malta. Affollata l’Aula Magna, sale ed esterno collegati via video. Tra le 1500 persone, numerose personalità civili e religiose: 6 ministri, 17 parlamentari delle due diverse formazioni politiche, il Presidente della Corte, giudici, il Segretario del partito nazionalista, gli ambasciatori d’Italia, Cina e Tunisia, il Vescovo e il Nunzio. Stampa, radio e TV dell’isola. La motivazione riconosce “il contributo significativo di Chiara Lubich nel campo del pensiero umano” per due motivi: “ha tradotto in prassi e metodo di ricerca il nucleo del messaggio cristiano e ha offerto alle discipline umanistiche, in particolare, una chiave ermeneutica originale dell’uomo. E ciò avendo proposto un modello di vita spirituale che rispetta l’individualità della persona e la reciprocità dei rapporti , con una valutazione positiva del dolore e di ciò che è negativo nella storia personale e collettiva. In questo modo ha aiutato a coltivare una visione integrale della persona umana nel campo della psicologia”. “La via dello sviluppo psicologico alla piena umanità” è stata definita dal Prof. Peter Serracino Inglott, già Rettore dell’Università, la lezione di Chiara Lubich che per la prima volta ha trattato del contributo alla psicologia della spiritualità dell’unità. Ne aveva tracciato gli inizi da “quella prima scintilla scoccata in piena guerra: la scoperta di Dio Amore” poi punto per punto l’accostamento alla psicologia. Un solo esempio: dopo aver rilevato che “in psicologia si sa che il bisogno fondamentale di una persona è di essere riconosciuta nella propria identità unica e irripetibile”, la neo-laureata ha parlato dell’esperienza della scoperta che Dio ci ama: “La scoperta e il raggiungere la certezza che Dio la ama, che Dio l’ha voluta, che non è abbandonata al caso o a un destino cieco, è la base perché abbia la sicurezza psicologica che dà senso alla sua vita… Solo la certezza che Dio è Amore, amore-anche-per-lei, le dà la forza di continuare a uscire da sé, a vivere, ad amare ed a creare comunione sociale” “Una grande svolta: una psicologia aperta al Trascendente”. Così in un messaggio a Chiara Lubich i 70 professionisti nel campo delle scienze psicologiche provenienti da vari Paesi d’Europa. E per avviare lo sviluppo dei nuovi semi gettati in questo difficile campo delle scienze psicologiche, i 70 professionisti si sono riuniti il giorno seguente per il 1^ Convegno. Erano psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, di numerose scuole (freudiana, junghiana, adleriana, cognitiva-comportamentale, sistemica…). Scambiando le riflessioni suscitate dalla lezione di Chiara L. ed esperienze vissute sul campo si intravvedono spunti per una nuova psicologia. Una sola impressione: Herman Schweers, psichiatra e psicoterapeuta, Germania: “Vedo qui un approccio psico-antropologico che può non solo fruttare nelle diverse scuole psicologiche, ma anche arricchirle nel senso che si sviluppino pienamente al servizio delle esigenze dell’uomo di oggi: vivere un’unità interiore con gli altri, con la società e con quel Divino che porta in sé”. (altro…)

Febbraio 1999

Se tu sei credente hai una funzione da svolgere nei confronti degli altri, di coloro che non conoscono Dio. Il cristiano, infatti, non può sfuggire il mondo, nascondersi, o considerare la religione un affare privato. Egli vive nel mondo perché ha una responsabilità, una missione di fronte a tutti: essere la luce che illumina. Anche tu hai questo compito, e, se così non farai, la tua inutilità è come quella del sale che ha perso il suo sapore o come quella della luce che è divenuta ombra.

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

La luce si manifesta nelle “opere buone”. Essa risplende attraverso le opere buone che compiono i cristiani. Mi dirai: ma non solo i cristiani compiono opere buone. Altri collaborano al progresso, costruiscono case, promuovono la giustizia… Hai ragione. Il cristiano certamente fa e deve fare anche lui tutto questo, ma non è questa la sua funzione specifica. Egli deve compiere le opere buone con uno spirito nuovo, quello spirito che fa sì che non sia più lui a vivere in se stesso, ma Cristo in lui. L’evangelista, infatti, non pensa solo a degli atti di carità isolati (come visitare i prigionieri, vestire gli ignudi o come tutte le opere di misericordia attualizzate alle esigenze di oggi), ma pensa all’adesione totale della vita del cristiano alla volontà di Dio, così da fare di tutta la propria vita un’opera buona. Se il cristiano fa così, egli è “trasparente” e la lode che si darà per quanto compie non arriverà a lui, ma a Cristo in lui, e Dio, attraverso di lui, sarà presente nel mondo. Il compito del cristiano è dunque lasciar trasparire questa luce che lo abita, essere il “segno” di questa presenza di Dio fra gli uomini.

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

Se l’opera buona del singolo credente ha questa caratteristica, anche la comunità cristiana in mezzo al mondo deve avere la medesima specifica funzione: rivelare attraverso la sua vita la presenza di Dio, che si manifesta là dove due o tre sono uniti nel suo nome, presenza promessa alla Chiesa fino alla fine dei tempi. La Chiesa primitiva dava grande rilievo a queste parole di Gesù. Soprattutto nei momenti difficili, quando i cristiani venivano calunniati, allora li esortava a non reagire con la violenza. Il loro comportamento doveva essere la migliore confutazione del male che si diceva contro di loro. Si legge nella lettera a Tito: “Esorta i più giovani ad essere assennati, offrendo te stesso come esempio in tutto di buona condotta, con purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro” (2, 6-8).

«Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli».

E’ la vita cristiana vissuta che è luce anche al giorno d’oggi per testimoniare Dio. Ti narro un fatterello. Antonietta è sarda, ma per lavoro s’è portata in Francia. E’ impiegata in un ufficio dove molti non hanno voglia di lavorare. Poiché è cristiana e vede in ciascuno Gesù da servire, aiuta tutti ed è sempre calma e sorridente. Spesso qualcuno si arrabbia, alza la voce e si sfoga con lei, prendendola in giro: “Giacché hai voglia di lavorare, prendi, fa’ anche il mio lavoro!” Lei tace e sgobba. Sa che non sono cattivi. Probabilmente ognuno ha i suoi crucci. Un giorno il capufficio va da lei mentre gli altri sono assenti e le chiede: “Ora mi deve dire come fa a non perdere mai la pazienza, a sorridere sempre”. Lei si schermisce dicendo: “Cerco di stare calma, di prendere le cose dal verso buono”. Il capufficio batte un pugno sulla scrivania ed esclama: “No, qui c’entra Dio sicuramente, altrimenti è impossibile! E pensare che a Dio io non ci credevo!” Qualche giorno dopo Antonietta è chiamata in direzione, dove le dicono che sarà trasferita in un altro ufficio “affinché – continua il direttore – lo trasformi come ha fatto con quello dov’è ora”. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”. Chiara Lubich   (altro…)

Settanta volte sette

La  vicenda di una giovane ivoriana, attraverso il racconto degli anni dell’adolescenza, e di come è risucita a non cedere alla via del rancore e dell’odio Sono nata a Man, una cittadina appoggiata su verdi colline, nella zona geograficamente più interessante della Costa d’Avorio. Dalla mia casa si vede chiaramente il monte Toukoui, la cima più alta del mio paese, e qui sono cresciuta serenamente, insieme a nove fratelli e con i miei genitori, fino a quando mio padre ha iniziato a frequentare una donna e a trascurare la famiglia. Da quel momento, l’atmosfera in casa è diventata insopportabile, carica di tensioni e di malumori che sfociavano a volte in liti furiose. La mamma piangeva spesso. Noi figli eravamo disorientati di fronte a questa situazione, inaspettata e per noi inaccettabile. Vivevamo tutti oppressi da un malessere che si accresceva di giorno in giorno. In questo periodo travagliato avevo circa tredici anni e iniziavo a frequentare delle ragazze come me che cercavano con semplicità, più con i fatti che con le parole, di vivere il vangelo e di guardare gli avvenimenti e le persone che incontravano ogni giorno alla luce dell’amore di Dio. Frequentandole, mi sentivo a mio agio, valorizzata, amata, e il carico di amarezze che mi pesava sul cuore mi sembrava più facile da portare. La situazione è però precipitata, perché la mamma, esasperata dal difficile rapporto con mio padre, ha deciso, ad un certo punto, di lasciare la nostra casa. Per me è stato un momento terribile: mi sono sentita sola e stavo male, mi chiedevo come fare a vedere l’amore di Dio in quello che stava accadendo, come fare ad amare ancora mio padre e come aiutare mia madre. Sapevo che Gesù mi ama e mi è vicino, ma non riuscivo più a formulare un solo pensiero che non finisse con un gigantesco punto interrogativo. Dentro di me si era rotto qualcosa e l’unica parola che mi martellava nella testa e nel cuore era: perché? La nuova moglie del papà è venuta ad abitare con noi, ma né io né i miei fratelli riuscivamo a legare con lei e ad accettarla. Soprattutto il più grande di noi la rifiutava e litigava costantemente con lei e con nostro padre. In questa situazione conflittuale, anche papà era sempre più infelice: ha iniziato a bere, a smettere progressivamente di prendersi cura di se stesso e di tutta la famiglia, a vivere solo e afflitto. Ci sembrava, a volte, di vivere in un incubo. Per risollevare un po’ la nostra famiglia e permetterci di frequentare regolarmente la scuola, alcuni zii hanno iniziato ad ospitarci a turno nelle loro case. Col passare degli anni si sono formati due clan all’interno della mia famiglia: da una parte mio padre con sua moglie e i loro bambini, dall’altra i miei fratelli. Io mi sforzavo di non parteggiare per nessuno dei due gruppi e di non farmi coinvolgere nelle loro dispute. L’unica cosa che avrei voluto era riavere una famiglia vera e un clima di affetto sincero, invece mi ritrovavo sempre da sola, impotente, a chiedermi: perché? Nei momenti bui è stato il rapporto con le mie amiche – con cui cerchiamo di vivere il vangelo – a darmi la forza per continuare ad amare tutti e due i clan. Ogni volta che ci incontriamo e ci raccontiamo i nostri reciproci passi nel vivere le parole del vangelo, si ristabilisce tra noi un clima di unità che dà nuova luce e vigore a tutte. Una sera in cui mi sentivo a terra, bloccata dentro il dolore del mio problema familiare, ho riscoperto, con il loro aiuto, Gesù vicino proprio nei momenti per lui più dolorosi, quando sulla croce ha gridato al Padre: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”  Così, acquistava un senso molto più profondo ogni “perché?” lacerante che anch’io mi sentivo dentro. Unito a quello di Gesù, il mio “perché?” si rivelava sempre di più una perla preziosa da trasformare in un amore per tutti più grande e concreto. Durante l’anno abitavo con gli zii e mi impegnavo il più possibile a scuola. Ad ogni vacanza tornavo a casa e cercavo di darmi da fare, iniziando dalle piccole faccende domestiche. Molte volte, la sera, trovavo mio padre, ubriaco, addormentato fuori della porta di casa nostra. Mi si stringeva il cuore a vederlo in quello stato. Allora, lo portavo nella sua stanza, lo mettevo a letto e facevo per lui il possibile affinché si sentisse amato anche nei momenti in cui lui per primo non si amava. Finita la scuola, ho iniziato a frequentare l’università ad Abidjan, la capitale, situata sulla costa, una città moderna a quasi cinquecento chilometri da Man. Il rapporto con mio padre diventava sempre più difficile: non riuscivo a trovare in lui una breccia che mi permettesse di parlargli e di ricostruire il colloquio e l’affetto. Imputavo a lui e a sua moglie tutte le sofferenze della mia adolescenza. Mi sentivo offesa e tradita, usurpata dell’affetto di una famiglia, costretta a crescere da sola proprio negli anni in cui maggiormente avrei avuto bisogno dell’appoggio dei miei genitori. Ho deciso, ad un certo punto, che non volevo più vedere mio padre. Ad un incontro con le mie amiche non sono riuscita più a trattenermi e ho sfogato la mia rabbia: “Voglio vendicarmi del male che lui e sua moglie mi hanno fatto. Andrò a casa loro e distruggerò tutti i beni di lei perché è lei quella che ha smantellato la mia famiglia e ha preso a forza il posto di mia madre”. Ero fuori di me dal dolore per tanto tempo sopportato in silenzio. Avevo perduto la parte più vera di me, il rapporto con Gesù, che in tante occasioni mi aveva dato la gioia e la forza di reagire con l’amore alle difficoltà e alle incomprensioni. Le altre hanno ascoltano il mio sfogo fino in fondo: partecipi, non mi hanno però giudicata per quello che dicevo. È stato un momento molto forte. Quel peso, prima insostenibile, ora lo portavamo insieme. Il fuoco dell’amore che si era spento, si è riacceso in me più forte di prima. Ho ripensato alla frase di Gesù: “Perdona settanta volte sette”. Era più difficile che vendicarsi, ma volevo con tutte le forze impegnarmi a perdonare veramente mio padre. Farlo non è stato semplice: ho avuto tanti slanci e cadute, ma tutto serve. Quando mi sono laureata non riuscivo a dirlo a mio padre: mi mancava ancora il coraggio di riavvicinarlo. Ho trovato un impiego in un’azienda. A quel punto, mia madre, con la quale ho un bel rapporto, mi ha spinta a chiamare papà per informarlo. Ho esitato, poi ho capito che era venuto il momento di fare un passo concreto verso di lui. L’ho chiamato al telefono. Lui era felice di sentirmi e orgoglioso dei risultati che avevo ottenuto. Mi ha mandato del miele e ha iniziato, da allora, a darmi regolarmente, ogni settimana, notizie di sé e della sua vita. Ero commossa nel raccogliere i frutti inaspettati del mio sofferto, piccolo gesto di perdono vero. Posato finalmente il giogo del rancore, mi sembrava che tutto, anche le minime cose fossero più luminose, più belle e più facili. Capivo che quando Gesù entra nella nostra vita la trasforma e non ci lascia più soli. Poi, mio padre è venuto a trovarmi: abbiamo parlato a lungo e lui mi ha confidato i suoi problemi e i suoi sforzi per liberarsi dalla schiavitù dell’alcool. Mi ha lasciato in consegna una somma di denaro per sostenere negli studi i miei fratelli. Quando è ripartito non saprei dire chi dei due fosse più sollevato, se lui o io, per questo rapporto tra noi che è ricominciato daccapo dando calore ad entrambi. Con la scusa dei soldi da amministrare, ho riunito i miei fratelli e tutti insieme abbiamo deciso di mettere una pietra su quello che è stato. Abbiamo progettato di fare una sorpresa a nostro padre e di andarlo a trovare a casa sua. Da quel momento abbiamo iniziato tutti a guardarlo con occhi nuovi, perché trovi in noi la forza e l’affetto che gli mancano. Ora sono veramente serena e ho ritrovato la voglia di vivere. (S. F. – Costa d’Avorio) (altro…)

Gennaio 1999

A gennaio, in molte parti del mondo, i cristiani celebrano insieme la loro comune fede con preghiere e incontri speciali. Il tema scelto per la Settimana, a ciò specialmente dedicata, è tratto dall’Apocalisse. Leggiamolo per intero: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il ‘Dio-con-loro’. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,3). La Parola di Dio di questo mese ci interpella. Se vogliamo essere parte del suo popolo dovremo lasciarlo vivere fra noi. Ma come è possibile questo, e come fare per pregustare un po’, fin da questa terra, quella gioia senza fine che verrà dalla visione di Dio? E’ proprio questo che Gesù ci ha rivelato, è proprio questo il senso della sua venuta: comunicarci la sua vita d’amore col Padre, perché anche noi la viviamo. Già da ora noi cristiani potremo vivere questa frase ed avere Dio fra noi. Averlo fra noi richiede, come affermano i Padri della Chiesa, certe condizioni. Per Basilio è vivere secondo la volontà di Dio, per Giovanni Crisostomo è l’amare come Gesù ha amato, per Teodoro Studita è l’amore reciproco, e per Origene è l’accordo di pensiero e di sentimenti per giungere alla concordia che “unisce e contiene il Figlio di Dio”. Nell’insegnamento di Gesù c’è la chiave per far sì che Dio abiti fra noi: “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi” (cf Gv 13,34). E’ l’amore reciproco la chiave della presenza di Dio. “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi” (1Gv 4,12) perché: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20), dice Gesù.

«Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo».

Non è dunque così lontano e irraggiungibile quel giorno che segnerà il compimento di tutte le promesse dell’Antica Alleanza: “In mezzo a loro sarà la mia dimora: io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”(Ez 37,27). Tutto si avvera già in Gesù che continua, al di là della sua esistenza storica, ad essere presente fra coloro che vivono secondo la nuova legge dell’amore scambievole, quella norma cioè che li costituisce popolo, il popolo di Dio. Questa Parola di vita è dunque un richiamo pressante, specie per noi cristiani, a testimoniare con l’amore la presenza di Dio. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Il comandamento nuovo così vissuto pone le premesse perché si attui la presenza di Gesù fra gli uomini. Nulla possiamo fare se questa presenza non è garantita, presenza che dà senso alla fraternità soprannaturale che Gesù ha portato sulla terra per tutta l’umanità.

«Dio abiterà con loro; essi saranno il suo popolo».

Ma spetta soprattutto a noi, cristiani, pur appartenendo a diverse comunità ecclesiali, di dare al mondo spettacolo di un solo popolo fatto di ogni etnia, razza e cultura, di grandi e di piccoli, di malati e di sani. Un unico popolo del quale si possa dire, come dei primi cristiani: “Guarda come si amano e sono pronti a dare la vita l’uno per l’altro”. E’ questo il “miracolo” che l’umanità attende per poter sperare ancora e un contributo necessario al progresso ecumenico, al cammino verso l’unità piena e visibile dei cristiani. E’ un “miracolo” alla nostra portata, o meglio, di Colui che, abitando fra i suoi uniti dall’amore, può cambiare le sorti del mondo, portando l’umanità intera verso l’unità. Chiara Lubich   (altro…)

Siamo entrati come Chiese diverse. Dovremmo uscire come unico popolo cristiano

Al centro di Berlino – come in un’isola – si trova la Chiesa luterana “della memoria”, della quale è rimasta la vecchia torre, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Accanto, la nuova chiesa moderna, a forma di ottagono, senza finestre ma con i muri quasi interamente di vetro di colore azzurro/indaco. All’interno un’atmosfera di profonda pace e raccoglimento. La zona dell’altare è dominata da un grandioso Cristo Risorto colore oro con le braccia aperte che danno alla figura la forma del crocifisso. Quando inizia la cerimonia la chiesa è gremita da oltre 1.000 persone, appartenenti a 26 chiese. Nell’indirizzo di benvenuto il Cardinale Sterzinsky sin dalle prime battute parla della missione di Chiara e del Movimento in cui vede l’aspetto carismatico della Chiesa, aspetto però – aggiunge – che “si è sempre sottomesso al ministero ecclesiale per essere verificato e approvato”. Poi mette in rilievo quanto lo spirito del Movimento sia genuinamente evangelico. Esprime la sua speranza in questa spiritualità ecumenica, speranza che è stata il motivo dell’invito a Chiara da parte dell’intero Consiglio Ecumenico della città. Dopo la preghiera della Sig.ra Sylvia von Kekulé, pastore della chiesa, la lettura di parte della I lettera di Giovanni. Poi prende la parola Martin Kruse, vescovo evangelico emerito di Berlino, da anni amico dei Focolari. Parla del suo primo incontro col Movimento attraverso Klaus Hemmerle, già vescovo di Aquisgrana, dell’impressione per l’ immediatezza con cui si accoglie la Parola di Dio, la si mette in vita e se ne sperimentano i frutti. E continua: “Oggi, tutte le Chiese hanno bisogno di riimparare l’alfabeto del Vangelo.” Poi parla Chiara, sotto il grande Crocifisso-Risorto. Dipinge con alcuni tocchi il quadro della nostra società: materialista, edonista, sempre più priva di valori. E mentre aumenta la necessità di un dialogo con persone di altre religioni, spesso ormai nostre concittadine, sembra ancora lontana la piena comunione tra i cristiani. Il rimedio? C’è. Chiara non lascia nessun dubbio: i cristiani, sia come singoli che come Chiese, devono riscoprire Dio come Amore e mettere Lui al primo posto. Come ad Aachen e a Muenster, anche a Berlino Chiara parla dell’”arte di amare“. Con forza e convinzione si rivolge ad ognuno personalmente. Ma, a differenza delle altre volte, qui si rivolge anche alle Chiese. Anche per intere comunità vale l’amare tutti, l’amare per primi, vedere in Gesù, che sulla croce per noi sperimenta persino l’abbandono del Padre, la misura dell’amore. Più volte incoraggia i presenti: “Provatelo! Provatelo subito, adesso, qui!” Non si accontenta di un discorso, vuole suscitare una risposta che coinvolge la vita. Parla del dialogo del popolo, di un unico popolo di Dio, dell’esperienza vissuta a Londra nel novembre ’96: la presenza del Risorto tra cattolici, anglicani e membri della altre chiese uniti dall’amore scambievole, le aveva dato l’impressione che niente e nessuno potrà mai dividerci se Lui è in mezzo a noi. Poi mette da parte le carte e fa una domanda a tutti: “Perché non anche qui e adesso?”. “Stasera – continua – siamo entrati come Chiese diverse. Dovremmo uscire come un unico popolo cristiano”. E’ questo il momento culmine, che tocca i cuori, che commuove, che fa scoppiare l’applauso. In una grande sala accanto segue un ricevimento. Chiara parla della sua predilezione per la Germania segnata da una doppia croce: la divisione politica e quella religiosa, di cui quella politica ormai è abbastanza risolta. Poi comunica un desiderio: “Quando verrò la prossima volta in Germania vorrei vedere anche un bel passo in avanti per quanto riguarda la seconda croce, la divisione tra le Chiese”. Un epilogo che sembrava superare il discorso tenuto in chiesa. Segue però un’altra finale, perché prima di accomiatarsi Chiara torna al microfono: “Perché non chiediamo ai due vescovi presenti (Sterzinsky e Kruse) di mostrare qui, adesso, davanti a tutti questo impegno?” La risposta è un fragoroso applauso. Con una stretta di mano viene espresso l’impegno di costruire quest’unico popolo di Dio. Ad essi si aggiunge anche il pastore battista Dietmar Luetz. Una nuova pagina si apre. (altro…)

Preghiera ecumenica di inizio Avvento nella chiesa evangelico-luterana di S. Anna di Augsburg

“Abbiamo sperimentato uno spostamento d’accento nella nostra visione dell’ecumenismo”. Così l’Oberkirchenrat emerito Johannes Merz, evangelico luterano, ha espresso in estrema sintesi le intense giornate vissute a fine novembre nella cittadella ecumenica di Ottmaring da 34 vescovi amici del Movimento dei Focolari di 7 Chiese, ortodossa, siro-ortodossa, anglicana, evangelico-luterana, vetero-cattolica, cattolica e Chiesa del Sud-India, provenienti da 12 Paesi. Tema-guida del Convegno è stato ‘L’amore cristiano come stile di vita ecumenico’. Con lo sguardo rivolto non a ciò che ci divide, ma alla grande ricchezza che i cristiani possono condividere e vivere insieme sin d’ora, si è aperto il convegno di quest’anno, il 17°, anche perché l’incontro era immerso nella vita pulsante della cittadella, in cui da più di 30 anni vivono sia cattolici del Movimento dei Focolari che la fraternità evangelico-luterana della Bruderschaft vom gemeinsamen Leben (Comunità di vita comune). Un “dialogo di popolo” quello che si è respirato sin dal primo momento, quando il convegno si è aperto con i vespri evangelici nella cappella gremita del Centro di incontri, e ogni volta che i vescovi si ritrovavano con gli abitanti della cittadella per assistere insieme alla liturgia di una delle Chiese presenti: momenti di profonda preghiera che hanno fatto assaporare le ricchezze delle Chiese d’Oriente e di quelle d’Occidente. Lo si è avvertito fortemente pure quando, in apertura di ogni giornata, dopo una meditazione biblica sul tema dell’amore cristiano proposta di giorno in giorno da un vescovo di una Chiesa diversa, giovani e famiglie di varie Chiese hanno raccontato esperienze di Vangelo vissuto e si è potuta cogliere in tutti una stessa vita ed una profonda comunione: la realtà di un unico popolo, quello di Cristo. E ancora quando si sono approfonditi gli effetti della spiritualità dell’unità nella Chiesa evangelico-luterana, anglicana e nelle Chiese d’Oriente: presentazioni incisive che hanno messo in luce come questa spiritualità non cancelli affatto i tesori che custodiscono le diverse tradizioni cristiane, ma anzi li illumini e li metta in rilievo. Ma il momento culmine è stato segnato dalla Preghiera ecumenica di inizio d’Avvento nella chiesa evangelico-luterana di Sant’Anna ad Augsburg. Nell’attiguo convento carmelitano Lutero aveva soggiornato nel 1518 durante i suoi colloqui con il cardinale Cajetano, ritenuti determinanti per i rapporti fra Lutero e Roma. In quel luogo carico di storia 900 persone sono convenute con i vescovi. Pezzi eseguiti con gli Ottoni e inni dei due cori della chiesa, il Madrigalchor ed il Posaunenchor, ben esprimevano la tradizione evangelica. Dopo alcune parole introduttive del decano dott. Rudolf Freudenberger e la lettura della preghiera di Gesù per l’unità – “Che siano uno, Padre, come io e te” – è intervenuta Chiara Lubich. In questo momento in cui persistono ostacoli sul cammino ecumenico, le sue parole sono scese in profondità. Non ha taciuto le difficoltà, ma ha dato loro un volto e un nome, quello di Gesù che sulla croce giunge a gridare l’abbandono del Padre “per riportare così gli uomini in seno al Padre e nel reciproco abbraccio”. “Non sarà difficile – ha detto – vedere proprio in Gesù abbandonato la stella più luminosa che deve illuminare il cammino ecumenico. In Lui la luce e la forza per non fermarsi nel trauma, nello spacco della divisione, ma per andare sempre al di là e trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile”. “L’amore reciproco con questa misura – ha ancora spiegato – porta ad attuare l’unità. Ed effetto dell’unità è la presenza viva di Gesù fra più persone nella comunità, come da lui promesso a due o più uniti nel suo nome. Gesù fra un cattolico e un evangelico che si amano, fra anglicani e ortodossi, fra un’armena e una riformata… Quanta pace sin d’ora, quanta luce per un retto cammino ecumenico. Avvertiremo di formare sin d’ora in certo modo, un solo popolo cristiano che potrà essere un lievito per la piena comunione tra le Chiese”. Parole che non solo hanno suscitato immediata adesione tra i presenti, ma che in quella chiesa erano un’esperienza viva, visibile. Piena la sintonia con il messaggio del card. Cassidy, Presidente del Pontifico Consiglio per l’unità dei cristiani, il quale, nella sua lettera ai vescovi, ha definito il Convegno “realtà e simbolo di koinonia (comunione)” ed ha invitato tutti a non dimenticare mai, tra le luci e ombre del cammino ecumenico “l’aiuto potente dello Spirito e la sua saggezza che ci infonde coraggio, determinazione, speranza”. E significativa la coincidenza con quanto il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I aveva espresso nel messaggio inviato ai vescovi, sottolineando l’urgenza di mostrare al mondo “in un modo tangibile e significativo che apparteniamo ad un’unica famiglia nella quale tutti i membri sono tra loro profondamente legati”. Se rimaniamo lontani gli uni dagli altri – aveva ribadito -“rafforziamo il senso di alienazione che investe la società umana contemporanea”. Il dialogo di popolo dunque, come via che apre nuove speranze, sigillata dal patto di amore vicendevole che i vescovi hanno stretto nella cappella del Centro di Ottmaring, rinnovando insieme le loro promesse battesimali. Ben esprimono l’esperienza e la speranza vissuta in quei giorni le parole del Patriarca Athenagoras citate dal metropolita rumeno-ortodosso Serafim nel suo intervento al Convegno: “Se uno si disarma, se si espropria, se si apre al Dio Uomo che fa nuove tutte le cose, allora, Lui cancella il passato e ci dona un tempo nuovo in cui tutto è possibile”. (altro…)

Ecumenismo di popolo per accelerare il cammino verso la piena unità delle Chiese

Si sono aperte nuove speranze per l’ecumenismo: la tappa più significativa è stata segnata durante la preghiera ecumenica di inizio d’Avvento ad Augsburg nella chiesa evangelico-luterana di sant’Anna, luogo dolorosamente carico di storia. Nel 1518 avviene l’incontro tra Lutero e il legato del Papa, cardinale Cajetano, ritenuto determinante per la rottura con la Chiesa di Roma. E proprio in questa chiesa si sono mostrati nuovi segni di unità. Sono presenti 34 vescovi, evangelico-luterani, ortodossi, anglicani, siro-ortodossi, cattolici, vecchio-cattolici, provenienti da 12 paesi, dall’India al Brasile, dalla Siria alla Germania, Gran Bretagna, Italia. Sono i vescovi amici dei Focolari che in quei giorni erano riuniti per il loro convegno annuale, il 17°, nella cittadella ecumenica dei Focolari ad Ottmaring nei pressi di Augsburg. La chiesa è gremita da evangelico-luterani, cattolici, e appartenenti alle Chiese libere. E’ un’esperienza viva, visibile, del dialogo della vita, di una vita sostanziata dall’amore del Vangelo, capace così di fare di molti cristiani un unico popolo costituito dall’unico battesimo, dal comune patrimonio delle Scritture, dai padri della Chiesa, dai primi Concilî , e dalla spiritualità ecumenica. Ed è questo ecumenismo di popolo – che non si contrappone a quello dei vertici, anzi lo sostiene – che Chiara Lubich rilancia in Germania: “Potrà essere lievito – ha detto – per la piena comunione visibile tra le Chiese”. Lo aveva detto anche a Berlino, nella chiesa evangelico-luterana della Memoria, invitata dal Consiglio Ecumenico di 26 Chiese, presieduto dal card. Sterzinsky, arcivescovo della città. Chiara parla del dialogo del popolo, di un unico popolo di Dio, dell’esperienza vissuta a Londra nel novembre ’96, quando la presenza del Risorto tra cattolici, anglicani e membri delle altre chiese uniti dall’amore scambievole, le aveva dato l’impressione che niente e nessuno potrà mai dividerci se Lui è in mezzo a noi. “Perché non anche qui e adesso?”. “Stasera – continua – siamo entrati come chiese diverse. Dovremmo uscire come un unico popolo cristiano”. Tra le altre tappe dell’intenso viaggio di Chiara Lubich in Germania: Aquisgrana, dove Chiara interviene, su invito del vescovo H. Mussinghoff, nel duomo di Carlo Magno sulla sua esperienza del dialogo tra le religioni, di estrema attualità in un’Europa dove musulmani e buddisti sono nostri concittadini. “Stiamo lavorando con la Chiesa – ha detto – affinché il pluralismo religioso dell’umanità non sia più causa di divisioni e di violenza, ma acquisti il sapore di una sfida: quella di ricomporre l’unità della famiglia umana al di là delle differenze”. E ancora Münster dove, nel duomo gremito dai giovani, su invito del vescovo Lettman, Chiara parla loro della sua vocazione, ma anche della chiamata, rivolta a ciascuno, a mettere Dio al primo posto: “Puntate in alto – chiede ai giovani – abbiamo una vita sola. Conviene spenderla bene”. (altro…)

Dicembre 1998

Ecco la grande novità annunciata e donata da Gesù all’umanità: la figliolanza di Dio, diventare figli di Dio per grazia. Ma come e a chi viene donata questa grazia? “A quanti lo accolsero” e a quanti lo accoglieranno nel corso dei secoli. Occorre accoglierlo nella fede e nell’amore, credendo in Gesù come nostro Salvatore. Ma cerchiamo di capire più in profondità cosa significhi essere figli di Dio. Basta guardare a Gesù, il Figlio di Dio, e al suo rapporto con il Padre: Gesù pregava il Padre suo come nel “Padre nostro”. Per lui il Padre era “Abbà”, cioè il babbo, il papà, cui egli si rivolgeva con accenti di infinita confidenza e di sterminato amore. Ma, giacché era venuto in terra per noi, non gli è bastato essere lui in questa condizione privilegiata. Morendo per noi, redimendoci, ci ha fatti figli di Dio, sorelle e fratelli suoi, e ha dato anche a noi, tramite lo Spirito Santo, la possibilità di essere introdotti nel seno della Trinità. Cosicché anche a noi è stata resa possibile quella sua divina invocazione: “Abbà, Padre!” (Mc 14,36 – Rm 8,15): “papà, babbo mio”, nostro, con tutto ciò che essa comporta: certezza della sua protezione, sicurezza, abbandono al suo amore, consolazioni divine, forza, ardore; ardore che nasce in cuore a chi è certo di essere amato.

«A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».

Ciò che ci fa uno con Cristo e con lui figli nel Figlio è il battesimo e la vita di grazia che ci viene da esso. In questo passo del Vangelo c’è, inoltre, una parola che svela pure il dinamismo profondo di questa “figliolanza” da realizzare giorno dopo giorno. Occorre, infatti, “diventare figli di Dio”. Si diventa, si cresce come figli di Dio, con la nostra corrispondenza al suo dono, vivendo la sua volontà che è tutta concentrata nel comandamento dell’amore: amore verso Dio e amore verso i prossimi. Accogliere Gesù significa, infatti, riconoscerlo in tutti i nostri prossimi. E anch’essi potranno avere la possibilità di riconoscere Gesù e credere in lui se nel nostro amore per loro scorgeranno un tratto, una scintilla dell’amore sconfinato del Padre.

«A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».

In questo mese, in cui ricordiamo specialmente la nascita di Gesù su questa terra, cerchiamo di accoglierci reciprocamente, vedendo e servendo Cristo stesso gli uni negli altri. E allora una reciprocità di amore, di conoscenza di vita come quella che lega il Figlio al Padre nello Spirito, si instaurerà anche fra noi e il Padre, e sentiremo affiorare sempre di nuovo sulle nostre labbra l’invocazione di Gesù: Abbà, Padre. Chiara Lubich (altro…)

Intervento di Chiara Lubich alla preghiera ecumenica di inizio Avvento

Un supplemento d’amore perché le Chiese siano ognuna dono per le altre

Come vediamo la situazione delle nostre Chiese ora, alle soglie del Terzo Millennio? Se noi cristiani diamo uno sguardo alla nostra storia di 2000 anni ed in particolare a quella del secondo millennio, non possiamo non rimanere ancora addolorati nel costatare come essa è stata spesso un susseguirsi di incomprensioni, di liti, di lotte. Colpa certamente di circostanze storiche, culturali, politiche, geografiche, sociali… Ma anche del venir meno fra i cristiani di quell’elemento unificatore loro tipico: l’amore. Proprio così. E allora, per poter tentare oggi di rimediare a così grave male, dobbiamo tener presente il principio della nostra comune fede: Dio. Egli, perché Amore, chiama pure noi ad amare. Non si può, infatti, pensare di poter amare gli altri se non ci si sente profondamente amati, se non è viva in tutti noi, cristiani, la certezza che Dio ci ama. In questi tempi mi sembra che è proprio Lui, Dio Amore, che, in certo modo, deve nuovamente tornare a rivelarsi non solo a noi singoli cristiani, ma anche alle Chiese che componiamo. Ed Egli ama la Chiesa per quanto si è comportata nella storia secondo il disegno che Dio aveva su di essa. Ma anche – e qui è la meraviglia della misericordia di Dio – la ama pure se non vi ha corrisposto, permettendo la divisione, solo nel caso però che ora ricerchi la piena comunione con le altre Chiese. E questa consolantissima convinzione emerge da un testo di Giovanni Paolo II, che ha fiducia in Colui che trae il bene dal male. Alla domanda: “Perché lo Spirito Santo ha permesso tutte queste divisioni?”, pur ammettendo che può essere stato per i nostri peccati, ha aggiunto: “Non potrebbe essere (…) che le divisioni siano state (…) una via che ha condotto e conduce la Chiesa a scoprire le molteplici ricchezze contenute nel Vangelo di Cristo e nella redenzione da Lui operata? Forse tali ricchezze non sarebbero potute venire alla luce diversamente…” (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 1994, p.167) Dobbiamo dunque credere che Dio è Amore anche per le Chiese. Ma, se Dio ci ama, noi non possiamo certo rimanere inerti di fronte a tanta divina benevolenza. Da veri figli e figlie dobbiamo contraccambiare il suo amore anche come Chiesa. Ogni Chiesa nei secoli si è, in certo modo, pietrificata in se stessa per le ondate di indifferenza, di incomprensione, se non di odio reciproco. Occorre perciò in ognuna un supplemento d’amore. Amore verso le altre Chiese, dunque, e amore reciproco fra le Chiese, quell’amore che porta ad essere ognuna dono alle altre, poiché si può prevedere che nella Chiesa del futuro una ed una sola sarà la verità, ma espressa in varie maniere, osservata da varie angolazioni, abbellita da molte interpretazioni. Amore reciproco però che è veramente evangelico, e quindi valido, se praticato nella misura voluta da Gesù: amatevi gli uni gli altri – Egli ha detto -, come io vi ho amato. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.” (Gv 15,13).

Gesù in croce nel culmine del dolore: chiave, luce e forza per ricomporre l’unità

E Lui l’ha data per noi, nella sua passione e morte, dove ha sofferto con l’agonia nell’orto, con la flagellazione, l’incoronazione di spine, la crocifissione, ma anche con quel culmine del suo dolore, che ha espresso nel grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Teologi e mistici affermano che questo patire fu la sua prova più alta, la sua tenebra più nera. Ora, sembra che, allo scopo di edificare pienamente la comunione nell’amore vicendevole, sia necessario oggi contemplare e riconoscersi particolarmente in quel dolore estremo. E si capisce. Se Gesù si era offerto a porre rimedio al peccato del mondo e quindi alla divisione degli uomini staccati da Dio e, di conseguenza, disuniti fra loro, non poteva compiere questa sua missione se non sperimentando in sé un’abissale separazione: quella di Lui, Dio, da Dio, sentendosi abbandonato dal Padre. Gesù però, riabbandonandosi al Padre (“Nelle tue mani consegno il mio spirito” – Lc 23,46), ha superato quell’infinito dolore e ha riportato così gli uomini in seno al Padre e nel reciproco abbraccio. Ma, se le cose stanno così, non sarà difficile vedere in Lui, proprio in Lui, Gesù abbandonato, la stella più luminosa che deve illuminare il cammino ecumenico. Sembra che un lavoro ecumenico sarà veramente fecondo in proporzione di quanto, chi vi si dedica, vedrà in Gesù crocifisso e abbandonato, che si riabbandona al Padre, la chiave per capire ogni disunità e per ricomporre l’unità. Questi trova in Lui la luce e la forza per non fermarsi nel trauma, nello spacco della divisione, ma per andare sempre al di là e trovarvi rimedio, tutto il rimedio possibile.

Effetto dell’unità vissuta: la presenza del Risorto nella comunità….

L’amore reciproco con questa misura porta così ad attuare l’unità. E l’unità vissuta ha un effetto, che è pure esso, per così dire, un pezzo forte per un ecumenismo vivo. Si tratta della presenza di Gesù fra più persone, nella comunità. “Dove due o tre – ha detto Gesù – sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.” (Mt 18,20). Gesù fra un cattolico ed un evangelico che si amano, fra anglicani e ortodossi, fra un’armena e una riformata… Quanta pace sin d’ora, quanta luce per un retto cammino ecumenico. Gesù in mezzo a noi è un dono, fra il resto, che rende meno penosa l’attesa del tempo in cui sarà condiviso da tutti noi sotto le specie eucaristiche. E necessita ancora un grande amore per lo Spirito Santo, Amore fatto Persona. Egli lega in unità le Persone della Santissima Trinità, ed è il vincolo fra le membra del Corpo di Cristo. Un solo popolo cristiano si compone, in certo modo, sin d’ora, lievito per la piena comunione tra le Chiese. So, anche per esperienza, che, se noi tutti vivremo così, ci saranno frutti eccezionali. Si avrà soprattutto un particolare effetto: vivendo assieme questi diversi aspetti del nostro cristianesimo, avvertiremo di formare, sin d’ora, in certo modo, un solo popolo cristiano che potrà essere un lievito per la piena comunione tra le Chiese. Sarà quasi l’attuarsi di un altro dialogo, dopo quello della carità, quello teologico e della preghiera: un dialogo della vita, il dialogo del popolo di Dio. Dialogo più che urgente ed opportuno se è vero, come la storia insegna, che vi è poco di garantito in campo ecumenico, quando non vi è coinvolto il popolo. Dialogo che farà scoprire con maggior evidenza e valorizzare tutto il grande patrimonio già comune fra noi cristiani, costituito dal battesimo, dalla Sacra Scrittura, dai primi Concili, dai Padri della Chiesa, eccetera. Attendiamo di vedere realizzarsi questo popolo, popolo che già qua e là sta apparendo. Sarà senz’altro utile, anche in questo momento, rinnovare l’impegno di vivere così come Gesù vuole. In verità niente è più urgente nel mondo di una potente corrente d’amore, se vogliamo sperare in quella civiltà dell’amore, che il Terzo Millennio sembra si aspetti da noi.   (altro…)

Novembre 1998

“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”. Come forse ricorderai, un giorno, Gesù, nel discorso della montagna, rivoluzionando il modo di pensare umano, ha chiamato “beate” persone che, a prima vista, sembrano tutt’altro che felici: i poveri, i perseguitati, i miti, quelli che si dedicano a rappacificare gli animi… Con la parola, poi, che egli propone oggi alla tua attenzione, sembra addirittura affermare l’assurdo: sono beati quelli che proprio non lo sono: gli afflitti, i desolati, quelli che piangono. Ti chiederai: come si può spiegare questa affermazione?

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

Il Messia è venuto per realizzare la profezia di Isaia, che annuncia l’ora in cui avranno consolazione coloro che sono nel dolore: “Tutti gli afflitti saranno consolati” (cf Is 61, 2-3). Egli infatti sa che chi soffre è fortunato, è beato perché è più pronto ad accogliere la sua parola e quindi ad entrare nel suo Regno, e sa come lo stato di afflizione, in cui si trova il mondo, può trasformarsi per lui in vita di gioia. Rivolgendosi agli afflitti, Gesù non ha in mente una categoria particolare di sofferenti, ma pensa a chiunque pena, sia adulto o bambino, uomo o donna, di qualsiasi razza o latitudine, per qualsiasi causa: una disgrazia, una calamità, una malattia, la perdita di una persona cara o di beni materiali o della stima; pensa a delusioni, ad angosce mute del cuore… Gesù pensa a tutti questi ed anche a te, se in questo momento soffri.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

“Saranno consolati”. Certamente, usando il verbo al futuro, Gesù allude a quel tempo in cui a coloro che hanno sofferto, e sofferto bene, Dio stesso “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21,4). Tutto questo, che avverrà quando il suo Regno sarà instaurato, suscita già nel cuore la speranza che dimezza il dolore. Ma Gesù, con queste sue parole, non vuole portare chi è infelice alla semplice rassegnazione promettendo una compensazione futura. Egli pensa anche al presente. Il suo Regno infatti, anche se in maniera non definitiva, è già qui. Esso è presente in Gesù che, risorgendo da una morte sofferta nella più grande afflizione, ha vinto la morte. Ed è presente anche in noi, nel nostro cuore di cristiani: Dio è in noi. La Trinità vi ha preso dimora. E allora la beatitudine annunziata da Gesù può verificarsi sin d’ora.

«Beati gli afflitti, perché saranno consolati».

Nel Regno portato da Gesù, la consolazione può essere quindi una tua esperienza quotidiana. Naturalmente, occorre una condizione! Che tu viva da figlio di questo Regno e imposti la tua vita secondo le sue leggi, secondo le esigenze di Gesù. Egli ha detto che le sofferenze che ci sovrastano vanno accettate così come le ha accolte lui. Vuole che tu “prenda” la tua croce, non che la odi, non che la ripudi, non vuole che tu la respinga, che la trascini. Occorre che tu l’ami. Vuole che la sistemi bene sulle tue spalle, anzi: che la brandisca come una fiaccola, come una bandiera. Allora, ecco il miracolo del Regno: Dio te la rende leggera; senti che la puoi portare ed arrivi, persino, a sorridere in mezzo alle lacrime. C’è una forza in te che non è da te: viene da lui. E comprendi perché egli parli di “giogo leggero e soave”. Le sofferenze possono permanere, ma c’è un nuovo vigore che ci aiuta a portare le prove della vita e ad aiutare gli altri nelle loro pene, a superarle, a vederle, come Lui le ha viste, e accoglierle, quale mezzo di redenzione. Chiara Lubich (altro…)

Rivista Nuova Umanità n. 119

Editoriale PER UNA CULTURA RINNOVATA. ALCUNE PISTE DI RIFLESSIONE – di Giuseppe Maria Zanghí – La grande crisi dei nostri tempi nel mondo di cultura occidentale, come già aveva osservato Paolo VI, è la frattura tra Evangelo e cultura. Attualmente la Conferenza episcopale italiana sta lavorando per l’elaborazione di un progetto culturale. L’A. avvia alcune piste di riflessione su questa sfida per la realtà cristiana attuale. Egli cerca così di tratteggiare, in alcuni breve paragrafi, una risposta a questo problema. Nella luce dell’ideale dell’unità IL MOVIMENTO DEI FOCOLARI NEI SUOI ASPETTI POLITICO E SOCIALE – di Chiara Lubich – AL CONSIGLIO D’EUROPA PER IL PREMIO EUROPEO DEI DIRITTI DELL’UOMO – di Chiara Lubich – Il 15 settembre 1998 Chiara Lubich ha presentato a un gruppo di deputati del Parlamento Europeo, il Movimento dei Focolari e in particolare il suo impegno per una economia di comunione e una politica rinnovata. Il 22 settembre ha ricevuto, sempre a Strasburgo, assieme alla Fondation des droits de l’homme della Turchia e al Committee on the Administration of Justice dell’Irlanda del Nord, il “Premio Europeo dei Diritti dell’uomo 1998”. Riportiamo i testi dI entrambi i discorsi. ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL NIRVANA NEL BUDDISMO THERAVADA ALLA LUCE DELLA SPIRITUALITÀ DELL’UNITÀ – di Enzo Maria Fondi – L’A. compie una rivisitazione della dottrina sul Nirvana in cui si condensa l’insegnamento buddista e raggiunge l’apice di una spiritualità che non si finisce di scoprire e approfondire, solo che si accantonino metri di valutazione legati a categorie di pensiero occidentali. Nell’attuale “dialogo delle spiritualità” acquista rilevanza l’esperienza e la dottrina di Chiara Lubich, quale strumento di incontro e di reciproca comprensione. La “kenosi” di Gesù nel suo abbandono e a trasparenza di Maria sono motivi di vita e di riflessione che aprono nuove frontiere al dialogo con i buddisti più impegnati nella via della perfezione. Saggi e Ricerche L’ESCATOLOGIA FISICA DI TIPLER – 2. – CONGETTURE METASCIENTIFICHE TRA MITO ED IDEOLOGIA – di Sergio Rondinara – A partire dalle argomentazioni antropiche il fisico Frank Tipler delinea mediante il sapere scientifico ed una sua ipotetica trasposizione tecnologica la possibilità che in un lontano futuro una intelligente elaborazione di tutte le informazioni realizzi il controllo totale sull’intera evoluzione cosmica dischiudendo così il telos dell’intero processo cosmico: l’escathon, il Punto Omega (un Dio-che-si-evolve). Secondo le aspettative di Tipler un tale modello di “dio” dovrebbe dare risposta alla domanda sul senso dell’intera evoluzione cosmica; ma a causa di una visione riduzionista e immanentista della realtà che permea tutto il suo pensiero, insieme al carattere intrinsecamente ipotetico della teoria del Punto Omega, tale modello oscilla tra una posizione mitica ed una ideologica. TRE ECLISSI – di Giovanni Casoli – “Verità, bene, bellezza sono le nostre vie dall’essere, sono i suoi aspetti inseparabili”. Partendo da questa considerazione l’A. riflette sull’oblio del bello, del bene e del vero nella nostra società attuale, per giungere alla conclusione che “si può fare autentica esperienza dell’essere solo se si fa esperienza dell’uno” come pienezza sinfonica della bellezza, bontà e verità del Creatore. Il RUOLO DELLA RELAZIONE EDUCATIVA NELLA PROGETTAZIONE DELLA SCUOLA. Riflessioni a partire dalla PROPOSTA per il RIORDINO DEI CICLI SCOLASTICI DEL MINISTRO BERLINGUER – di Claudio Guerrieri – Nella direzione d’una pedagogia “centrata sulla relazione interpersonale”, si rilegge la proposta Berlinguer per il riordino dei cicli scolastici evidenziando che in essa non si sottolinea quanto sarebbe auspicabile il ruolo della relazione educativa, entro cui ogni formazione assume significato se non vuole ridursi ad un mero esercizio d’addestramento rispetto alle procedure scientifiche e si indica come orizzonte valoriale quello definito da libertà e responsabilità. Perché le generazioni seguenti non cadano nell’asimbolia e nella rassegnazione vanno qualificate la relazione educativa ed i docenti, chiamati a svolgere il ruolo di persona – criterio. La scuola può e deve divenire un ambiente in cui abbia spazio anche la conoscenza affettiva. Conoscere se stessi non è operazione aliena dalla costruzione di un percorso cognitivamente, esistenzialmente e socialmente significativo e coincide con una conoscenza degli altri che comporta l’incontro con le alterità educanti nonché con i sistemi di significato prodotti dall’interazione umana. Spazio letterario LIRICHE – di Michele Genisio – “Nuova Umanità” continua nelle sue pagine l’apertura di spazio dedicato alla produzione letteraria. Per il dialogo SPIRITUALITÀ’ DEL DIALOGO – di Marcello Zago – Il dialogo è la grande novità promossa dal Concilio Vaticano II ed esso aiuta a capire e ad esercitare la missione nel mondo moderno. Le potenzialità di questa visione conciliare non si sono pienamente sviluppate e l’A. ci presenta qui un documento, destinato alla preparazione della Plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso. Esso è diviso in cinque parti, che richiamano gli aspetti generali del dialogo e l’importanza della spiritualità cristiana come fondante il dialogo stesso. Libri LA PAROLA EBREO – di Pasquale Lubrano – “La parola ebreo” di Rosetta Loy, uno degli ultimi libri che ha riacceso in Italia il dibattito sulla posizione della Chiesa cattolica durante la Shoah. La scrittrice riassapora antiche atmosfere, ricerca fatti e documenti, ma è una ricerca che muove dal proprio movimento interiore. Ne vien fuori un libro originale che non è un romanzo, né una testimonianza storica, ma neanche un saggio sull’antisemitismo italiano, pur possedendo di tutti questi generi letterari elementi caratteristici; un libro che ci spinge a lavorare molto di più affinché gli uomini imparino ad amare le razze altrui, la religione altrui, come la propria. (altro…)

Per il contributo ad un’economia al servizio dell’uomo, il Governo brasiliano ammette Chiara Lubich nell’Ordine Nazionale della Croce del Sud

Ha motivato il riconoscimento in particolare il progetto di Economia di Comunione lanciato da Chiara Lubich durante la sua visita in Brasile nel 1991, progetto che propone un nuovo paradigma economico, ora attuato da centinaia di aziende nei 5 continenti, proiettando il nome del Brasile nel mondo intero. La Croce del Sud è la più alta onorificenza assegnata dal Governo Brasiliano a stranieri che hanno contribuito al progresso del Paese. Lo scorso anno è stato assegnato al Presidente francese Chirac. Il progetto dell’Economia di Comunione ha interessato recentemente anche deputati brasiliani, ed economisti. L’Università cattolica del Pernambuco (UNICAP) ha assegnato a Chiara Lubich, in occasione di un’altra sua visita nel maggio scorso, il dottorato h.c. in Economia, ed ha avviato anche una collaborazione nel campo della ricerca per l’elaborazione di una nuova teoria economica. Il Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich nel 1943  si è diffuso in Brasile dal 1959. Conta oltre 15.000 membri. Circa 300.000 gli aderenti dal nord al sud del Paese. Fin dagli inizi il Movimento è profondamente coinvolto nel concorrere alla soluzione delle problematiche sociali. 120 le opere sociali: dai campesinos, a Magnificat nel Maranhão, ai mocambos alla periferia di Recife, alla Favela da Pedreira, San Paolo, e al Bairro do Carmo di São Roque, comunità dei discendenti degli schiavi neri. Le azioni promosse dai Focolari hanno come obiettivo la promozione della persona, il miglioramento della qualità di vita, rendendola così atta a svolgere un ruolo attivo e responsabile nella società. Il Movimento, diffuso in oltre 180 Paesi, è impegnato a concorrere all’unità della famiglia umana, contribuendo a sanare disparità e conflitti sociali, razziali, religiosi. E’ aperto anche in Brasile al dialogo con persone di convinzioni non religiose, fedeli di diverse religioni e cristiani di varie Chiese. Impegno riconosciuto nel maggio scorso dalle università di S. Paolo USP (Università Statale) dove è intervenuto l’on. Montoro e PUC (Pontificia). (altro…)

Ottobre 1998

Quante volte nella vita senti il bisogno che qualcuno ti dia una mano e nello stesso tempo avverti che nessuno può risolvere la tua situazione! E’ allora che ti rivolgi inavvertitamente a qualcuno che sa rendere le cose impossibili possibili. Questo qualcuno ha un nome: è Gesù. Ascolta quanto ti dice: “Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”. E’ ovvio che l’immagine non va presa alla lettera. Gesù non ha promesso ai discepoli un potere di fare miracoli spettacolari per stupire la folla. Sradicare e trapiantare nel mare è un’iperbole, cioè un modo di dire volutamente esagerato, per inculcare nella mente dei discepoli il concetto che alla fede nulla è impossibile. Ogni miracolo infatti che Gesù ha operato, direttamente o attraverso i suoi, è sempre stato fatto in funzione del Regno di Dio o del Vangelo o della salvezza degli uomini. Sradicare un gelso non servirebbe a questo. Il paragone col “granellino di senapa” sta a indicare che Gesù non ti domanda una fede più o meno grande, ma una fede autentica. E la caratteristica della fede autentica è quella di poggiare unicamente su Dio e non sulle tue capacità. Se ti assale il dubbio o l’esitazione nella fede significa che la tua fiducia in Dio non è ancora piena: hai una fede debole e poco efficace, che fa ancora leva sulle tue forze e sulla logica umana. Chi invece si fida interamente di Dio, lascia che lui stesso agisca e… a Dio niente è impossibile. La fede che Gesù vuole dai discepoli è proprio quell’atteggiamento pieno di fiducia che permette a Dio stesso di manifestare la sua potenza. E questa fede non è riservata a qualche persona eccezionale. Essa è possibile e doverosa per tutti i credenti.

«Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe».

Si pensa che Gesù abbia detto queste parole ai suoi discepoli quando stava per inviarli in missione. E’ facile scoraggiarsi e spaventarsi quando si sa di essere un piccolo gregge impreparato, senza talenti particolari, di fronte a folle innumerevoli alle quali bisogna portare la verità del Vangelo. E’ facile perdersi d’animo di fronte a gente che ha tutt’altri interessi che il Regno di Dio. Sembra un compito impossibile. E’ allora che Gesù assicura i suoi che con la fede “sradicheranno” l’indifferenza e il disinteresse del mondo. Se avranno fede nulla sarà loro impossibile. Questa frase può essere inoltre applicata a tutte le altre circostanze della vita, purché siano in ordine al progresso del Vangelo e alla salvezza delle persone. Alle volte, di fronte a difficoltà insormontabili può nascere la tentazione di non rivolgersi nemmeno a Dio. La logica umana suggerisce: basta, tanto non serve. Ecco allora che Gesù esorta a non scoraggiarsi e a rivolgersi a Dio con fiducia. Egli, in un modo o nell’altro, esaudirà. Così è successo a Lea. Erano trascorsi alcuni mesi dal giorno in cui aveva affrontato, piena di speranza, il nuovo lavoro in un paese straniero. Ma ora un senso di sgomento e di solitudine le attanagliava l’anima. Sembrava che tra lei e le altre ragazze con cui lavorava e viveva si fosse eretta una barriera insormontabile. Si sentiva isolata, straniera tra la gente che avrebbe voluto soltanto servire con amore. Tutto dipendeva dal dover parlare una lingua che non era né sua, né di chi l’ascoltava. Le avevano detto che tutti parlavano il francese e se l’era imparato, ma, venuta a contatto diretto con quel popolo s’era accorta che studiava il francese soltanto a scuola e in genere lo parlava malvolentieri. Tante volte aveva tentato di “sradicare” l’emarginazione che la teneva lontana dalle altre, ma invano. Che poteva fare per loro? Vedeva ancora davanti a sé il volto della sua compagna Marie pieno di tristezza. Quella sera si era ritirata nella sua stanza senza toccar cibo. Lea aveva tentato di seguirla, ma si era arrestata davanti alla porta della sua camera, timida e titubante. Avrebbe voluto bussare… ma quali parole usare per farsi intendere? Era rimasta lì per qualche secondo, poi si era arresa ancora una volta. La mattina dopo entrò in chiesa e si mise in fondo, fra le ultime sedie, col viso tra le mani per non far scorgere ad alcuno le lacrime. Era quello l’unico posto dove non occorreva parlare un’altra lingua, dove non era neppure necessario spiegarsi, perché c’era Qualcuno che capiva al di là delle parole. Fu la certezza di quella comprensione che la fece ardita, e chiese a Gesù: “Perché non posso dividere con le altre ragazze la loro croce e dire quelle parole che tu stesso mi hai fatto capire quando ti ho trovato: che ogni dolore è amore?” E stava lì quasi ad attendere una risposta da chi nella vita le aveva illuminato ogni buio. Abbassò gli occhi sul Vangelo di quel giorno e lesse: “Confidate – abbiate fede – ho vinto il mondo” (cf Gv 16,33). Quelle parole scesero come olio nell’anima di Lea, ed ebbe una grande pace. Rientrando per la colazione si imbatté subito in Agnés, la ragazza che badava all’ordine della casa. La salutò e la seguì fino alla dispensa; poi, senza parlare, cominciò ad aiutarla nel preparare la colazione. La prima a scendere dalle stanze fu Marie. Veniva in cucina a cercarsi il caffè, in fretta per non veder nessuno. Ma lì si arrestò: la pace di Lea aveva toccato il suo animo in modo più forte di qualunque parola.  Quella sera, sulla strada del ritorno verso casa, Marie raggiunse Lea con la bicicletta e, sforzandosi di parlare in modo a lei comprensibile, le sussurrò: “Non sono necessarie le tue parole; oggi la tua vita mi ha detto: ‘Ama anche tu!'” La fede aveva vinto.

«Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe».

Chiara Lubich (altro…)

PREMIO EUROPEO DEI DIRITTI DELL’UOMO 1998 assegnato dal Consiglio d’Europa a CHIARA LUBICH

Il premio è assegnato ogni tre anni ad una personalità o organizzazione che si è distinta nella promozione o difesa dei diritti dell’uomo in conformità ai principi di libertà individuale, di libertà politica e di rispetto del diritto. Istituito nel 1980, il premio, onorifico, è stato assegnato tra gli altri, alla sezione medica di Amnesty International (1983), agli ex presidenti argentino Raul Alfonsin (1986), polacco Lech Walesa e alla International Helsinki Federation of Human Rights (1989), ai “Médecins sans frontières” (1992). Dal comunicato ufficiale del Consiglio d’Europa: Nata il 22 gennaio 1920 a Trento, nell’Italia del Nord, Chiara Lubich ha dato vita nel 1943 al Movimento dei Focolari. Operando per l’unità tra i popoli col dialogo e l’azione concreta in favore della pace senza frontiere, il movimento è attualmente presente in 180 Paesi e ispira l’azione e la vita di milioni di uomini e donne di diverse religioni e convinzioni. La difesa dei diritti individuali e sociali è al cuore della sua azione in Europa e nelle numerose altre zone del mondo. Giovani, adultj, alti dirigenti civili e religiosi sono coinvolti nell’azione condotta da Chiara Lubich per far progredire la causa dei diritti dell’uomo, la pace e l’unità fra i singoli e tra i popoli. Hanno inviato messaggi di congratulazione: il Segretario generale del Consiglio d’Europa, Daniel Tarschys, l’inviato speciale della s. Sede mons. Courtney, il Presidente della Repubblica italiana Oscar Luigi Scalfaro e il presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi. Dal comunicato del Consiglio d’Europa: La Fondation des droits de l’homme de Turquie, organizzazione non governativa creata nel 1990, ha avuto un ruolo eccezionale nella difesa dei diritti dell’uomo in Turchia lungo gli ultimi sette anni. La sua ragion d’essere ed il suo scopo sono mettere in pratica nel Paese i valori universali riconosciuti dalle convenzioni internazionali e contribuire alla lotta per l’ eliminazione della tortura e delle altre violazioni dei diritti dell’ uomo. Le sue attività sono orientate verso due obiettivi principali: il progetto di un Centro di documentazione e di centri di trattamento e di riadattamento. E’ recente la realizzazione di attività nel campo dell’educazione ai diritti dell’uomo. Creato nel 1981, il Committee on the Administration of Justice (CAJ) è un gruppo intercomunitario che si dedica a difendere le più alte norme giudiziarie in Irlanda del Nord, vigilando che il Governo rispetti i suoi obblighi di diritto internazionale. Dalla sua fondazione, il CAJ non ha smesso di operare imparzialmente per la difesa dei diritti dell’uomo in tutta l’Irlanda del Nord. Secondo il Comitato, al cuore del conflitto vi sono problemi di giustizia e di equità; inoltre, nello stesso tempo ritiene intrinsecamente importante ed essenziale risolvere questo conflitto operando contro le violazioni dei diritti dell’uomo in vista di mettervi fine. Organizzazione politica fondata nel 1949, il Consiglio d’Europa opera per il rafforzamento della democrazia e dei diritti dell’uomo su scala continentale. Elabora risposte comuni alle sfide sociali, culturali e giuridiche che esistono nei suoi 40 Stati membri. I giornalisti che desiderano essere presenti a Strasburgo sono pregati di presentare le proprie credenziali direttamente al Servizio Stampa del Consiglio d’Europa – (Tel. 0388412000) (altro…)

Settembre 1998

Hai mai sentito nel tuo cuore il desiderio di compiere grandi azioni? Penso di sì. Hai mai avvertito un’attrattiva verso persone che hanno saputo emergere dalla normalità perché hanno compiuto opere di rilievo, nobili, degne di ammirazione, come gli eroi o i grandi testimoni del Vangelo? Credo di sì. È un’aspirazione comune all’uomo e alla donna perché il destino loro è grande. Purtroppo però il più delle volte si è incapaci di realizzarlo, perché non si trova la via per poter essere all’altezza nei momenti particolarmente impegnativi e difficili della vita. Se non ti dispiace, ti suggerisco un modo. Senti Gesù: «Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto» Queste parole esistevano prima di Cristo ed erano probabilmente un proverbio. Gesù le ha assunte nel suo insegnamento, dando loro un’importanza nuova. Le troviamo nel Vangelo di Luca, in un brano in cui Gesù parla del denaro. Hanno quindi anzitutto significato sul piano dell’amministrazione, ma si possono applicare alle molteplici situazioni della vita. Gesù sottolinea con esse che l’essere fedeli nelle piccole cose è un test efficace per sapere che si sarà altrettanto fedeli nelle cose grandi. Inoltre se Gesù richiede la fedeltà nel poco vuol dire che niente è piccolo di ciò che la vita domanda. Niente è piccolo di ciò che si fa per compiere la sua volontà. Niente è piccolo di quello che si fa per amore.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

Quante piccole cose nelle tue giornate! C’è la tavola da sparecchiare, quella risposta da dare, quel lavoro noioso e sempre uguale da compiere, quella macchina da guidare, quello studio da terminare, quel pasto da preparare, quell’attività da organizzare, quello strumento da suonare, quell’indumento da riporre, quella carta da raccogliere, quel sorriso da offrire, quell’articolo da scrivere, quell’avvenimento lieto da condividere. Come devi compiere queste piccole azioni? Non lasciandoti mai prendere dalla fretta. Compiendo tutto con perfezione. Essendo proiettato con tutto il tuo essere in quella cosa da fare. La fedeltà nelle piccole cose si identifica col vivere bene il momento presente della vita.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

Il molto? Sì, gli avvenimenti inconsueti della vita: un grave incidente, una calamità naturale che ti tocca, la morte d’una persona cara, un successo che può darti alla testa, un’eredità impensata, un grosso dispiacere che non immaginavi, una responsabilità che ti piomba addosso… E, in certe nazioni, tutti gli imprevisti della guerra. Come il caso di quel giovane libanese ventunenne. Il suo nome è Fuad. Aveva imparato a vivere bene nell’amore, le circostanze comuni della vita, le piccole cose. Ritornato, dopo un convegno a Roma, nel Libano, dove ancora infuriava la guerra civile, viene fermato da alcuni uomini armati a tre chilometri dall’aeroporto sulla strada per Beirut. Il momento è difficile. Sulla carta di identità gli uomini leggono: cristiano-maronita. «Sì, sono cristiano-maronita – ammette Fuad – e sto tornando a casa». «Tu vieni con noi» gli rispondono. Interrogatorio. Alla fine: «Tu sai quello che ti aspetta?» Il ragazzo capisce che per lui è tutto finito. Uno dei miliziani lo preleva e lo porta verso un ponte dove erano stati uccisi parecchi cristiani. Mentre cammina cerca di calmare l’agitazione interiore e pensa che cosa Dio può voler da lui in quel momento. Amare questo prossimo, gli viene in mente. Cerca dunque di far sentire a quell’uomo tutto l’amore. Parla: «Deve essere difficile, brutto, questo mestiere… fare la guerra…». Arrivato in vista del ponte, il miliziano si ferma, lo guarda ed esclama: «Torniamo indietro». Al commando poi parla con altri. Uno di questi si avvicina al giovane e gli dice: «Sei stato fortunato, perché a quello hanno ammazzato il fratello pochi giorni fa». Come per dire: se c’era uno che ti poteva ammazzare volentieri, era proprio lui. Così Fuad, che era stato in Dio nei piccoli avvenimenti della vita, lo è stato anche in questo.

«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto»

E Dio lo ha salvato. Chiara Lubich   (altro…)